Il ragazzo diverso

di
genere
gay

Il ragazzo diverso

Sono diverso. Diverso nella diversità. Una specie di Matrioska. Una bambola dentro l’atra all’infinito. Sono nero ed omosessuale. La fusione, in un solo corpo, di due diverse categorie oggetti del disprezzo di molti, il che fa di me una sorta di paria. Uno che cammina su una corda tesa su un burrone aperto sul niente... borderline sempre.
Lasciata la mia famiglia a diciassette anni, la mia vita prese una direzione che non mi sarei mai aspettato. I miei mi buttarono fuori quando ebbero la conferma che fossi omosessuale. Per i miei atteggiamenti, i miei modi, fu una cosa evidente sin da quando ero adolescente Ma la mia famiglia, musulmana e bigotta non voleva accettarlo. In Senegal mio padre mi fece anche portare dai marabouts per eradicare quella che era considerata una malattia dal mio corpo.
A causa del profondo rispetto che nonostante tutto nutrivo per loro, rispetto che é uno degli elementi fondanti della tradizione e della cultura africana, cercavo di evitar loro il trauma che gli avrei procurato svelando la verità. E la verità era che mi attraevano gli uomini... lo sapevo, lo sentivo, era in me da sempre. Ero una donna intrappolata in un corpo maschile, una principessa con l’armatura da guerriero, una farfalla travestita da drago. Non sentivo le mie vesti appartenermi e mi sentivo incompreso dalla società in cui vivevo. Nato e cresciuto a Bolzano, consideravo, a giusto titolo, l’Italia come il mio Paese, anche perché in quello dei miei genitori, quello che ero, omosessuale, rappresentava un reato punibile con la morte. Ogni volta però che vi facevo ritorno, mi lasciavo affascinare dalla vivacità della gente, dai colori, dalle voci. Ma la verità é che non ero null’altro che un turista che si lascia temporaneamente conquistare dal folclore locale pur se li era la mia origine. Sapevo che era una permanenza temporanea, che sarei tornato a casa, a scuola, dai miei amici. Amici ne avevo pochi a dire il vero, quelli con cui avevo legato di più erano Davide e Michele. Dopo già molto tempo che ci conoscevamo, scoprii che anche Davide era omosessuale. Per molto tempo aveva vissuto nell’ombra la sua condizione, fece coming out solo una volta laureato e economicamente indipendente. Era l’unico modo per allontanarsi dalla famiglia che non lo avrebbe accettato senza rimanere per strada; aspettare. Davide aveva aspettato una vita subendo i natale in cui i parenti gli chiedevano puntualmente se avesse conosciuto una fidanzata e quando si sarebbe dato da fare. La sua famiglia non lo avrebbe compreso a Davide aveva avuto l’intelligenza di comprenderlo vivendo una vita falsa ed ipocrito aspettando solo il momento in cui sarebbe stato autonomo. Poco dopo la laurea, difatti, si trasferì in Svizzera e si sposò con un uomo. Michele era patologicamente timido invece. E come tale, si accontentava di ciò che era alla sua portata; nella fattispecie , di noi. Etereosessuale ma troppo timido per tentare un approccio con una donna, non alla moda e piuttosto nerd e quindi senza nessuno che lo considerava. Praticamente eravamo un gruppo di sfigati.
A casa parlavo poco. Mi rinchiudevo in me stesso per il timore di tradire la mia natura in qualche modo. Avevo paura di mio padre, di mia madre di meno. Ma mio padre era terribile. Non di rado avevo subito la sua rabbia le volte che avevo preso brutti voti a scuola, o quando seppe delle assenze ingiustificate, o anche quando scoprì che fumavo. Non osavo immaginare cosa mi avrebbe fatto se avesse saputo che fossi gay.
La mia natura non si era ancora espressa sennò che allo stadio platonico. Avevo troppo paura per frequentare persone come me. Già solo per i miei atteggiamenti femminili, ero spesso deriso dai miei compagni di classe, e girava più di qualche voce circa la mia carente mascolinità. La nostra società si basa su pregiudizi iniqui. Da nero e da omosessuale, lo sapevo bene.
