Chiara - cap.01 - Il sottile fascino della sottomissione
di
jaco69
genere
dominazione
Aprì la porta senza bussare, non ce n’era bisogno e lo sapeva. I nostri incontri non avevano bisogno di appuntamenti, arrivavano e basta, perfettamente sincronizzati. E io ero lì, in piedi ad aspettarla fiducioso.
Chiara restò immobile a fissarmi con il suo sguardo inespressivo, sottolineato da occhiaie che testimoniavano l’ennesima notte insonne trascorsa a disegnare, con matita e foglio, le sue fantasie più perverse; indossava uno scamiciato color vinaccia, insignificante quanto inutile. Gettò a terra il borsone di pelle flaccida, usurata, e sollevò appena le mani al petto; slacciò i primi tre bottoni del vestito che scivolando lungo le spalle cadde a terra senza fare rumore, quindi con una mossa del piede lo scostò da un lato. Una spallina rimase impigliata al tacco ma lei non se ne curò. Rimase nuda su quei perfetti trampoli di morbida pelle scamosciata, tredici voluttuosi centimetri che esaltavano la lunghezza delle sue gambe affusolate, le curve non canoniche dei suoi glutei, la vita stretta, le tettine morbide impreziosite dai capezzoli appuntiti e inturgiditi dalla frescura mattutina, le spalle squadrate, il nero carrè dei suoi corti capelli a caschetto che metteva in risalto l’eleganza del collo. E in quel corpo perfetto si incastonava il diamante più prezioso, il pube liscio, perfettamente depilato, delicata fessura carnosa da cui facevano capolino le esuberanti piccole labbra, troppo grandi per restare nascoste. Nuda, come sempre sotto ogni tipo di abbigliamento: non abbiamo mai amato l’intimo, opprimente, castigatorio, fastidiosamente invadente. La fissai a lungo in silenzio, studiando e fotografando con la mente la bellezza imperfetta, e per questo ancor più affascinante, del suo viso per arricchire ancora una volta l’archivio delle mie emozioni.
Si mise in ginocchio, appoggiò le mani al pavimento e lentamente, piegandosi sui gomiti, accostò il viso ai miei piedi scalzi. Iniziò a leccarli delicatamente, su tutta la loro superficie fino alle caviglie; era quello il suo abituale esordio per dimostrare la sua devozione nei miei confronti. Li sollevò un poco per poter lambire con la lingua anche la pianta dei piedi quindi iniziò a succhiare le dita, prima l’alluce quindi tutte le altre fino ad infilarsi in bocca tutta la punta in una sensuale e perversa simulazione di sesso orale. Sapeva che quella pratica mi generava una piacevole forma di solletico e per questo vi si dedicò con passione.
Terminata la sensuale abluzione si chinò verso la borsa, fece scorrere la lampo con estenuante lentezza, per aprirla. Senza esitare prese ciò che cercava, il grande collare di cuoio nero, e se lo portò al collo; infilò le due cinghie nelle fibbie e le assicurò all’ultimo buco. Il nero cuoio ruvido aderiva perfettamente alla liscia pelle candida del suo lungo collo, donandole un’eleganza regale ancor più accentuata dal suo sguardo altero. Quindi si voltò e unì i polsi dietro la schiena. Dal collare pendeva una catena, lunga un paio di spanne, che terminava con due polsini dello stesso cuoio nero. Glieli avvolsi ai polsi, stringendo al massimo le fibbie e notai con soddifazione che il cuoio delle cinghiette era deformato dall’uso intenso proprio in corrispondenza dell’ultimo buco. Mi allontanai di un poco per osservarla mentre si girava nuovamente verso di me; il suo sguardo aveva già cambiato espressione e i muscoli del volto iniziavano a risvegliarsi perdendo l’iniziale staticità inespressiva in favore di un accennato sorriso di benessere, come se l’essere finalmente legata stesse cancellando l’inquietudine maturata durante la notte trascorsa in attesa del nostro incontro purificatore.
Si mise in ginocchio ai miei piedi e alzando lo sguardo spalancò la bocca e tirò fuori la lingua; tra di noi non c’era quasi mai bisogno di parole: ogni gesto esprimeva concetti, domande, risposte, fantasie, ogni variazione di espressione del viso era un racconto. Slacciai i pantaloni e presi in mano l’uccello ancora rilassato. Appena sveglio avevo bevuto un’enorme brocca di centrifugato di frutta e verdura e ora avevo la vescica piena, pronta a esplodere. I primi zampilli le atterrarono sul seno, scorrendo come ruscelletti di montagna lungo la pancia e scomparendo tra le sue cosce. Spinsi con maggiore intensità e il getto potente finalmente le riempì la bocca, e lei potè dissetarsi alla mia fonte con impegno e devozione, lasciandosi di tanto in tanto lambire il volto come sotto una tiepida cascatella termale. Ora il suo viso imperlato di gocce dorate non tratteneva più il sorriso, la soddisfazione e la gratitudine per averle concesso il desiderato ristoro per tanto tempo atteso e sognato. Finalmente era tranquilla, rilassata, serena, così le concessi generosamente di succhiarmelo; adorava sentire che le si inturgidiva in bocca sotto i colpi esperti della sua lingua. Lo prese in bocca come un ciuccio, assaggiando, gustando, scivolando su e giù mentre sentivo il lento scorrere della sua lingua sulla calda pelle della cappella.
