Il prezzo della sottomissione (parte 4)
di
Kugher
genere
sadomaso
L’altalena compì la forte discesa quando, appena entrati in casa, le ordinò di spogliarsi in fretta.
La ridusse in ginocchio tirandola verso il basso dopo averla presa per i capelli, che utilizzò quale guinzaglio per farsi seguire, a 4 zampe, fino alla poltrona.
Ancora vestito, le ordinò di slacciargli i pantaloni e di prenderlo in bocca.
Niccolò aveva in mano la rosa, quella che, come aveva detto, sarebbe stata il simbolo della serata.
Così fu, invisibile filo che univa tutti gli aspetti di quanto vissuto e ancora da vivere in quelle ore.
Le appoggiò il fiore sulla schiena avendo cura di mettere l’unica spina a contatto con la pelle. La premette in modo da farla entrare nella carne e ancorarla alla donna. Così facendo lei avrebbe potuto muoversi per dargli piacere ma la rosa sarebbe rimasta sulla sua schiena.
Bellezza e dolore.
Quella rosa la rappresentava, come aveva detto lui, qualche ora addietro.
Simona accennò una ribellione, anche perché non si aspettava quel gesto e la spina le faceva male.
La afferrò per i capelli e, con fermezza e l’autorità tipica del Padrone, senza dirle niente, le diresse nuovamente la bocca sul suo pene duro.
La tenne giù e mollò la presa solo quando ebbe la certezza che lo avrebbe soddisfatto, avendo abbandonato ogni ribellione.
Questa cosa lo eccitò, perchè gli stava disegnando la sottomissione di quella giovane donna.
A mente fredda Simona capì il “simbolo di quella serata”. Le aveva fatto staccare tutte le spine tranne una, non per il timore di farsi male, ma per farle capire che era lei a consegnare a lui sé stessa e la sua appartenenza.
Sensazioni contrastanti e forti.
Il dolore ma anche l’eccitazione, sia per la novità della cosa sia per l’atto sessuale sottomesso.
Quando Niccolò fu soddisfatto della durezza del suo pene, la fece girare e, lasciandola a 4 zampe, la montò come una cagna, pensando al proprio piacere e non a quello della donna.
La stava educando. Stava tracciando un confine e dettando, anzi, imponendo, le regole del “gioco”: decideva lui se, come e quando, per il proprio piacere.
Questo la fece sentire usata, un oggetto, una schiava e la cosa la eccitò.
Le godette dentro, prendendo definitivamente possesso del suo nuovo giocattolino.
Il coinvolgimento dell’anima non c’era nemmeno tra schiava e Padrone. Ciascuno era eccitato per sé stesso e non per la ricerca di una complicità.
Solo anni Giorgio e Simona avrebbero capito le parole dei loro amici, quelli che li avevano introdotti alla ricerca del “terzo”, quando dissero che quel “gioco” avrebbe potuto funzionare solo se ci fosse stata complicità, non per farla nascere.
Dopo aver goduto lei non serviva più, così Niccolò la mandò via, come un oggetto che non serve più.
La gelò quando lei cercò di prendere le mutandine.
“Ma così sporco il vestito”.
Lui la guardò severo e lei si stupì nel sentirsi chiedere scusa abbassando il capo.
Questa cosa, anche se non le diede modo di notarlo, lo eccitò, ma non nel corpo, solo di testa perché apprezzò la sottomissione in lei.
Arrivò a casa eccitatissima.
Giorgio vide le evidenti tracce di sperma sul vestito che lei si premurò di fargli vedere bene. La sua vagina era ancora umida e, entrambi eccitati, fecero sesso, ciascuno per sé, per scaricare la propria eccitazione e tensione accumulata nella serata.
Il tutto mentre lei gli raccontava quanto accaduto.
La narrazione non fu per renderlo partecipe, ma per eccitarsi nel ripercorrere gli eventi.
Lui stesso lo ascoltò perché lo eccitava il pensiero della bella moglie usata, ma era una eccitazione sua.
Simona non gli raccontò della rosa. Non tanto perché si trattava di dolore, quanto perché la riteneva una cosa sua e del suo Padrone. In tale termini ormai pensava a lui.
Nemmeno Giorgio le chiese cosa fosse quella piccola ferita.
La crepa nella coppia si stava allargando. Non si era creata quella sera. C’era già.
