Il prezzo della sottomissione (parte 3)
di
Kugher
genere
sadomaso
In quei tre giorni i coniugi erano eccitati per l’attesa dell’evento ma non fecero sesso tra loro, più concentrati sulla nuova avventura che sulla coppia.
Simona si presentò a casa di Niccolò con circa 10 minuti di anticipo.
Era eccitata, erano eccitati, sia lei sia suo marito che aveva assistito alla preparazione e si era eccitato all’idea che lei andasse a consegnarsi ad altro uomo. Gli piaceva aiutarla a prepararsi e immaginare l’uso che il Padrone avrebbe potuto farne.
Giorgio la osservò infilarsi le mutandine e le autoreggenti. Vide che non mise il reggiseno anche perché il seno sodo non aveva bisogno di quell’indumento. Provò una reazione quando attraverso il vestito aderente individuò i capezzoli della moglie.
Erano entrambi troppo presi dalla preparazione e dall’eccitazione che provavano per rendersi conto che ciascuno provava piacere per sé e non per complicità. Era come se fossero due desideri autonomi nati nella stessa stanza.
Il viaggio era iniziato, quel viaggio che li avrebbe portati all’incidente che, un giorno, Giorgio avrebbe raccontato al suo amico, trovato per caso al bar, dopo che sua moglie si era allontanata.
Simona suonò al citofono di Niccolò, ma nessuno le aprì, lasciandola in strada.
Quell’uomo aveva il potere di farla incazzare, quello stesso potere che la teneva ad un guinzaglio che già si sentiva addosso. Non avrebbe mai pensato di provare quella strana sensazione nel non vedersi sempre accontentata dall’uomo ma, anzi, tenuta a distanza, una distanza che si sarebbe accorciata non per scelta sua, ma altrui.
Cominciava ad “annusare” il dominio, l’appartenenza.
La perdita del controllo che passava ad altri era fonte di formicolio alla bocca dello stomaco che, pur ivi persistendo, scendeva tra le cosce e le faceva bagnare le mutandine.
Non stava pensando a suo marito.
Suo marito pensava a lei ma solo per eccitare sé stesso.
Niente, quella maledetta porta non si apriva, nemmeno dopo l’orario concordato, anzi, l’orario comunicatole unitamente all’ordine di presentarsi.
Era tentata di andarsene ma era più forte il desiderio di restare.
Le aprì 10 minuti dopo l’orario. Non seppe mai se già aveva deciso di aprirle in ritardo oppure se il tempo di 10 minuti coincidesse col suo anticipo, come per punirla di non essere stata puntuale.
Il pensiero della punizione la scosse.
Non gli disse nulla per il ritardo nell’apertura, benchè per lei, tempo addietro, sarebbe stato inconcepibile che qualcuno, sapendola in attesa, la lasciasse fuori dalla porta, addirittura in strada, imbarazzata per gli sguardi di chi, passando per la seconda volta qualche minuto dopo, ancora la vedeva lì in attesa.
Niccolò la osservò come si potrebbe guardare una bella macchina, un bel quadro.
D’altro canto lei aveva staccato il corpo dall’anima, per cercare la soddisfazione fisica del primo, parimenti lui la vedeva come corpo essendosi lei presentata in quel modo.
“Andiamo a cena fuori. Voglio essere l’uomo più invidiato del ristorante”.
Quel tipo era incredibile. Sapeva farla sentire importante e apprezzata tanto quanto sapeva farla sentire un oggetto. Più avanti avrebbe avuto modo di scoprire che come tale l’avrebbe trattata.
Le piaceva quell’altalena nella quale lui la lanciava in aria esaltandola per poi farla scendere a terra, ai suoi piedi, come una schiava.
Lui era già pronto e non la fece entrare in casa.
“Togliti le mutandine e andiamo”.
Non era una richiesta, ma un ordine impartito col tono di chi non si aspetta altro che l’esecuzione.
“Qui sulla porta?”
La guardò senza risponderle. Lo sguardo era fermo, quasi severo. Sembrava le stesse dicendo che lui non ripete due volte lo stesso ordine.
Più avanti avrebbe scoperto che era esattamente così. Lui, il Padrone, non ripeteva due volte l’ordine. La mancata e perfetta esecuzione immediata le sarebbe sempre costata una punizione, il più delle volte coincidente col dolore, altre con vari tipi di privazione che portavano al controllo sempre più esclusivo.