Mi voltai avvicinando il culo alla sua faccia. Mi ero depilato la sera prima, sapevo benissimo quanto amasse lambire il mio buco liscio e scivoloso. Leccò lentamente, con cura, infilando per bene la lingua il più possibile in profondità per rilassarmi, per donarmi benessere, per mostrarmi la sua devozione e io la lasciai fare sapendo quanto tutto ciò le desse piacere.
Era giunto il momento di dedicarle più attenzioni; dalla sua borsa presi le pinzette, sapevo dove trovarle. Erano come mollette ma dove mordevano avevano una superficie dentellata, quasi seghettata. Quelle ricoperte di gomma le avevamo abbandonate già da tempo, ormai non le facevano più alcun effetto e così si era procurata queste, in grado di regalarle sensazioni più profonde, sottili e penetranti. Gliele applicai delicatamente ai capezzoli, cercando di ascoltare e interpretare ogni sua minima reazione, ogni sospiro, ogni lamento. Solo così potevo riuscire a regalarle il massimo godimento, e la conoscevo talmente bene che sapevo perfettamente come muovermi. Si strinse il labbro tra i denti aspirando con un sibilo di dolore ma subito mi guardò per rassicurarmi chiedendomi di continuare in questa tortura insopportabilmente piacevole. La terza pinza fu dedicata al clitoride e scatenò una reazione nervosa meno controllabile da parte sua. Respirò profondamente, lentamente, trasformando come sapeva fare lei il dolore in piacere. Presi due catenine e le applicai alle mollette, tra capezzoli e clitoride, regolandone la lunghezza in modo che fossero in leggera tensione. Mi misi comodo in poltrona ad osservare con attenzione i suoi movimenti quasi impercettibili e mirati alla conservazione dell’equilibrio sia psichico che fisico della sua postura genuflessa e sottomessa; sapevo che nella sua apparente immobilità stava vivendo un processo erotico elaborato e coinvolgente, un flusso circolare di sensazioni che partiva dai capezzoli torturati e stuzzicati, correva attraverso la pancia lungo le innervazioni fino al clitoride e da lì attraverso le catene tornava ai capezzoli. Un circuito ibrido, per metà elettrico e per metà meccanico, che fluiva in un moto perpetuo generando un indescrivibile vortice di piacere. Mentre osservavo tutto ciò mi resi conto che avrebbe potuto tranquilamente raggiungere l’orgasmo senza ulteriori interventi, ma era ancora presto e dovevo assolutamente intervenire per prolungare ed intensificare il suo godimento. Con la coda dell’occhio mi indicò la borsa e quando, dopo aver frugato, estrassi il frustino da fantino lei mi sorrise fiduciosa come se le sue speranze si stessero realizzando.
Spontaneamente si inclinò leggermente in avanti sollevando per bene il culo e restò in paziente attesa. Il primo colpo schioccò rapido, il suono secco del cuoio sulla pelle si miscelò a quello flautato del suo sospiro di dolore e finalmente il sorriso sul suo volto si fece più deciso: Chiara riusciva a trasformare qualunque sollecitazione, anche di dolore, in una sensazione positiva, di benessere e di piacere mentale e fisico. Il frustino rimbalzò sulle rotondità candide delle sue natiche lasciando il posto ad una riga rossastra, netta, perfettamente orizzontale. Il secondo colpo fu ancora più intenso, per non deludere le sue aspettative, e staccò una nuova riga rossa parallela alla prima. Chiara raccoglieva con la lingua le prime lacrime di dolore che stavano iniziando a solcarle il viso, gustandone il sapore salato. Le frustate si susseguirono in un inevitabile crescendo di intensità; mi fermai a diciannove e osservai il fitto fascio di striature che ricamava e impreziosiva quel meraviglioso culo.
Posai il frustino, mi alzai e la afferrai per i capelli, con un gesto piuttosto grezzo; le tirai indietro la testa per guardarla in faccia: aveva gli occhi rossi, umidi, e un sorriso colmo di gratitudine per le attenzioni ricevute.
- Ne manca ancora uno – mi disse.
