Espiazione VIII

di
genere
pulp

Sudore e tanfo di piscio mi nauseano, l’urina che ha dissetato la mia gola mi ha lasciato in bocca un gusto marcato e sgradevole che mi procura periodici e sgradevoli impulsi di vomito, così per l’ennesima volta mi ritrovo con la testa curvata verso il pavimento predisposta a rigettare, ma nello stomaco non ho nulla di solido da scaricare e le contrazioni muscolari si rivelano solo come vuoti intensi movimenti respiratori spasmodici che mi lasciano sprovvista di forza. Risollevo il capo e mi abbandono con la schiena contro la parete adiacente al mio letto in attesa del prossimo impulso. La nauseante routine viene ad un tratto interrotta dalla visita di due fratelli incappucciati che una volta dentro la cella mi ordinano di seguirli. Mi sollevo a fatica e uno di loro si china ai miei piedi e con veemenza afferra il sinistro, lo solleva e su di esso introduce qualcosa che scivola sull’intera gamba e che viene assicurato tra la coscia e l’inguine. Dopo aver collocato la corona circolare, mi chiedono di inginocchiarmi e di seguirli. Mi abbasso ed eseguo, appena lo faccio una sensazione fastidiosa si svela sulla coscia, dei piccoli aghi sottili mi penetrano sotto cute, il cilicio è pronto a fare il suo lavoro. Li seguo in ginocchio per l’oscuro tragitto e ovviamente oltre a graffiarmi le ginocchia per via del contatto con il pavimento devo anche patire la cinghia uncinata che penetra nelle carni trafiggendone l’epidermide. Questo artificio diabolico pensato per provocare un dolore non estremo ma costante è un vero e proprio strumento di mortificazione ancora largamente concepito in alcune ambienti ecclesiastici. Intanto nel tragitto chi fa strada recita delle orazioni, a cui sono costretta ovviamente a prendere parte, mentre l’altro chiude la mini-processione alle mie spalle sferzandomi ritmicamente con una litupa, una tradizionale frusta in cuoio africana, che con regolare cadenza si infrange contro la mia schiena nuda. Arrivo in una piccola sala, con la schiena dolorante e la coscia tormentata, mi viene ordinato di dispormi a gattoni, lo faccio e dopo poco arriva in delle ciotole il mio nutrimento, al solito dovrò sostentarmi chinandomi su di esse. Tra irritanti dolori finalmente mi abbevero, ma non ho fame, perciò vengo portata sotto la doccia dove posso beneficiare di un lavaggio che anche se dura veramente poco allontana l’olezzo nauseante. Al termine della mia doccia i due monaci mi obbligano a riprendere la processione e mi scortano in refettorio. Qui come già successo vengo esposta al pubblico ludibrio, questa volta non mediante gogna ma vengo assicurata ad un pilone di legno, su cui poggia il soffitto, tramite delle corde. In basso i commensali iniziano a cibarsi e tra uno sguardo malizioso rivolto al mio corpo e uno al loro piatto li osservo triste e rassegnata. Non so quando finirà questo tormento, mi sento colpevole per la mia anima, ma soprattutto per quella di Gertrude di cui non conosco la sorte. Ho male ai polsi e come se non bastasse mentre ondeggio nel vuoto il cilicio penetra le carni e riprendo lievemente a sanguinare, ma a nessuno importa e intorno a me odo solo il rumore dei cucchiai che si immergono nei piatti dei numerosi frati che mangiano adagio. Ci vorrà tempo prima che terminino la loro cena, così tra atroci sofferenze cerco rifugio in un ricordo piacevole, il più immediato ovviamente è quello di Gertrude. Ripenso a quanto avvenne dopo quel primo rapporto carnale e ai successivi che si avvicendarono in altre circostanze. Nel monastero le occasioni erano scandite dal tempo e dalle situazioni e per questo avevamo imparato a riconoscerle e segnalarcele tra noi tramite segni e cenni. Vi erano giornate in cui le circostanze non ci permettevano di unirci e a volte ritardavano i nostri incontri anche per settimane intere. Tuttavia continuammo a portare avanti il nostro saffico rapporto, nel massimo riserbo, per circa un intero anno, finché circa 3 mesi fa ci scoprirono e diventammo da allora, con sicurezza almeno nel mio caso, la carne da macello per tutto e tutti. Quel funesto giorno ero in refettorio e avevo apparecchiato per le mie commensali, attendevo il loro rientro dall’orto per servire e