“Maledetto frocio negro!”, un compendio di feroce intolleranza.
Convivevo con la costante paura di esprimere me stesso. Più che sentirmi in colpa, mi sentivo in carcere. Chiuso dietro le sbarre del bigottismo; quello della mia famiglia e quello della società che mi aveva accolto. Consideravano gli omosessuali come malati, quasi degli untori. Le battute taglienti degli adolescenti costituiscono la prova di quanto siano radicate certe assurde convinzioni.
“Non fare la femminuccia!”. Non a caso, è una delle espressioni più ricorrenti nel mondo maschile. Una frase che mette al bando certi atteggiamenti. Ossia, quelli lamentosi. Gli uomini, non solo implicitamente, ma chiaramente e con l’appoggio implicito delle donne, si considerano il genere eletto. Del resto le società matriarcali sono rare sebbene quelle poche rappresentino esempi edificanti e illuminati. Alla società dei maschi conviene lasciare le donne un passo indietro, per non parlare dei neri.
Crescere alimentò la guerra intima tra il mio essere maschile e il mio essere femminile che lottava strenuamente per emergere.
Cacciato via da casa dopo che mio padre aveva scoperto che ero omosessuale, mi ritrovai in un mondo diverso, fino a quel momento totalmente sconosciuto; quello degli omosessuali. Lo ero, ma non lo avevo vissuto. È un universo caotico, competitivo come ogni altra società, è resistente all’odio, propenso all’amore, ma, soprattutto, improntato alla solidarietà. Mio padre aveva scoperto che frequentavo un ragazzo che in verità non mi piaceva nemmeno tanto, ma mi assicurava un buon margine di discrezione, visto che anche lui teneva nascosta la sua natura al suo mondo tanto che era fidanzato con una tipa del quartiere.
Si faceva chiamare Lex, ma, in realtà, il suo nome era Alessandro.
Dopo che i miei mi misero alla porta, Alessandro chiamò un amico che, a sua volta, chiamò un’amica e, dopo un giro di varie telefonate e cinque ore trascorsi in macchina ad aspettare una risposta, qualcuno si mostrò disponibile ad accogliermi. Con Lex ci eravamo limitati a masturbarci a vicenda e a qualche pompino, ma nulla di più.
Quando arrivai a casa di Antonio, ero terrorizzato. Ero vergine e non osavo immaginare cosa avrebbe potuto chiedermi Antonio per ricambiare il favore. Tremavo quando passai l’uscio della porta con la mia valigia.
“Ciao Mamadou”, mi disse Antonio abbracciandomi.
Risposi con una voce flebilissima e con gli occhi cercai un angolo per nascondermi.
Volevo farmi piccolo piccolo per la vergogna. Non avevo davvero nulla con cui ripagarlo. Mio padre non voleva più sentire parlare di me, e mia madre era d’accordo con la sua scelta. Voleva che tornassi “uomo”, in caso contrario non voleva più vedermi nemmeno lei. Anche i miei fratelli che ritenevo di mentalità più aperta, presero tutti le parti dei miei genitori. Mi rimase solo Awa, la mia sorellina più piccola. Ma la sua opinione non contava, lei mi ribadì il suo amore e il suo affetto quando lasciai casa. Difatti, sarei sempre rimasta in contatto con lei.
Da Antonio mi ci aveva accompagnato Alessandro che si trattenne con noi un paio di ore. Mi fu offerta una birra, ma non avevo mai bevuto alcolici fino ad allora. Rifiutai e optai per una Coca-Cola. Antonio mi mostrò la mia stanza.
Era molto gentile. Una decina di anni più grande di me, il viso ben curato con un impeccabile pizzetto, il corpo atletico e ben proporzionato. Le sue labbra erano di un rosa intenso, molto sensuale, ma lì per lì, ero talmente intimorito da non poterlo apprezzare cosi come avrebbe meritato.