Era vero, avevo conservato l’ultima staffilata, la ventesima, la più desiderata da lei, per accrescere il suo stato di tensione e di desiderio; e tutto sommato anche per ribadire il fatto che le decisioni erano una mia esclusiva assoluta. Sempre tirandola per i capelli la feci alzare in piedi e la condussi verso il tavolo; camminava sui tacchi con un’eleganza impareggiabile, anche mentre la trascinavo. Era il momento di liberarla dalle pinze: i capezzoli cianotici furono nuovamente irrorati e presero vigore assumendo un colore rubino; glieli baciai con dolcezza stando attento a non sovrastimolare la loro sensibilità. Liberai anche il clitoride, provocando in Chiara una reazione piuttosto delusa; in effetti non era giusto privarla di questo piacere, così applicai due mollette alle piccole labbra lasciando penzolare la terza. Le feci appoggiare la testa e il busto al tavolo quindi con l’aiuto del frustino le feci aggiustare la posizione fino ad ottenere una perfetta L a 90°. Mi misi dietro di lei ad osservare lo stacco delle sue gambe infinite, leggermente divaricate, le mani ancora immobilizzate dietro la schiena, la guancia appoggiata al cristallo freddo del tavolo. Sentivo il suo desiderio di dolore, di essere torturata per poter raggiungere l’estasi, la voglia non ancora completamente soddisfatta di frusta e in qualche modo sapevo di doverla accontentare. Scelsi un peso da bilancia e lo assicurai alla terza pinzetta su cui convergevano le due catenine: il morso delle pinze sulla tenera carne non era sufficiente a soddisfare i suoi bisogni; il peso appoggiava saldo a terra mantenendo in tensione le catene e la trazione allungava, quasi deformandoli, i dolci petali carnosi donandole quella sensazione di sottile e gradevole violenza che tanto desiderava. L’interno delle sue cosce era ancora lucido e appiccicoso per le abbondanti secrezioni vaginali prodotte durante la fustigazione, ma ora le trasparenti e fluide gocce scendevano lungo le catenine e dopo qualche minuto, mentre osservavo paziente, raggiunsero il peso e da lì iniziarono a sgocciolare sul pavimento. Se la mia coscienza non mi avesse sensibilizzato sui miei doveri nei suoi confronti sarei rimasto per ore a studiare l’estetica impeccabile del quadro che mi si presentava davanti. Ma Chiara chiedeva attenzione e così, inginocchiandomi dietro di lei, iniziai a leccarla: le caviglie, i polpacci, dietro alle ginocchia, le cosce; dopo averli leccati, per dar loro ristoro e rinfresco dall’irritazione cutanea generata dalle frustate, afferrai i glutei affondando le dita nella soffice carne striata dal cuoio e li divaricai con forza. Mi trovai finalmente davanti il suo buco del culo, una fresca rosa rossa, pulsante; vi appoggiai la punta del naso e feci scivolare la lingua tra le due piccole labbra stressate dalla trazione delle catene, gustando tutta la dolcezza del nettare appiccicoso, quindi risalii fino allo sfintere pulsante e iniziai con molta calma a leccarlo. Per lunghi minuti disegnai con la lingua cerchi concentrici sempre più piccoli fino ad arrivare al centro del bersaglio in cui la lingua potè finalmente affondare con facilità. Ma Chiara richiedeva ben altro.
Mi alzai in piedi, il mio pube era esattamente all’altezza del suo culo, appoggiai la cappella allo sfintere lubrificato e rilassato e spinsi. Spinsi con decisione, senza lasciarle il tempo di adattarsi; Chiara adorava sentirsi violata e il dolore della repentina e violenta penetrazione anale le donò scariche di energia che non erano paragonabili con nient’altro. Voleva sentirsi sfondata con forza e accontentarla era un mio dovere. Ad ogno colpo d’anca sentivo il cigolio della sua guancia che sfregava sul freddo cristallo, poi questo suono lentamente svanì: il sudore aveva iniziato a inumidire la superficie del tavolo e ora la pelle scivolava in silenzio. Ma c’era un suono che non accennava ad affievolire: il suo ansimare ritmico, gli urletti strozzati in sincronia con i miei colpi, sia per l’affondo del mio cazzo nelle sue viscere, ingombrante e volutamente rozzo, sia per le catene che andando in tensione amplificavano il dolore del morso delle pinzette sulle sue piccole labbra. Mentre mi spingevo dentro di lei con sempre maggiore facilità osservavo le variazioni cromatiche della sua pelle, le chiazze rosate sulle spalle, le gocce di sudore che imperlavano come piccoli brillanti la sua cute arrossata. Di tanto in tanto le afferravo i capelli per sollevarle la testa, un gesto rude, energico che però culminava nel più dolce bacio che potesse essere desiderato. Ad un tratto mi ricordai di essere in debito con lei: mi ero fermato a 19 frustate, lei se ne era risentita e sicuramente voleva essere ricompensata adeguatamente per la mia mancanza. Mentre continuavo a penetrarla a fondo stampai un potente colpo con la mia mano sui suoi glutei. Lo schiocco sonoro generò in lei un improvviso scatto accompagnato da un lungo “siiii ancoraaa” sibilato con un filo di voce; si voltò appena verso di me osservandomi con la coda dell’occhio e mostrandomi un sorriso soddisfatto. Restai ad osservare l’impronta artistica della mia mano che prendeva colore e apprezzai la geometria delle sagome delle mie dita, a ventaglio, che intersecavano con angoli diversi le rosse linee parallele disegnate poco prima dal frustino. I dieci schiaffi successivi, distribuiti equamente tra destra e sinistra, furono cadenzati ogni tre colpi d’anca, con una precisione matematica apparentemente maniacale ma che in realtà educava la mia stupenda vittima ad attendere con pazienza e a focalizzare il suo desiderio nell’attesa stessa. Solo l’ultimo non rispettò questa geometria, arrivando tardivamente e con meno potenza, ma solo perché nel frattempo Chiara aveva finalmente appagato i sensi in un orgasmo sconvolgente, indescrivibile ed inspiegabile, in cui le urla di dolore e i gemiti di piacere si erano fusi in una manifestazione sonora unica, deliziosamente assordante.