consumare con loro la pietanza giornaliera. Con Gertrude, come detto, dovevamo approfittare di ogni momento per ricavarci un po’ di intimità e cogliere i segni era l’unico modo per farlo, questo gioco mi intrigava e conoscendo bene l’acume della mia amata, spesso solevo lasciarle degli indizi personali che poi lei avrebbe tradotto assecondando le mie azioni. Quel giorno dopo aver apparecchiato, ebbi cura di nascondere all’interno del suo fazzoletto, nella sua postazione al tavolo, uno dei suoi fiori preferiti che crescevano nell’orto fuori. Avevo saputo sin dal mattino che suor Bruna, la sorella che lavorava con me in cucina, non stava bene e che quindi avrei avuto bisogno di una lavapiatti in cucina che la sostituisse. Al solito orario consumammo il pasto da me preparato, negli anni trascorsi in monastero oltre ad imparare a pregare, dissodare, supervisionare ho imparato anche cucinare e questa abilità fu apprezzata dalla madre superiore. Un giorno rimpiazzai la cuoca del convento, assente per via di un problema personale, cavandomela egregiamente, tanto che da allora mi affidarono la mansione di cuoca per il resto degli anni, con conferma anche da parte della successiva badessa. Durante quel pranzo, incrociai lo sguardo gaudente di Gertrude, segno che aveva trovato il piccolo ramoscello di lavanda all’interno del suo fazzoletto. Alla fine del pranzo, fui aiutata dalle due capofila del tavolo a sbarazzare, ma avevo bisogno di qualcuno che si occupasse anche di lavare le stoviglie, così chiesi alla tavolata se ci fosse una sorella disposta a prendere il posto della malata sorella Bruna. La novizia Gertrude non aspettava altro e si alzò in piedi offrendosi volontaria, ottenuto il benestare della badessa mi raggiunse in cucina dove iniziò a darsi da fare con le stoviglie, lavammo tutto velocemente non volevamo perdere tempo prezioso e spesso ci voltavamo a guardarci in silenzio felici. Ricordo la mia soddisfazione, anche quella volta ero stata capace di trovare il modo di starle accanto. Una volta terminati i compiti più gravosi lasciammo passare del tempo per permettere alle sorelle di defluire dalla sala accanto e quando questa fu finalmente vuota, corsi da lei ad abbracciarla e baciarla. Ci lasciammo in breve prendere dal momento, ricordo che l’accarezzavo con passione strusciandole le fattezze celate dalla veste e mentre ci baciavamo con passione nella foga le passai la mano dietro l’orecchio urtando il fiore che le avevo fatto trovare in refettorio. Lo presi e lo odorai raggiante, la dolcezza di questi suoi piccoli gesti mi faceva felice. La baciai ancora e con più passione, poi lei mi avvicinò a se e mi sollevò la lunga tunica nera fin oltre le ginocchia e una volta oltre la vite, la strinse facendone un nodo alto e scoprendo così il mio folto e nero monte di venere. Ovviamente non portavo né calze, né mutande, così le sue mani poterono attraversare dolcemente le mie gambe, fino all’ interno coscia. Le sue mani vellutate mi facevano impazzire conosceva e sapeva stimolare molto bene i miei punti erogeni e anche in quella occasione si dimostrò capace. Dopo avermi accarezzato e palpata fino al linguine le sue esili dita sprofondarono dentro di me trasformandomi in un brodo di zuppa. Mi abbandonai lasciandole spazio, mi ritrovai presto contro il lavello, mentre le sue mani mi imponevano di spalancare le cosce, lo feci, ma presto ci rendemmo conto che la posizione non era delle migliori. Sciolsi allora il nodo che mi aveva fatto al vestito e abbassai la zip centrale, facendo scivolare la tunica per terra e rimanendo solo con la cuffia in testa. Questo migliorò ogni manovra e le sue quattro dita si persero nella mia sorca infiammata. Ricordo che mi dimenavo ossessa mentre lei continuava curiosa a sollazzarmi. Con impeto le tirai fuori le dita, le portai alla bocca accarezzandole con la lingua. La guardai per un secondo e poi la presi con decisone, la voltai, e mentre lei sorrideva divertita, le tirai giù la zip del suo abito e in un baleno la spogliai. In ancora meno tempo l’ancorai contro il tavolo, alle nostre spalle, piegandola al mio desiderio. Mi chinai sul suo corpo eccitante e introdussi la mia lingua nella sua fregna gonfia e subissata da fluidi.