Nei giorni successivi Simona cercò il Padrone ma Niccolò non rispose mai, nemmeno ai messaggi.
Questo ebbe il potere di innervosirla, non capendo cosa stesse accadendo, non tanto per il probabile venir meno del “gioco” di coppia con Giorgio, quanto perchè aveva “annusato” una vita nuova, adrenalinica, fatta di sesso forte, di potere, di dominio.
Le arrivò un sms 5 giorni dopo, come nulla fosse, come se si fossero sentiti il giorno prima. Il Padrone la convocò a casa sua per una certa data ed una certa ora.
Non si prese nemmeno la briga di chiedere di poter portare il marito (come agli inizi dei primi scambi avevano posto come condizione). Nemmeno Giorgio avanzò pretese, eccitato all’idea della moglie chiamata come una puttana.
Simona, questa volta, si presentò puntuale al suo campanello.
Anzi, era arrivata prima ma aspettò in strada, per poter suonare puntuale.
Lui dalla finestra la vide e ne sorrise, intuendo il potenziale di quella giovane donna, dall’animo sottomesso, schiava.
Mentre saliva in ascensore diede un'ultima occhiata al vestito. Le stava bene, era soddisfatta di sé.
Non sapeva cosa sarebbe successo e dove l’avrebbe portata. Aveva visto l’ambiente del ristorante e decise per un vestito elegante che avrebbe potuto andare bene in molti posti senza sfigurare, anche forte della sua bellezza.
I capelli puliti e profumati, il trucco quel tanto che bastava per evidenziare ciò che era già bello. Poteva essere pronta per spogliarsi e dargli piacere oppure per andare da qualche parte.
Aveva una sorta di nervosismo allo stomaco, una eccitazione latente per l’ignoto.
Ormai l’altalena iniziale era diventata una montagna russa di emozioni, tanto forti le avvertiva e viveva.
La fece attendere 15 minuti davanti alla porta sul pianerottolo.
Adesso non la stava più mettendo alla prova, ma marcando sempre più i reciproci confini. Durante l’attesa il nervosismo in lei aumentava e avvertiva anche il tremore alle gambe.
Cosa sarebbe successo?
Le aprì, la guardò per osservare ciò che sentiva suo.
Lei avvertiva la natura dello sguardo che la portò ad abbassare il suo.
Lui era pronto per uscire. L’eleganza del suo vestito le confermava che quanto aveva indossato era idoneo.
Senza farla entrare, con la calma tipica del Padrone, infilò la mano tra le sue cosce salendo sotto il vestito aderente sui fianchi.
Lei allargò le gambe quel tanto per consentirgli l'accesso, già eccitata.
Aveva capito le regole: non doveva invitare ma offrirsi. Tale era il senso del suo allargamento.
Notò con stupore il suo sguardo seccato.
La fece entrare e le diede uno schiaffo.
“Stupida schiava!”
Con suo stupore lei non si lamentò, ma lo guardò con senso di colpa, senza capire.
“Ti ho detto l’altra volta che non devi avere le mutandine con me. Devi sempre essere accessibile, anche se poi decido di non usarti”.
Schiava, stupida, usare.
Termini che la eccitavano, facendola sentire oggetto, bambolina nelle mani di un uomo forte e potente. Eccitata per le montagne russe che la stavano già trasportando con l’adrenalina in corpo.
Adorava la sottomissione, molto più di quanto avesse immaginato.
Chiese scusa.
“Le scuse si chiedono in ginocchio”.
Lentamente, col cuore a mille e la guancia accaldata e per l’umiliazione del gesto, posò le ginocchia a terra.
“Scusa…...Padrone”.
Fece quasi fatica a far uscire quella parola, Padrone, tante volte immaginata quando, da sola, a casa si masturbava pensando all’odore che quell’uomo emanava. Adesso che l’aveva pronunciata le sembrava cosa naturale.
“Sbrigati, non voglio arrivare in ritardo per colpa tua. Ci aspettano”.
In ritardo? Arrivare? Ci aspettano? Chi?
Tante domande si affollavano nella sua testa ma non osò chiedere, succube di quell’uomo, pensando a dove l’avrebbe portata e con chi.
Eccitata per l’ignoto. Montagne russe.
In auto non la toccò e parlarono amabilmente, come nulla fosse successo o, meglio, come se quanto accaduto fosse la normalità.
Niccolò aveva il potere di farla sentire un momento importante e l’altro un oggetto.