La lasciai accasciare a terra e liberai le sue piccole labbra dalla morsa delle pinzette torturatrici ma non toccai collare e polsini. Restò in ginocchio, con lo sguardo abbassato, e con un filo di voce mormorò:
- grazie mio padrone, posso fare qualcosa per te?
Presi dalla sua borsa un guinzaglio da pitbull, costituito da una morbida maniglia in pelle dotata di una corta e robusta catena, l’assicurai con il moschettone all’anello del collare e la trascinai in camera; tentava faticosamente di tenere il mio passo seguendomi a carponi mentre sentivo le sue ginocchia stridere sul legno lucido del pavimento. La mia idea era di mettermi comodo sul letto, ma mi resi conto che il suo desiderio di sottomissione non sarebbe stato sufficientemente soddisfatto e così restai in posizione eretta lasciandola in ginocchio ai miei piedi.
In passato i nostri incontri avevano avuto momenti educativi molto intensi ed importanti, soprattutto durante le sue primissime esperienze di sottomissione. La raffinata tecnica da lei raggiunta nel sesso orale fu uno dei risultati più salienti in confronto con le scadenti prestazioni dei nostri primi incontri, mesi prima. Sempre afferrandola per i capelli le tirai indietro la testa e lei, con un gesto automatico, spalancò la bocca e iniziò a succhiarmi l’uccello fino alle palle, spingendoselo fino in gola. Erano quelli i momenti in cui amava essere forzata all’estremo, per superare i propri limiti. E così le trattenevo la testa, forzandola contro il mio pube, fino a che non le mancava il fiato. Poi lasciavo che pompasse su e giù con forza, o che mulinasse la lingua intorno alla cappella, che aspirasse. In breve mi portò al punto di non ritorno, al ché le affondai l’uccello in gola e iniziai a venire copiosamente, trattenendole con forza la testa. Chiara annaspava, deglutiva a fatica impossibilitata a respirare ma si impegnò a fondo per riuscire a resistere fino alla fine, non volendo penalizzare o interrompere la mia esperienza di piacere amplificata all’inverosimile dalle contrazioni della sua gola intorno al mio glande. Quando la liberai dalla presa faticò a riprendere fiato, aiutandosi con due colpi di tosse sonori; la bava, colandole dagli angoli della bocca, si mischiava alle lacrime dovute allo sforzo ma anche all’emozione; gli occhi rossi, gonfi esprimevano sorridenti la sua soddisfazione. Il piacere fisico del mio orgasmo fu come sempre entusiasmante ma l’aspetto mentale lo superò di gran lunga, non tanto per il senso di supremazia, comunque non trascurabile, dato dal totale controllo sulla mia compagna di giochi quanto piuttosto per l’impareggiabile soddisfazione di averle donato ciò che realmente e intimamente desiderava, e cioè sentirsi totalmente in mio potere. E lei dimostrava sempre la sua infinita gratitudine nei confronti del suo amato padrone con la devozione di una fedele cagnetta. Per questo, quando la liberai dalle cinghie di cuoio che l’avevano fino ad allora vincolata, restituendole la libertà di movimento, prese spontaneamente il suo collare per la notte in morbida pelle nera impreziosita da due file di piccoli brillantini e lo indossò mostrandomi con orgoglio la medaglietta di metallo rosso a forma di cuore con inciso su una faccia il suo appellativo preferito, “Troia”, e sull’altra il mio numero di telefono; quindi serenamente si accucciò sul tappetino ai piedi del letto e, raggomitolandosi, chiuse gli occhi. Mi avvicinai a lei per darle un’affettuosa carezza sui capelli e lei, sospirando, mi sorrise beata; finalmente soddisfatto e appagato mi stesi sul morbido materasso avvolto dalle fresche e profumate lenzuola e mi addormentai.