Si sentì in soggezione e quella sensazione, nuovamente, trovò ospitalità tra le cosce.
L’arroganza, la sicurezza, il potere che emanava quell’uomo molto più anziano di lei, le dava un senso particolare e si sentiva soggiogata.
Lo volle sfidare e, guardandolo negli occhi, senza curarsi se in quel momento stesse passando qualcuno, si levò le mutandine e le appoggiò a terra all’ingresso.
Anche lui non le staccò lo sguardo e lei percepì che era di compiacimento nell’osservare l’esecuzione del suo desiderio.
Quella bella giovane donna stava promettendo bene, come schiava.
Lei provò a provocarlo con movenze sensuali del suo corpo, ma lui fece finta di nulla.
Questa cosa tanto la mandava in bestia, quanto la eccitava.
Lui la toccò solo mentre erano in auto, quando lei aveva abbandonato la provocazione anche perchè trovava umiliante (ma eccitante) essere ignorata.
Mancava un chilometro al ristorante quando lui le posò una mano sulla coscia, come fosse cosa normale e, soprattutto, come fosse suo diritto. Sembrava, anzi, era un'affermazione di possesso.
Lei allargò appena le gambe pensando che volesse salire.
Più avanti ebbe modo di capire che quella sera lui aveva iniziato ad educarla, a farle capire che lei sarebbe stata una schiava e, in quanto tale, sempre e solo a disposizione delle sue voglie. Lei avrebbe dovuto essere solo passiva. Se avesse avuto voglia di usarla, l’avrebbe presa. Se non ne aveva voglia l’avrebbe lasciata in un angolo, in attesa.
Così non salì verso la vagina ed ignorò il suo gesto, pur apprezzandolo.
Era chiaro ad entrambi che lei voleva provocarlo e guidarlo tra le cosce. Per questo lui rimase fermo. Conduceva lui, non lei.
Quella sera ebbe un primo serio assaggio dell’altalena, quell’insieme di sensazioni forti e contrastanti, in salita ed in discesa, in continuo alternarsi e che erano come docce fredde che la sconvolgevano.
Non vi era abituata ed era adrenalina.
Lo avrebbe scoperto sempre più col tempo.
Usciti dall’auto, la prese per mano dirigendosi al ristorante, trasmettendole confidenza e serenità, quasi fossero una coppia affiatata ancora nel pieno delle reciproche emozioni.
Lui vide la fiorista che stava chiudendo la serranda del suo negozio.
Accelerò il passo tirandola per mano e ridendo assieme, quasi stessero correndo su un prato a piedi nudi.
Si chinarono sotto la serranda in chiusura per entrare.
“Signora, non vorrà mica chiudere e lasciare questa donna meravigliosa senza il fiore che merita”.
“Fiore che merita”. Più tardi, quella stessa sera, avrebbe appreso il significato di quella frase che in quel momento le fece illuminare il viso.
Le comprò la rosa più bella e rossa, ancora bagnata quasi fosse rugiada.
Nel ristorante la fece sentire la donna più bella del locale e, in realtà, lo era.
Al tavolo si avvicinarono amici di Niccolò i cui nomi lei aveva letto sui giornali.
Ancora l’altalena con quelle forti sensazioni quando la presentò con eleganza, ma come fosse roba sua. Era una leggera inflessione che lei aveva colto, conoscendo la natura del loro iniziale rapporto.
Era sicura che gli interlocutori, tanto austeri, non avrebbero capito quelle sfumature che lei pensava facessero parte del loro gioco.
Si sbagliava, invece. Lo avrebbe scoperto più avanti nel tempo.
L’antipasto era eccezionale e, mentre attendevano il piatto successivo, lui le disse di togliere alla rosa tutte le spine tranne una.
“Questa rosa è come te, e sarà il simbolo di questa serata”.
Era evidente che più che una richiesta si trattasse di un ordine, ma dato con la calma tipica di chi sa che verrà eseguito, come se avesse chiesto al cameriere di portargli un po’ di acqua.
Lei era inebriata dall’ambiente raffinato e dalle amicizie che quell’uomo aveva.