Ero nella mia stanza. Avevo paura, una fifa pazzesca. Non avevo mai concepito un futuro che potesse esulare dalla scuola fino ad allora, dalla mia famiglia, dagli equilibri sicuri. Molti dei miei coetanei avevano lasciato gli studi per lavorare, ma il tipo di lavori che erano costretti a fare, senza un adeguato titolo di studio, non faceva per me. Volevo un’indipendenza economica tale che mi consentisse di essere me stesso liberamente. Come tutte le persone represse, sognavo la libertà incondizionata. Fu, quindi, fu per me un duro colpo perdere il riparo della famiglia, la certezza di studiare, ma ancor di più, l’amore di un clan, il mio clan.
Mi addormentai vestito, con le gambe penzolanti fuori dal letto. Le emozioni mi avevano sopraffatto. Sentii alcuni rumore provenire dal piano di sotto, avevo sete. Pensai che fosse Antonio, e mi accinsi a scendere. I miei piedi nudi non facevano rumore sul marmo del corridoio. Quando arrivai all’inizio della scala, sentii distintamente:
“Oh sì, ancora, ancora!”.
Mi arrestai di colpo ed arretrai. Poi, con circospezione, mi sporsi per avere una visuale migliore, mosso dalla curiosità.
Antonio era dietro ad una ragazza piuttosto formosa e truccata in modo esagerato. Le teneva i capelli con una mano mentre con l’altra le schiaffeggiava il culo.
“Ti piace troia?”, ripeteva di tanto in tanto mentre il suo cazzo lucente entrava e usciva senza sosta dal sesso della ragazza.
“Amore, sbattimi, sbattimi ancoraaa!” urlò lei ad un certo punto.
Fu come se Antonio avesse ingranato un’altra marcia. Prese a martellare a gran colpi la ragazza producendo rumore ogni volta che il suo bacino si scontrava col prosperoso sedere della sua amante.
“Succhiamelo troia...”, le disse Antonio ad un certo punto, uscendo dalla sua figa pulsante. Lei lo prese quasi tutto in bocca, soffocando quasi, e strinse le sue mani sul sedere di Antonio tirandolo a lei come per prenderlo ancor di più in gola.
“Sì, sì ancora!”, urlava Antonio con gli occhi rivolti al soffitto e una mano sulla nuca di lei.
Lei lo succhiò per parecchio tempo prima che Antonio la adagiasse sul divano ed infilasse la testa tra le gambe di lei. Poi, infilò diverse dita nella sua figa e cominciò a masturbarla e a leccarla insieme contemporaneamente. Lei rovescio gli occhi e iniziò quasi a rantolare.
In preda ad un’eccitazione forsennata, si impalò sul cazzo di Antonio, cavalcandolo al ritmo latino della musica in sottofondo. Antonio aveva le mani ben salde sui suoi fianchi e accompagnava il suo movimento dall’alto verso il basso. Vedevo il piacere di lei che scendeva sul pene di Antonio e bagnava le sue cosce.
Cominciò a sbattere furiosamente il suo culo grande sul pene di lui che rimase immobile godendosi il formidabile desiderio della donna.
Senza che nemmeno me ne fossi reso conto, avevo cominciato a masturbarmi.
Avevo il pene dolorante tanto era duro. Scostato lo slip, la mia mano andava e veniva sul mio cazzo mentre i miei occhi rubavano il piacere altrui.
Improvvisamente mi sembrò di non avere più problemi né preoccupazioni, c’erano solo sensazioni nell’aria, solo piacere, e il piacere è speranza continua. Il piacere ti pervade e ti compensa del dolore vissuto, dell’orrore subito, dell’ambizione svilita. In quel momento, il mio futuro non esisteva più. Il mio intero corpo era contratto in un unico battito di emozioni, tutte in salita.
Antonio cambiò posizione. Adagiò la donna sul pavimento, sul lato, le alzò la coscia e la penetrò, riprendendo a scoparla a gran colpi.