Chiara restò immobile a fissarmi con il suo sguardo inespressivo, sottolineato da occhiaie che testimoniavano l’ennesima notte insonne trascorsa a disegnare, con matita e foglio, le sue fantasie più perverse; indossava uno scamiciato color vinaccia, insignificante quanto inutile. Gettò a terra il borsone di pelle flaccida, usurata, e sollevò appena le mani al petto; slacciò i primi tre bottoni del vestito che scivolando lungo le spalle cadde a terra senza fare rumore, quindi con una mossa del piede lo scostò da un lato. Una spallina rimase impigliata al tacco ma lei non se ne curò. Rimase nuda su quei perfetti trampoli di morbida pelle scamosciata, tredici voluttuosi centimetri che esaltavano la lunghezza delle sue gambe affusolate, le curve non canoniche dei suoi glutei, la vita stretta, le tettine morbide impreziosite dai capezzoli appuntiti e inturgiditi dalla frescura mattutina, le spalle squadrate, il nero carrè dei suoi corti capelli a caschetto che metteva in risalto l’eleganza del collo. E in quel corpo perfetto si incastonava il diamante più prezioso, il pube liscio, perfettamente depilato, delicata fessura carnosa da cui facevano capolino le esuberanti piccole labbra, troppo grandi per restare nascoste. Nuda, come sempre sotto ogni tipo di abbigliamento: non abbiamo mai amato l’intimo, opprimente, castigatorio, fastidiosamente invadente. La fissai a lungo in silenzio, studiando e fotografando con la mente la bellezza imperfetta, e per questo ancor più affascinante, del suo viso per arricchire ancora una volta l’archivio delle mie emozioni.
Si mise in ginocchio, appoggiò le mani al pavimento e lentamente, piegandosi sui gomiti, accostò il viso ai miei piedi scalzi. Iniziò a leccarli delicatamente, su tutta la loro superficie fino alle caviglie; era quello il suo abituale esordio per dimostrare la sua devozione nei miei confronti. Li sollevò un poco per poter lambire con la lingua anche la pianta dei piedi quindi iniziò a succhiare le dita, prima l’alluce quindi tutte le altre fino ad infilarsi in bocca tutta la punta in una sensuale e perversa simulazione di sesso orale. Sapeva che quella pratica mi generava una piacevole forma di solletico e per questo vi si dedicò con passione.
Terminata la sensuale abluzione si chinò verso la borsa, fece scorrere la lampo con estenuante lentezza, per aprirla. Senza esitare prese ciò che cercava, il grande collare di cuoio nero, e se lo portò al collo; infilò le due cinghie nelle fibbie e le assicurò all’ultimo buco. Il nero cuoio ruvido aderiva perfettamente alla liscia pelle candida del suo lungo collo, donandole un’eleganza regale ancor più accentuata dal suo sguardo altero. Quindi si voltò e unì i polsi dietro la schiena. Dal collare pendeva una catena, lunga un paio di spanne, che terminava con due polsini dello stesso cuoio nero. Glieli avvolsi ai polsi, stringendo al massimo le fibbie e notai con soddifazione che il cuoio delle cinghiette era deformato dall’uso intenso proprio in corrispondenza dell’ultimo buco. Mi allontanai di un poco per osservarla mentre si girava nuovamente verso di me; il suo sguardo aveva già cambiato espressione e i muscoli del volto iniziavano a risvegliarsi perdendo l’iniziale staticità inespressiva in favore di un accennato sorriso di benessere, come se l’essere finalmente legata stesse cancellando l’inquietudine maturata durante la notte trascorsa in attesa del nostro incontro purificatore.
Si mise in ginocchio ai miei piedi e alzando lo sguardo spalancò la bocca e tirò fuori la lingua; tra di noi non c’era quasi mai bisogno di parole: ogni gesto esprimeva concetti, domande, risposte, fantasie, ogni variazione di espressione del viso era un racconto. Slacciai i pantaloni e presi in mano l’uccello ancora rilassato. Appena sveglio avevo bevuto un’enorme brocca di centrifugato di frutta e verdura e ora avevo la vescica piena, pronta a esplodere. I primi zampilli le atterrarono sul seno, scorrendo come ruscelletti di montagna lungo la pancia e scomparendo tra le sue cosce. Spinsi con maggiore intensità e il getto potente finalmente le riempì la bocca, e lei potè dissetarsi alla mia fonte con impegno e devozione, lasciandosi di tanto in tanto lambire il volto come sotto una tiepida cascatella termale. Ora il suo viso imperlato di gocce dorate non tratteneva più il sorriso, la soddisfazione e la gratitudine per averle concesso il desiderato ristoro per tanto tempo atteso e sognato. Finalmente era tranquilla, rilassata, serena, così le concessi generosamente di succhiarmelo; adorava sentire che le si inturgidiva in bocca sotto i colpi esperti della sua lingua. Lo prese in bocca come un ciuccio, assaggiando, gustando, scivolando su e giù mentre sentivo il lento scorrere della sua lingua sulla calda pelle della cappella.
