Autostop

di
genere
gay

I miei genitori ed io abitavamo in una casa sulla collina di Torino.
Alla fine degli anni ‘70, quando facevo il liceo, spesso mi capitava di non aver voglia di prendere il bus di linea per scendere in città e andare al liceo, così facevo l’autostop.
Erano altri tempi, quasi sicuramente adesso non permetterei a mio figlio di fare la stessa cosa, ma allora non sembrava pericoloso e comunque i miei genitori non ci facevano caso.
A volte era fastidioso, soprattutto quando si fermavano macchine che mi portavano fuori zona, ma ormai la gente che scendeva tutte le mattine verso la città mi conosceva, e spesso erano le stesse persone che mi avevano già raccolto in altre occasioni che si fermavano per offrirmi un passaggio.
Tutto sommato era una cosa simpatica, si chiacchierava del più e del meno, e con alcuni passare quel quarto d’ora era particolarmente piacevole, del resto mi ero sempre trovato più a mio agio con gli adulti che con i miei coetanei.
C’era un tipo, tra i tanti, che mi caricava sulla sua Citroen DS, due o tre volte alla settimana, mi piaceva particolarmente chiacchierare con lui, anche se non lo avevo mai considerato attraente fisicamente, anzi non ci avevo mai nemmeno pensato, visto che non ero mai stai attratto dagli uomini.
Avrà avuto più o meno l’età di mio padre, un bel tipo, di quelli sicuri di sé, capello corto, appena spruzzato di grigio sulle tempie, mascella quadrata, un bel sorriso.
Era un dirigente della Fiat ed era sempre in giacca e cravatta, mi apriva la portiera, io gettavo sui sedili posteriori la mia sacca, mi accomodavo sul sedile passeggero e mi godevo la strada fino a Via Po, dove mi lasciava con grande anticipo rispetto allora di entrare in classe.
Aveva un figlio, più grande di me che andava all’università, però non abitava con lui ma con la madre, visto che erano separati da anni.
Spesso simpaticamente si informava sulle mie avventure con le ragazze.
Io purtroppo non avevo molto da raccontare.
Ammetto che ero un po’ indietro rispetto ai miei coetanei, avevo avuto due o tre storielle con delle compagne di liceo, ma non eravamo andati oltre alla classica limonata.
Una mezza impacciata palpatina, una veloce e timida toccata dei seni al massimo, ma niente di più.
In effetti da quel punto di vista ero proprio imbranato.
Non che le ragazze non mi piacessero, ma non sapevo proprio come approcciarmi, e devo dire che a pensarci bene, quasi tutti i miei compagni erano messi più o meno come me.
Il tipo sembrava divertirsi a sentirmi raccontare delle mie disavventure.
Una mattina, eravamo praticamente arrivati al punto in cui mi lasciava di solito, io avevo appena finito di raccontargli di una tipa che non mi cagava nemmeno di striscio, e lui, forse intenerito dal mio insuccesso, mi fece una carezza sulla guancia mentre stavo per scendere dalla macchina.
Al momento la cosa non mi colpii affatto, non ci feci quasi nemmeno caso, ma poi a scuola e più tardi, sul pullman che mi riportava a casa, cominciai a pensarci.
Era una sensazione stranissima, pensavo a quella carezza e mi venivano le farfalle nello stomaco.
Cercai di non pensarci più, vergognandomi anche un po’.
Ma era impossibile non pensarci e anche alla sera, nel mio letto non facevo che rivivere quel veloce momento.
Per ben dieci giorni non mi ricapitò più di incontrarlo, e mi ero quasi scordato della cosa, ma la settimana successiva, con una frenata quasi da film americano, la sua macchina si fermò sul ciglio della strada per farmi salire.
Cercai di comportarmi come al solito ma avevo il cuore che batteva a mille.
Lui mi accolse come sempre, con uno dei suoi sorrisi e si scusò per non essere più passato, ma disse che era stato in Polonia per la Fiat e che gli era dispiaciuto non potermi portare a scuola, e che sarebbe dovuto andare via di nuovo la settimana successiva.