Il movimento della mia mano si faceva più rapido. Fino ad allora, le mie fantasie avevano riguardato solo donne. Ma vedere un cazzo dentro una figa, sentire la potenza del desiderio, viverlo in diretta in quel modo mi eccitava da morire. Venni con lunghi getti nella mia mano, per non sporcare i muri.
Il mio cazzo, sottile e lungo era bagnato della mia sborra, continuai a sfregarlo tirando fuori le ultime gocce di piacere.
Scappai subito in bagno in punta di piedi per prendere un po’ di carta igienica e tornare indietro a pulire il mio sperma che era colato tra le mie dita, finendo sul pavimento.
Antonio e la tipa stavano ancora scopando, ma ero ormai pago, pulii minuziosamente il tutto e tornai nella mia stanza dove mi addormentai felice.
Il giorno dopo, a colazione, non osavo guardare Antonio negli occhi. Ero contemporaneamente imbarazzato e grato per l’inconsapevole spettacolo che mi aveva offerto la notte precedente. Mi sembrava di aver rubato parte del loro piacere. Lei era andata via, lui sembrava in gran forma. Antonio mi fece un lungo discorso sull’esigenza di darsi una mano quando ce ne fosse bisogno e mi pregò di considerare il suo gesto totalmente disinteressato e di abbandonare ogni forma di imbarazzo o di gratitudine nei suoi confronti. Lo avevo creduto omosessuale per la sua gentilezza iniziale. Ma le persone, allora non lo sapevo, potevano essere molto cose alla volta.
Fui conquistato completamente dalle sue parole, ebbero un tale effetto su di me che credo avrei fatto qualsiasi cosa avrebbe potuto chiedermi, nonostante lui mi dicesse che non gli dovevo niente. Mi incoraggiava, dicendomi che ce l’avrei fatta, mi spingeva a credere in me. Conoscerlo rappresentò una vera fortuna. Come dicevo, gli omosessuali hanno una rete fantastica di solidarietà, così non passò molto tempo prima che cominciassi a lavorare in un negozio.
Era una boutique per uomini un quartiere chic, un negozio di lusso, i clienti erano persone di un certo livello, motivo per il quale le situazioni relativamente spiacevoli erano rare. Ero giovane, inesperto ed impaurito, ma le situazioni si evolvono e noi con loro.
Dopo sei mesi, fui in grado di lasciare la casa di Antonio. Nel frattempo eravamo diventati grandi amici. Uscivamo insieme ogni fine settimana. Lui era bisessuale e, non di rado, organizzava orge a casa. Non partecipavo, ma mi piacevano. Come la prima volta, rimanevo nascosto a guardare e masturbarmi. Non avevo ancora perso la mia verginità, ma ero piuttosto ambito. Avevo iniziato a frequentare i locali gay, ed in breve diventai una sorta di icona, tanto che non pagavo nemmeno più per entravi. Dopo qualche mese, lontano dall’autorità parentale, avevo cominciato a vestirmi da donna quando uscivo. Il mio corpo, gracile e sensuale, si prestava perfettamente ai capi femminili. Indossavo il reggiseno che riempivo di spugne. Avevo anche cominciato a truccarmi. Mi piaceva mettere in risalto le mie labbra carnose e sensuali, sottolineare lo sguardo con il mascara.
La mia natura, finalmente liberata, si svelava tutta, ma rimanevo sfuggente. Come se stentassi a fare quell’ultimo passo.
Quando ero andata via da casa di Antonio, avevo affittato una stanza in un appartamento; eravamo in tre.
Flavia e Maurizio erano entrambi omosessuali. Due persone affabili, alla mano, tolleranti, i coinquilini migliori che potessero capitarmi. Il fatto di avere casa mi portò ad una serenità immensa. Pagavo, me lo potevo permettere, avevo diritti, me li compravo. Potevo essere chiunque volessi senza rendere conto a nessuno: un impressione che vale quanto un podio olimpico.
Nel giro di un anno, conobbi un uomo che mi attraeva tantissimo.