Mi voltai avvicinando il culo alla sua faccia. Mi ero depilato la sera prima, sapevo benissimo quanto amasse lambire il mio buco liscio e scivoloso. Leccò lentamente, con cura, infilando per bene la lingua il più possibile in profondità per rilassarmi, per donarmi benessere, per mostrarmi la sua devozione e io la lasciai fare sapendo quanto tutto ciò le desse piacere.
Era giunto il momento di dedicarle più attenzioni; dalla sua borsa presi le pinzette, sapevo dove trovarle. Erano come mollette ma dove mordevano avevano una superficie dentellata, quasi seghettata. Quelle ricoperte di gomma le avevamo abbandonate già da tempo, ormai non le facevano più alcun effetto e così si era procurata queste, in grado di regalarle sensazioni più profonde, sottili e penetranti. Gliele applicai delicatamente ai capezzoli, cercando di ascoltare e interpretare ogni sua minima reazione, ogni sospiro, ogni lamento. Solo così potevo riuscire a regalarle il massimo godimento, e la conoscevo talmente bene che sapevo perfettamente come muovermi. Si strinse il labbro tra i denti aspirando con un sibilo di dolore ma subito mi guardò per rassicurarmi chiedendomi di continuare in questa tortura insopportabilmente piacevole. La terza pinza fu dedicata al clitoride e scatenò una reazione nervosa meno controllabile da parte sua. Respirò profondamente, lentamente, trasformando come sapeva fare lei il dolore in piacere. Presi due catenine e le applicai alle mollette, tra capezzoli e clitoride, regolandone la lunghezza in modo che fossero in leggera tensione. Mi misi comodo in poltrona ad osservare con attenzione i suoi movimenti quasi impercettibili e mirati alla conservazione dell’equilibrio sia psichico che fisico della sua postura genuflessa e sottomessa; sapevo che nella sua apparente immobilità stava vivendo un processo erotico elaborato e coinvolgente, un flusso circolare di sensazioni che partiva dai capezzoli torturati e stuzzicati, correva attraverso la pancia lungo le innervazioni fino al clitoride e da lì attraverso le catene tornava ai capezzoli. Un circuito ibrido, per metà elettrico e per metà meccanico, che fluiva in un moto perpetuo generando un indescrivibile vortice di piacere. Mentre osservavo tutto ciò mi resi conto che avrebbe potuto tranquilamente raggiungere l’orgasmo senza ulteriori interventi, ma era ancora presto e dovevo assolutamente intervenire per prolungare ed intensificare il suo godimento. Con la coda dell’occhio mi indicò la borsa e quando, dopo aver frugato, estrassi il frustino da fantino lei mi sorrise fiduciosa come se le sue speranze si stessero realizzando.
Spontaneamente si inclinò leggermente in avanti sollevando per bene il culo e restò in paziente attesa. Il primo colpo schioccò rapido, il suono secco del cuoio sulla pelle si miscelò a quello flautato del suo sospiro di dolore e finalmente il sorriso sul suo volto si fece più deciso: Chiara riusciva a trasformare qualunque sollecitazione, anche di dolore, in una sensazione positiva, di benessere e di piacere mentale e fisico. Il frustino rimbalzò sulle rotondità candide delle sue natiche lasciando il posto ad una riga rossastra, netta, perfettamente orizzontale. Il secondo colpo fu ancora più intenso, per non deludere le sue aspettative, e staccò una nuova riga rossa parallela alla prima. Chiara raccoglieva con la lingua le prime lacrime di dolore che stavano iniziando a solcarle il viso, gustandone il sapore salato. Le frustate si susseguirono in un inevitabile crescendo di intensità; mi fermai a diciannove e osservai il fitto fascio di striature che ricamava e impreziosiva quel meraviglioso culo.
Posai il frustino, mi alzai e la afferrai per i capelli, con un gesto piuttosto grezzo; le tirai indietro la testa per guardarla in faccia: aveva gli occhi rossi, umidi, e un sorriso colmo di gratitudine per le attenzioni ricevute.
- Ne manca ancora uno – mi disse.