L’altalena le lasciò forti sensazioni, a lei sconosciute sino a quella sera.
Lui fu squisito anche se sempre fermo e con tono sicuro, autoritario.
Simona si presentò a casa di Niccolò con circa 10 minuti di anticipo.
Era eccitata, erano eccitati, sia lei sia suo marito che aveva assistito alla preparazione e si era eccitato all’idea che lei andasse a consegnarsi ad altro uomo. Gli piaceva aiutarla a prepararsi e immaginare l’uso che il Padrone avrebbe potuto farne.
Giorgio la osservò infilarsi le mutandine e le autoreggenti. Vide che non mise il reggiseno anche perché il seno sodo non aveva bisogno di quell’indumento. Provò una reazione quando attraverso il vestito aderente individuò i capezzoli della moglie.
Erano entrambi troppo presi dalla preparazione e dall’eccitazione che provavano per rendersi conto che ciascuno provava piacere per sé e non per complicità. Era come se fossero due desideri autonomi nati nella stessa stanza.
Il viaggio era iniziato, quel viaggio che li avrebbe portati all’incidente che, un giorno, Giorgio avrebbe raccontato al suo amico, trovato per caso al bar, dopo che sua moglie si era allontanata.
Simona suonò al citofono di Niccolò, ma nessuno le aprì, lasciandola in strada.
Quell’uomo aveva il potere di farla incazzare, quello stesso potere che la teneva ad un guinzaglio che già si sentiva addosso. Non avrebbe mai pensato di provare quella strana sensazione nel non vedersi sempre accontentata dall’uomo ma, anzi, tenuta a distanza, una distanza che si sarebbe accorciata non per scelta sua, ma altrui.
Cominciava ad “annusare” il dominio, l’appartenenza.
La perdita del controllo che passava ad altri era fonte di formicolio alla bocca dello stomaco che, pur ivi persistendo, scendeva tra le cosce e le faceva bagnare le mutandine.
Non stava pensando a suo marito.
Suo marito pensava a lei ma solo per eccitare sé stesso.
Niente, quella maledetta porta non si apriva, nemmeno dopo l’orario concordato, anzi, l’orario comunicatole unitamente all’ordine di presentarsi.
Era tentata di andarsene ma era più forte il desiderio di restare.
Le aprì 10 minuti dopo l’orario. Non seppe mai se già aveva deciso di aprirle in ritardo oppure se il tempo di 10 minuti coincidesse col suo anticipo, come per punirla di non essere stata puntuale.
Il pensiero della punizione la scosse.
Non gli disse nulla per il ritardo nell’apertura, benchè per lei, tempo addietro, sarebbe stato inconcepibile che qualcuno, sapendola in attesa, la lasciasse fuori dalla porta, addirittura in strada, imbarazzata per gli sguardi di chi, passando per la seconda volta qualche minuto dopo, ancora la vedeva lì in attesa.
Niccolò la osservò come si potrebbe guardare una bella macchina, un bel quadro.
D’altro canto lei aveva staccato il corpo dall’anima, per cercare la soddisfazione fisica del primo, parimenti lui la vedeva come corpo essendosi lei presentata in quel modo.
“Andiamo a cena fuori. Voglio essere l’uomo più invidiato del ristorante”.
Quel tipo era incredibile. Sapeva farla sentire importante e apprezzata tanto quanto sapeva farla sentire un oggetto. Più avanti avrebbe avuto modo di scoprire che come tale l’avrebbe trattata.
Le piaceva quell’altalena nella quale lui la lanciava in aria esaltandola per poi farla scendere a terra, ai suoi piedi, come una schiava.
Lui era già pronto e non la fece entrare in casa.
“Togliti le mutandine e andiamo”.
Non era una richiesta, ma un ordine impartito col tono di chi non si aspetta altro che l’esecuzione.
“Qui sulla porta?”
La guardò senza risponderle. Lo sguardo era fermo, quasi severo. Sembrava le stesse dicendo che lui non ripete due volte lo stesso ordine.
Più avanti avrebbe scoperto che era esattamente così. Lui, il Padrone, non ripeteva due volte l’ordine. La mancata e perfetta esecuzione immediata le sarebbe sempre costata una punizione, il più delle volte coincidente col dolore, altre con vari tipi di privazione che portavano al controllo sempre più esclusivo.