La ridusse in ginocchio tirandola verso il basso dopo averla presa per i capelli, che utilizzò quale guinzaglio per farsi seguire, a 4 zampe, fino alla poltrona.
Ancora vestito, le ordinò di slacciargli i pantaloni e di prenderlo in bocca.
Niccolò aveva in mano la rosa, quella che, come aveva detto, sarebbe stata il simbolo della serata.
Così fu, invisibile filo che univa tutti gli aspetti di quanto vissuto e ancora da vivere in quelle ore.
Le appoggiò il fiore sulla schiena avendo cura di mettere l’unica spina a contatto con la pelle. La premette in modo da farla entrare nella carne e ancorarla alla donna. Così facendo lei avrebbe potuto muoversi per dargli piacere ma la rosa sarebbe rimasta sulla sua schiena.
Bellezza e dolore.
Quella rosa la rappresentava, come aveva detto lui, qualche ora addietro.
Simona accennò una ribellione, anche perché non si aspettava quel gesto e la spina le faceva male.
La afferrò per i capelli e, con fermezza e l’autorità tipica del Padrone, senza dirle niente, le diresse nuovamente la bocca sul suo pene duro.
La tenne giù e mollò la presa solo quando ebbe la certezza che lo avrebbe soddisfatto, avendo abbandonato ogni ribellione.
Questa cosa lo eccitò, perchè gli stava disegnando la sottomissione di quella giovane donna.
A mente fredda Simona capì il “simbolo di quella serata”. Le aveva fatto staccare tutte le spine tranne una, non per il timore di farsi male, ma per farle capire che era lei a consegnare a lui sé stessa e la sua appartenenza.
Sensazioni contrastanti e forti.
Il dolore ma anche l’eccitazione, sia per la novità della cosa sia per l’atto sessuale sottomesso.
Quando Niccolò fu soddisfatto della durezza del suo pene, la fece girare e, lasciandola a 4 zampe, la montò come una cagna, pensando al proprio piacere e non a quello della donna.
La stava educando. Stava tracciando un confine e dettando, anzi, imponendo, le regole del “gioco”: decideva lui se, come e quando, per il proprio piacere.
Questo la fece sentire usata, un oggetto, una schiava e la cosa la eccitò.
Le godette dentro, prendendo definitivamente possesso del suo nuovo giocattolino.
Il coinvolgimento dell’anima non c’era nemmeno tra schiava e Padrone. Ciascuno era eccitato per sé stesso e non per la ricerca di una complicità.
Solo anni Giorgio e Simona avrebbero capito le parole dei loro amici, quelli che li avevano introdotti alla ricerca del “terzo”, quando dissero che quel “gioco” avrebbe potuto funzionare solo se ci fosse stata complicità, non per farla nascere.
Dopo aver goduto lei non serviva più, così Niccolò la mandò via, come un oggetto che non serve più.
La gelò quando lei cercò di prendere le mutandine.
“Ma così sporco il vestito”.
Lui la guardò severo e lei si stupì nel sentirsi chiedere scusa abbassando il capo.
Questa cosa, anche se non le diede modo di notarlo, lo eccitò, ma non nel corpo, solo di testa perché apprezzò la sottomissione in lei.
Arrivò a casa eccitatissima.
Giorgio vide le evidenti tracce di sperma sul vestito che lei si premurò di fargli vedere bene. La sua vagina era ancora umida e, entrambi eccitati, fecero sesso, ciascuno per sé, per scaricare la propria eccitazione e tensione accumulata nella serata.
Il tutto mentre lei gli raccontava quanto accaduto.
La narrazione non fu per renderlo partecipe, ma per eccitarsi nel ripercorrere gli eventi.
Lui stesso lo ascoltò perché lo eccitava il pensiero della bella moglie usata, ma era una eccitazione sua.
Simona non gli raccontò della rosa. Non tanto perché si trattava di dolore, quanto perché la riteneva una cosa sua e del suo Padrone. In tale termini ormai pensava a lui.
Nemmeno Giorgio le chiese cosa fosse quella piccola ferita.
La crepa nella coppia si stava allargando. Non si era creata quella sera. C’era già.
Nei giorni successivi Simona cercò il Padrone ma Niccolò non rispose mai, nemmeno ai messaggi.