Era vero, avevo conservato l’ultima staffilata, la ventesima, la più desiderata da lei, per accrescere il suo stato di tensione e di desiderio; e tutto sommato anche per ribadire il fatto che le decisioni erano una mia esclusiva assoluta. Sempre tirandola per i capelli la feci alzare in piedi e la condussi verso il tavolo; camminava sui tacchi con un’eleganza impareggiabile, anche mentre la trascinavo. Era il momento di liberarla dalle pinze: i capezzoli cianotici furono nuovamente irrorati e presero vigore assumendo un colore rubino; glieli baciai con dolcezza stando attento a non sovrastimolare la loro sensibilità. Liberai anche il clitoride, provocando in Chiara una reazione piuttosto delusa; in effetti non era giusto privarla di questo piacere, così applicai due mollette alle piccole labbra lasciando penzolare la terza. Le feci appoggiare la testa e il busto al tavolo quindi con l’aiuto del frustino le feci aggiustare la posizione fino ad ottenere una perfetta L a 90°. Mi misi dietro di lei ad osservare lo stacco delle sue gambe infinite, leggermente divaricate, le mani ancora immobilizzate dietro la schiena, la guancia appoggiata al cristallo freddo del tavolo. Sentivo il suo desiderio di dolore, di essere torturata per poter raggiungere l’estasi, la voglia non ancora completamente soddisfatta di frusta e in qualche modo sapevo di doverla accontentare. Scelsi un peso da bilancia e lo assicurai alla terza pinzetta su cui convergevano le due catenine: il morso delle pinze sulla tenera carne non era sufficiente a soddisfare i suoi bisogni; il peso appoggiava saldo a terra mantenendo in tensione le catene e la trazione allungava, quasi deformandoli, i dolci petali carnosi donandole quella sensazione di sottile e gradevole violenza che tanto desiderava. L’interno delle sue cosce era ancora lucido e appiccicoso per le abbondanti secrezioni vaginali prodotte durante la fustigazione, ma ora le trasparenti e fluide gocce scendevano lungo le catenine e dopo qualche minuto, mentre osservavo paziente, raggiunsero il peso e da lì iniziarono a sgocciolare sul pavimento. Se la mia coscienza non mi avesse sensibilizzato sui miei doveri nei suoi confronti sarei rimasto per ore a studiare l’estetica impeccabile del quadro che mi si presentava davanti. Ma Chiara chiedeva attenzione e così, inginocchiandomi dietro di lei, iniziai a leccarla: le caviglie, i polpacci, dietro alle ginocchia, le cosce; dopo averli leccati, per dar loro ristoro e rinfresco dall’irritazione cutanea generata dalle frustate, afferrai i glutei affondando le dita nella soffice carne striata dal cuoio e li divaricai con forza. Mi trovai finalmente davanti il suo buco del culo, una fresca rosa rossa, pulsante; vi appoggiai la punta del naso e feci scivolare la lingua tra le due piccole labbra stressate dalla trazione delle catene, gustando tutta la dolcezza del nettare appiccicoso, quindi risalii fino allo sfintere pulsante e iniziai con molta calma a leccarlo. Per lunghi minuti disegnai con la lingua cerchi concentrici sempre più piccoli fino ad arrivare al centro del bersaglio in cui la lingua potè finalmente affondare con facilità. Ma Chiara richiedeva ben altro.
Mi alzai in piedi, il mio pube era esattamente all’altezza del suo culo, appoggiai la cappella allo sfintere lubrificato e rilassato e spinsi. Spinsi con decisione, senza lasciarle il tempo di adattarsi; Chiara adorava sentirsi violata e il dolore della repentina e violenta penetrazione anale le donò scariche di energia che non erano paragonabili con nient’altro. Voleva sentirsi sfondata con forza e accontentarla era un mio dovere. Ad ogno colpo d’anca sentivo il cigolio della sua guancia che sfregava sul freddo cristallo, poi questo suono lentamente svanì: il sudore aveva iniziato a inumidire la superficie del tavolo e ora la pelle scivolava in silenzio. Ma c’era un suono che non accennava ad affievolire: il suo ansimare ritmico, gli urletti strozzati in sincronia con i miei colpi, sia per l’affondo del mio cazzo nelle sue viscere, ingombrante e volutamente rozzo, sia per le catene che andando in tensione amplificavano il dolore del morso delle pinzette sulle sue piccole labbra. Mentre mi spingevo dentro di lei con sempre maggiore facilità osservavo le variazioni cromatiche della sua pelle, le chiazze rosate sulle spalle, le gocce di sudore che imperlavano come piccoli brillanti la sua cute arrossata. Di tanto in tanto le afferravo i capelli per sollevarle la testa, un gesto rude, energico che però culminava nel più dolce bacio che potesse essere desiderato. Ad un tratto mi ricordai di essere in debito con lei: mi ero fermato a 19 frustate, lei se ne era risentita e sicuramente voleva essere ricompensata adeguatamente per la mia mancanza. Mentre continuavo a penetrarla a fondo stampai un potente colpo con la mia mano sui suoi glutei. Lo schiocco sonoro generò in lei un improvviso scatto accompagnato da un lungo “siiii ancoraaa” sibilato con un filo di voce; si voltò appena verso di me osservandomi con la coda dell’occhio e mostrandomi un sorriso soddisfatto. Restai ad osservare l’impronta artistica della mia mano che prendeva colore e apprezzai la geometria delle sagome delle mie dita, a ventaglio, che intersecavano con angoli diversi le rosse linee parallele disegnate poco prima dal frustino. I dieci schiaffi successivi, distribuiti equamente tra destra e sinistra, furono cadenzati ogni tre colpi d’anca, con una precisione matematica apparentemente maniacale ma che in realtà educava la mia stupenda vittima ad attendere con pazienza e a focalizzare il suo desiderio nell’attesa stessa. Solo l’ultimo non rispettò questa geometria, arrivando tardivamente e con meno potenza, ma solo perché nel frattempo Chiara aveva finalmente appagato i sensi in un orgasmo sconvolgente, indescrivibile ed inspiegabile, in cui le urla di dolore e i gemiti di piacere si erano fusi in una manifestazione sonora unica, deliziosamente assordante.