Si sentì in soggezione e quella sensazione, nuovamente, trovò ospitalità tra le cosce.
L’arroganza, la sicurezza, il potere che emanava quell’uomo molto più anziano di lei, le dava un senso particolare e si sentiva soggiogata.
Lo volle sfidare e, guardandolo negli occhi, senza curarsi se in quel momento stesse passando qualcuno, si levò le mutandine e le appoggiò a terra all’ingresso.
Anche lui non le staccò lo sguardo e lei percepì che era di compiacimento nell’osservare l’esecuzione del suo desiderio.
Quella bella giovane donna stava promettendo bene, come schiava.
Lei provò a provocarlo con movenze sensuali del suo corpo, ma lui fece finta di nulla.
Questa cosa tanto la mandava in bestia, quanto la eccitava.
Lui la toccò solo mentre erano in auto, quando lei aveva abbandonato la provocazione anche perchè trovava umiliante (ma eccitante) essere ignorata.
Mancava un chilometro al ristorante quando lui le posò una mano sulla coscia, come fosse cosa normale e, soprattutto, come fosse suo diritto. Sembrava, anzi, era un'affermazione di possesso.
Lei allargò appena le gambe pensando che volesse salire.
Più avanti ebbe modo di capire che quella sera lui aveva iniziato ad educarla, a farle capire che lei sarebbe stata una schiava e, in quanto tale, sempre e solo a disposizione delle sue voglie. Lei avrebbe dovuto essere solo passiva. Se avesse avuto voglia di usarla, l’avrebbe presa. Se non ne aveva voglia l’avrebbe lasciata in un angolo, in attesa.
Così non salì verso la vagina ed ignorò il suo gesto, pur apprezzandolo.
Era chiaro ad entrambi che lei voleva provocarlo e guidarlo tra le cosce. Per questo lui rimase fermo. Conduceva lui, non lei.
Quella sera ebbe un primo serio assaggio dell’altalena, quell’insieme di sensazioni forti e contrastanti, in salita ed in discesa, in continuo alternarsi e che erano come docce fredde che la sconvolgevano.
Non vi era abituata ed era adrenalina.
Lo avrebbe scoperto sempre più col tempo.
Usciti dall’auto, la prese per mano dirigendosi al ristorante, trasmettendole confidenza e serenità, quasi fossero una coppia affiatata ancora nel pieno delle reciproche emozioni.
Lui vide la fiorista che stava chiudendo la serranda del suo negozio.
Accelerò il passo tirandola per mano e ridendo assieme, quasi stessero correndo su un prato a piedi nudi.
Si chinarono sotto la serranda in chiusura per entrare.
“Signora, non vorrà mica chiudere e lasciare questa donna meravigliosa senza il fiore che merita”.
“Fiore che merita”. Più tardi, quella stessa sera, avrebbe appreso il significato di quella frase che in quel momento le fece illuminare il viso.
Le comprò la rosa più bella e rossa, ancora bagnata quasi fosse rugiada.
Nel ristorante la fece sentire la donna più bella del locale e, in realtà, lo era.
Al tavolo si avvicinarono amici di Niccolò i cui nomi lei aveva letto sui giornali.
Ancora l’altalena con quelle forti sensazioni quando la presentò con eleganza, ma come fosse roba sua. Era una leggera inflessione che lei aveva colto, conoscendo la natura del loro iniziale rapporto.
Era sicura che gli interlocutori, tanto austeri, non avrebbero capito quelle sfumature che lei pensava facessero parte del loro gioco.
Si sbagliava, invece. Lo avrebbe scoperto più avanti nel tempo.
L’antipasto era eccezionale e, mentre attendevano il piatto successivo, lui le disse di togliere alla rosa tutte le spine tranne una.
“Questa rosa è come te, e sarà il simbolo di questa serata”.
Era evidente che più che una richiesta si trattasse di un ordine, ma dato con la calma tipica di chi sa che verrà eseguito, come se avesse chiesto al cameriere di portargli un po’ di acqua.
Lei era inebriata dall’ambiente raffinato e dalle amicizie che quell’uomo aveva.
L’altalena le lasciò forti sensazioni, a lei sconosciute sino a quella sera.
Lui fu squisito anche se sempre fermo e con tono sicuro, autoritario.
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