Era un tipo solitario e taciturno. Lo avevo notato alla “Mucca pazza”, uno dei locali gay più trendy del momento a Roma. Era un uomo strano. Arrivava, si sedeva al bar, trascorreva tutta la serata lì, e se ne andava senza mai attaccare bottone con nessuno. Mi incuriosiva. In qualche modo intuivo che anche lui subiva le crudeli ritorsioni della società per il semplice fatto di essere diverso. Uno al margine, perso nel deserto dell’intolleranza umana.
Quella sua solitudine, mi ricordava la mia, pur non conoscendo i motivi che lo avevano spinto a quell’isolamento.
Nonostante l’affetto e le attenzioni che mi venivano costantemente dimostrati, nulla poteva rimpiazzare il calore della mia famiglia. Il sentirmi esiliato dal sangue del mio sangue aveva lasciato un vuoto che non sarebbe mai stato colmato.
Per quanto avessi tentato di comprendere le loro ragioni, alla luce della cultura africana profondamente omofoba, la verità era che mi vergognavo di loro almeno quanto loro di me, perché l’amore non aveva vinto. Quello di un padre, una madre per un figlio. L’amore dovrebbe prescindere dalle scelte, non dovrebbe obbligare, tantomeno imporre, l’amore é scelta di essere e di accogliere, di libertà ottenuta e concessa. Non avevo libertà, ma nemmeno i miei carcerieri l’avevano. Loro erano legati nella mente e legavano me nel corpo. Comunque me ne ero andato, ma la libertà non é nei confini di una famiglia, bensì del mondo intero. Meno prigionieri, ma prigioniero lo stesso.
Benché quell’uomo enigmatico mi piacesse, non feci mai il primo passo. Del tutto inaspettatamente, fu lui una sera a mandare una delle ragazze del bar ad offrimi da bere.
Quella sera c’erano anche Flavia e Maurizio che sapevano della mia cotta per lui e che mi incoraggiarono ad andarlo a ringraziare.
Si chiamava Giancarlo ed era titolare di una ditta di idraulica. Seppi poi che si era sposato poco dopo i vent’anni ed era anche diventato padre di tre bimbi. Dopo anni di lotte interiori ed intimi, aveva lasciato la moglie quando non era più riuscito a negare a se stesso la realtà della su omosessualità. Quella scelta lo aveva distrutto. La sua famiglia gli si era ritorta contro, abbandonandolo completamente a se stesso, aveva vissuto le pene dell’inferno prima di riuscire a rimettersi in piedi. I suoi figli non gli parlavano più, i suoi famigliari lo avevano messo al bando, suo padre lo aveva addirittura tolto dal testamento. Come se non bastasse, aveva dovuto affrontare la società. Il rifiuto della stessa società in cui era vissuto e che ora lo rigettava per via della sua diversità. I suoi amici smisero di chiamarlo e di rispondere al telefono. Cominciò a rendersi conto di quanto cambiasse repentinamente l’atteggiamento di coloro che lo venivano a sapere. I vicini di casa lo evitavano come un appestato. L’innocente sorriso rivolto a un bambino lo rendeva bersaglio di infamanti sospetti di pedofilia. L’ignoranza e la cattiveria messe assieme si traducono in orrore e dolore per altri.
Giancarlo aveva cambiato quartiere ed era intimamente cambiato anche lui. Era diventato taciturno, si era attorcigliato su se stesso. Usciva solo durante il fine settimana. Non dava corda a nessuno. Lo sguardo spesso perso nel vuoto ad inseguire i suoi pensieri, il bicchiere sempre pieno... presente, ma assente.
Lo raggiunsi al banco del bar, mi gli sedetti accanto e gli sorrisi timidamente. Ero solito flirtare anche in modo sfacciato, ma non andavo mai oltre. Lo facevo forse per depistare gli altri, perché non capissero che, in realtà, non avevo avuto ancora nessun rapporto completo. Giancarlo, seppi poi, non era stato con nessuno per diversi anni.