La lasciai accasciare a terra e liberai le sue piccole labbra dalla morsa delle pinzette torturatrici ma non toccai collare e polsini. Restò in ginocchio, con lo sguardo abbassato, e con un filo di voce mormorò:
- grazie mio padrone, posso fare qualcosa per te?
Presi dalla sua borsa un guinzaglio da pitbull, costituito da una morbida maniglia in pelle dotata di una corta e robusta catena, l’assicurai con il moschettone all’anello del collare e la trascinai in camera; tentava faticosamente di tenere il mio passo seguendomi a carponi mentre sentivo le sue ginocchia stridere sul legno lucido del pavimento. La mia idea era di mettermi comodo sul letto, ma mi resi conto che il suo desiderio di sottomissione non sarebbe stato sufficientemente soddisfatto e così restai in posizione eretta lasciandola in ginocchio ai miei piedi.
In passato i nostri incontri avevano avuto momenti educativi molto intensi ed importanti, soprattutto durante le sue primissime esperienze di sottomissione. La raffinata tecnica da lei raggiunta nel sesso orale fu uno dei risultati più salienti in confronto con le scadenti prestazioni dei nostri primi incontri, mesi prima. Sempre afferrandola per i capelli le tirai indietro la testa e lei, con un gesto automatico, spalancò la bocca e iniziò a succhiarmi l’uccello fino alle palle, spingendoselo fino in gola. Erano quelli i momenti in cui amava essere forzata all’estremo, per superare i propri limiti. E così le trattenevo la testa, forzandola contro il mio pube, fino a che non le mancava il fiato. Poi lasciavo che pompasse su e giù con forza, o che mulinasse la lingua intorno alla cappella, che aspirasse. In breve mi portò al punto di non ritorno, al ché le affondai l’uccello in gola e iniziai a venire copiosamente, trattenendole con forza la testa. Chiara annaspava, deglutiva a fatica impossibilitata a respirare ma si impegnò a fondo per riuscire a resistere fino alla fine, non volendo penalizzare o interrompere la mia esperienza di piacere amplificata all’inverosimile dalle contrazioni della sua gola intorno al mio glande. Quando la liberai dalla presa faticò a riprendere fiato, aiutandosi con due colpi di tosse sonori; la bava, colandole dagli angoli della bocca, si mischiava alle lacrime dovute allo sforzo ma anche all’emozione; gli occhi rossi, gonfi esprimevano sorridenti la sua soddisfazione. Il piacere fisico del mio orgasmo fu come sempre entusiasmante ma l’aspetto mentale lo superò di gran lunga, non tanto per il senso di supremazia, comunque non trascurabile, dato dal totale controllo sulla mia compagna di giochi quanto piuttosto per l’impareggiabile soddisfazione di averle donato ciò che realmente e intimamente desiderava, e cioè sentirsi totalmente in mio potere. E lei dimostrava sempre la sua infinita gratitudine nei confronti del suo amato padrone con la devozione di una fedele cagnetta. Per questo, quando la liberai dalle cinghie di cuoio che l’avevano fino ad allora vincolata, restituendole la libertà di movimento, prese spontaneamente il suo collare per la notte in morbida pelle nera impreziosita da due file di piccoli brillantini e lo indossò mostrandomi con orgoglio la medaglietta di metallo rosso a forma di cuore con inciso su una faccia il suo appellativo preferito, “Troia”, e sull’altra il mio numero di telefono; quindi serenamente si accucciò sul tappetino ai piedi del letto e, raggomitolandosi, chiuse gli occhi. Mi avvicinai a lei per darle un’affettuosa carezza sui capelli e lei, sospirando, mi sorrise beata; finalmente soddisfatto e appagato mi stesi sul morbido materasso avvolto dalle fresche e profumate lenzuola e mi addormentai.
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