“Anche a me era dispiaciuto”, riuscii a sussurrare con un filo di voce, lui si girò a guardarmi negli occhi, io distolsi subito lo sguardo, sperando che non si accorgesse che ero diventato rosso come un peperone.
Lui mi mise una mano su una coscia, dandomi una rapida strizzata, una cosa amichevole, come per dire, tutto ok, ma io mi sentii avvampare ancora di più.
Per la prima volta facemmo la strada verso Torino in assoluto silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.
Solo prima di farmi scendere mi chiese quanti anni avessi.
Gli risposi, quasi balbettando che ne avrei compiuti 18 all’inizio del mese successivo.
Lui mi guardò intensamente e mi salutò augurandomi una buona giornata.
Fui stranito tutto il giorno, mi parlavano ma era come se fossi su un altro pianeta.
Non lo rividi di nuovo per due settimane, mi sembrava che il tempo non passasse mai, quando finalmente vidi da lontano la sua Citroen che scendeva verso valle.
Era il giorno del mio compleanno, ma la mia contentezza svanì quasi subito quando un’altra macchina che stava scendendo davanti a lui si fermò per caricarmi.
Non feci a tempo a declinare l’invito della madama che si era fermata, che lo vidi superarci mentre mi lanciava uno sguardo che mi sembrava veramente scocciato.
Scesi verso Torino cercando di mascherare il cattivo umore che mi aveva pervaso, e che anche in classe, nonostante le feste che mi fecero i miei compagni, non mi abbandonò.
Ma all’uscita da scuola una sorpresa incredibile mi attendeva, lui era lì, appoggiato alla sua macchina, proprio davanti al portone.
Nessuno ci fece caso, poteva tranquillamente essere mio padre venuto a prendermi per il mio compleanno.
Saltai in macchina felice come non mai.
Mentre percorrevamo la salita verso casa mi disse che non poteva non darmi un passaggio proprio oggi, anche perché nel suo viaggio di lavoro in Brasile mi aveva comprato un regalo.
"È lì dietro sul sedile" mi disse, non ci avevo fatto caso, ma in effetti di fianco alla mia sacca c’era un pacchetto.
Lo apri agitatissimo, quasi mi tremavano le mani, e dentro c'era un maglioncino, un bellissimo maglioncino color verde smeraldo.
Ero quasi commosso e non riuscii praticamente a spiaccicare una parola.
Ma per fortuna lui si rese conto che non riuscivo a parlare per l’emozione e non perché fossi maleducato.
Eravamo praticamente arrivati a casa, si fermò più o meno dove mi caricava di solito e ci stavamo salutando, quando mi chiese se non meritasse almeno un ringraziamento speciale, così mi sporsi verso di lui e gli diedi un timido bacio sulla guancia.
La pelle era ruvida a causa della barba che, rasata ormai alla mattina, stava ricominciando a crescere.
Sentivo il profumo del suo dopobarba e della sua pelle risalire per le mie narici e mi piaceva da morire.
Lui mi guardò dritto negli occhi, “vieni qui” mi disse, prendendomi dietro la nuca con una mano.
Mi avvicinò a lui e mi diede un bacio sulla bocca.
Le nostre labbra erano rimaste chiuse ma mi sentivo svenire lo stesso.
Allontanò il viso, mi guardò nuovamente negli occhi cercando di capire come l’avessi presa, poi visto che non vedeva ne terrore ne disgusto nel mio sguardo mi tirò di nuovo a se e mi baciò ancora.
Questa volta le nostre labbra si dischiusero un poco e le lingue si sfiorarono.
Le farfalle nel mio stomaco stavano dando il meglio di sé.
“È ora che tu vada ragazzo” mi disse e io scesi dalla macchina come in trance.
Mi incamminai verso casa con la mia sacca a tracolla e il mio nuovo maglioncino verde stretto tra le braccia.
Non capivo più niente, un po' felice, un po' spaventato, l'unica cosa che sapevo era che non vedevo l'ora di rivedere il mio amico... (continua)
di
scritto il
2021-12-27
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