Questo ebbe il potere di innervosirla, non capendo cosa stesse accadendo, non tanto per il probabile venir meno del “gioco” di coppia con Giorgio, quanto perchè aveva “annusato” una vita nuova, adrenalinica, fatta di sesso forte, di potere, di dominio.
Le arrivò un sms 5 giorni dopo, come nulla fosse, come se si fossero sentiti il giorno prima. Il Padrone la convocò a casa sua per una certa data ed una certa ora.
Non si prese nemmeno la briga di chiedere di poter portare il marito (come agli inizi dei primi scambi avevano posto come condizione). Nemmeno Giorgio avanzò pretese, eccitato all’idea della moglie chiamata come una puttana.
Simona, questa volta, si presentò puntuale al suo campanello.
Anzi, era arrivata prima ma aspettò in strada, per poter suonare puntuale.
Lui dalla finestra la vide e ne sorrise, intuendo il potenziale di quella giovane donna, dall’animo sottomesso, schiava.
Mentre saliva in ascensore diede un'ultima occhiata al vestito. Le stava bene, era soddisfatta di sé.
Non sapeva cosa sarebbe successo e dove l’avrebbe portata. Aveva visto l’ambiente del ristorante e decise per un vestito elegante che avrebbe potuto andare bene in molti posti senza sfigurare, anche forte della sua bellezza.
I capelli puliti e profumati, il trucco quel tanto che bastava per evidenziare ciò che era già bello. Poteva essere pronta per spogliarsi e dargli piacere oppure per andare da qualche parte.
Aveva una sorta di nervosismo allo stomaco, una eccitazione latente per l’ignoto.
Ormai l’altalena iniziale era diventata una montagna russa di emozioni, tanto forti le avvertiva e viveva.
La fece attendere 15 minuti davanti alla porta sul pianerottolo.
Adesso non la stava più mettendo alla prova, ma marcando sempre più i reciproci confini. Durante l’attesa il nervosismo in lei aumentava e avvertiva anche il tremore alle gambe.
Cosa sarebbe successo?
Le aprì, la guardò per osservare ciò che sentiva suo.
Lei avvertiva la natura dello sguardo che la portò ad abbassare il suo.
Lui era pronto per uscire. L’eleganza del suo vestito le confermava che quanto aveva indossato era idoneo.
Senza farla entrare, con la calma tipica del Padrone, infilò la mano tra le sue cosce salendo sotto il vestito aderente sui fianchi.
Lei allargò le gambe quel tanto per consentirgli l'accesso, già eccitata.
Aveva capito le regole: non doveva invitare ma offrirsi. Tale era il senso del suo allargamento.
Notò con stupore il suo sguardo seccato.
La fece entrare e le diede uno schiaffo.
“Stupida schiava!”
Con suo stupore lei non si lamentò, ma lo guardò con senso di colpa, senza capire.
“Ti ho detto l’altra volta che non devi avere le mutandine con me. Devi sempre essere accessibile, anche se poi decido di non usarti”.
Schiava, stupida, usare.
Termini che la eccitavano, facendola sentire oggetto, bambolina nelle mani di un uomo forte e potente. Eccitata per le montagne russe che la stavano già trasportando con l’adrenalina in corpo.
Adorava la sottomissione, molto più di quanto avesse immaginato.
Chiese scusa.
“Le scuse si chiedono in ginocchio”.
Lentamente, col cuore a mille e la guancia accaldata e per l’umiliazione del gesto, posò le ginocchia a terra.
“Scusa…...Padrone”.
Fece quasi fatica a far uscire quella parola, Padrone, tante volte immaginata quando, da sola, a casa si masturbava pensando all’odore che quell’uomo emanava. Adesso che l’aveva pronunciata le sembrava cosa naturale.
“Sbrigati, non voglio arrivare in ritardo per colpa tua. Ci aspettano”.
In ritardo? Arrivare? Ci aspettano? Chi?
Tante domande si affollavano nella sua testa ma non osò chiedere, succube di quell’uomo, pensando a dove l’avrebbe portata e con chi.
Eccitata per l’ignoto. Montagne russe.
In auto non la toccò e parlarono amabilmente, come nulla fosse successo o, meglio, come se quanto accaduto fosse la normalità.
Niccolò aveva il potere di farla sentire un momento importante e l’altro un oggetto.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Il prezzo della sottomissione (parte 3)racconto sucessivo
Il prezzo della sottomissione (parte 5)
Commenti dei lettori al racconto erotico