Nei primi momenti del nostro incontro non mi degnò nemmeno di uno sguardo, ma di lì a poco i suoi occhi non mi avrebbero abbandonato più. Ero magnetizzato da quelle pozze profonde nelle quali ristagnava l’enorme dolore vissuto. La sua voce era quasi cavernosa, solitaria nel caos della discoteca, era dolente, ma vera.
Parlammo tutta la sera. I miei coinquilini cercarono di convincermi in tutti i modi ad andare via con lui, ma preferii tornare a casa con loro.
Mi addormentai con l’immagine di Giancarlo impigliata nei pensieri e lo ritrovai intatto nella mente al risveglio. Rimasi a lungo a letto, ripassavo mentalmente ogni momento della serata precedente. L’incontro con Giancarlo aveva suscitato emozioni inaspettate.
Feci colazione con i ragazzi. C’era anche un’ospite di Flavia; una certa Stella. L’atmosfera era serena e distesa. Passammo il pomeriggio tutti insieme a chiacchierare e ad intrattenerci con diversi giochi di società. Quando tornai nella mia stanza e controllai il cellulare, trovai il primo messaggio di Giancarlo.
“Grazie”.
C’era scritto solo quello, ed era la la stessa cosa che gli avrei scritto io Fu solo più tempestivo di me.
Ci scambiammo messaggi per tutta la serata ed il giorno successivo.
Stabilimmo di prendere un aperitivo insieme. Giancarlo era molto più disteso. Parlava con naturalezza, appariva gioioso, i suoi occhi erano vivaci, e ciò mi rendeva felice. Non avevo nemmeno nessuna intenzione di nasconderlo. Me ne stavo lì con il sorriso stampato sulle labbra che si trasformava in una risata fragorosa ad ogni sua battuta, persino quelle più scontate e banali. Ci tenemmo la mano per tutto il tempo. Quando ci lasciammo, ci baciammo.
Decidemmo di non andare a ballare il week end successivo. Saremmo andati a cena fuori e poi da me o da lui.
Ero deciso. Mi sentivo pronto a perdere la verginità.
Volevo farlo quando ne sarei stato convinto... ed ero convinto. Giancarlo faceva vibrare ogni parte del mio corpo. Mi faceva sobbalzare il cuore in petto, stravolgeva la mia anima. Non so si trattasse d’amore, ma era una sensazione di pienezza. Di completezza.
Non riuscivo a smettere di guardarlo. Il suo viso era bello. Il naso forte, ma proporzionato, bocca grande, gli zigomi pronunciati.
“Che c’è?”, mi chiese sentendo il mio sguardo su di lui.
“Niente, solo che sei bello…”.
Rise imbarazzato.
Era molto più grande di me,. Aveva quarantadue anni, io poco più di diciotto. Non so cosa mi attraesse da lui. Non si trattava nemmeno della sua esperienza che poi non era nemmeno così vasta.
A cena eravamo visibilmente emozionati. Fummo discreti malgrado il desiderio ci attanagliasse. Mangiammo poco o nulla, chiedemmo il conto e andammo a casa sua.
Abitava non lontano dai colli romani. Un appartamento strutturalmente bello, con un terrazzo spoglio, senza fiori o piante di alcun genere. L’intera casa, in realtà, era priva di gioia. Poche foto dei suoi figli che non vedeva più, nessun quadro, mobili scuri e senza identità. Pochi libri, un televisore enorme incastrato nel muro. Come se mi avesse letto nel pensiero, Giancarlo disse:
“Lo so, dovrei curare un po’ di più l’arredamento”.
Annuii sorridendo.
Ci baciammo con passione. Iniziammo a sfiorarci senza fretta. Annusavo il suo collo, mi perdevo nel suo odore. Nel mentre, lui mi accarezzava con i suoi palmi ruvidi, ma capaci di un’inaspettata delicatezza. La mano destra infilata tra la mia schiena e la camicia, percorreva la mia spina dorsale facendomi sussultare.
Gli prendevo la testa tra le mani e lo baciavo. La radio passava vecchi pezzi blues. Avevo dimenticato dove mi trovassi, microscopiche scosse elettriche mi attraversavano. Una sensazione meravigliosa che si originava da tutto il corpo trovando il suo parossismo laddove Giancarlo mi baciava, mi toccava.
Li, sul divano, ci togliemmo i vestiti con lentezza. Strusciai il mio corpo esile contro il suo. Sentivo i peli del suo petto contro la mia pelle e lo attiravo a me. Attimi eterni dedicati alla scoperta dei nostri corpi. Centimetro dopo centimetro, carezza dopo carezza, bacio dopo bacio. Annusavo i suoi odori, assorbivo i suoi desideri. Il corpo suo era carico della stessa materia che mi animava; il desiderio. Potevo sentire il sangue fluire velocemente nelle sue vene toccando qualunque parte del suo corpo.
Avevo sempre temuto il momento in cui avrei perso la verginità, ma fu tutto cosi naturale, come se lo avessi sempre fatto. Mi toccò il cazzo come mai nessuno aveva fatto. Nemmeno io ricordavo di sapermi toccare con la stessa destreza. Quando vi appoggiò le labbra, volai in paradiso. Avevo voglia di esplodere, ma, nel contempo, il mio desiderio si intrecciava con quello, altrettanto forte, di dargli piacere.
Ci ritrovammo a terra, sul tappeto, il mio membro nella sua bocca, il suo nel mio. Ogni suo tremito mi penetrava il cervello. La mia lingua si muoveva al ritmo della sua eccitazione, lo avvolgevo cercando di procurargli piacere e di ricavarne. Un cerchio perfetto in cui ci perdemmo tutti e due venendoci in bocca contemporaneamente.
Rimanemmo sul tappeto a lungo. Prima di riavvicinarci ravvivando i nostri desideri. Ben presto, il mio pene riacquistò vigore, il mio sangue riprese a scorrere all’impazzata, a facemmo l’amore.
Lui mi prese dolcemente. Ero in ginocchio, le gambe aperte. Il mio ano, molto stretto, si chiudeva per paura di quella pratica sconosciuta. Giancarlo mi leccò a lungo, infilandoci il dito e masturbandomi con delicatezza, così mi rilassai e lo accolsi in me. Era la prima volta, ma non fece male. Fu attento a penetrarmi con una lentezza quasi esasperante; centimetro dopo centimetro, senza farmi male. Si muoveva adagio, dandomi il tempo di abituarmi a quella nuova sensazione. Avevo inarcato la schiena per esporre il mio sedere, sentivo che andava e veniva piano dentro di me. Si fermò per aggiungere altro gel e riprese a muoversi dentro di me, mentre gemeva. Nel giro di pochi minuti, il mio pene era teso quasi sino ad esplodere. La sensazione saliva dal mio sedere, passava per la spina dorsale, si irradiava in ogni parte di me. Spingevo per farlo entrare di più. Lui gemeva sempre più forte, fino a quando il mio primo orgasmo vero, anale, mi sommerse facendomi urlare senza ritegno per lunghi secondi. Le contrazioni del mio ano fecero esplodere Giancarlo che venne dentro di me, aumentando il mio piacere con i suoi lunghi spasmi.
Lo facemmo di nuovo. Io in lui, lui in me, facemmo l’amore tutta la notte, ci addormentammo che ormai era mattina.
Quando ci svegliammo, parlammo e facemmo l’amore fino alla sera. Rimasi da lui per tutto il week end.
Sono passati cinque anni. Io e Giancarlo siamo sposati. Nessuno di noi è rimasto in contatto con la sua famiglia. La nostra decisione di pochi anni prima aveva eliminato le residue speranze delle nostre famiglie che tornassimo normali. Secondo mio padre, ero posseduto dal demonio. Secondo la madre di Giancarlo, lo era anche lui.
Ma noi siamo sposati e felici. Posseduti dalla gioia.
scritto il
2021-12-08
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