Dio mio! Quel sapore leggermente acidulo della sua giovane fica non lo dimenticherò mai.
Il mio cunnilingus venne favorito dall’apertura delle gambe della mia amata che mi permettevano ora di sprofondare comodamente e con facilità dentro di lei. Sprofondai più volte il naso tra le sue chiappe assaporandone l’odore rettale che misto al sapore del suo sudore corporeo mi elettrizzò smisuratamente. Gertrude gemeva come in poche altre occasioni aveva fatto, ammucchiai più saliva possibile e morbidamente con la lingua la distribuì in modo delicato e rilassante tutto intorno all’ano, fino al perineo. La sensazione la fece rilassare straordinariamente. Il suo piacere era gioia, continuai a lubrificarla fino a quando la saliva in eccesso cominciò a colare sul pavimento. Ingrassata a dovere le aprì con le dita le pieghette intorno lo sfintere anale e leccai avida l’epidermide. Con la punta della lingua continuavo a stuzzicarle l’ano. Quando la percepii rilassata e compiaciuta infilai l’indice dentro quel buchetto sacro, era caldo e stretto e l’ estensione ridotta mi spinse a profanarla con più invadenza. Quel piccolo supplizio le consentì di sprigionare dei piccoli gemiti misti a dolore e piacere che crebbero di intensità e si iniziarono a udire prorompenti nella sala. Quel pertugio ora era abbastanza dilatato da contenere completamente l’indice, ma la lussuria divenne presto irrefrenabile e per permettere una penetrazione più solida rivelai il mio dito procedendo a insozzarle l’interno dell’ano con ulteriore bava. Un enorme bolo di saliva la raggiunse e ripresi la perforazione con indice e medio che si ricongiunsero velocemente, stretti e uniti, in quella fessura questa volta solcandosi ad un ritmo più energico. Ero dissennata e percepivo la fica pulsare fluidi, unico scopo era quello di profanare fino in fondo il culetto di pesco della mia amata. La dolce pulzella rimase sulle prime infastidita, poi però iniziò a rilassare lo sfintere e quel dolore divenne piacere, avvertì il suo godimento intensificarsi e di conseguenza aumentai il mio carico. Mentre indice e medio la dissacravano, le mani dell’altra dita avvolgevano la sua orami acquitrinosa fica. La sentivo contrarsi e afferrarsi agli spigoli del mobilio per sostenersi meglio, mentre io nella privilegiata posizione mi crogiolavo nell’odore che fuoriusciva dal suo deretano e che si mescolava a quello ancora più amabile e dolce proveniente dalla suo bocciolo di rosa assediato. Gertrude venne con prepotenza e curandosi poco della misura cosa che in realtà accadde qualche istante dopo anche a me. L’orgasmo fu così impetuoso da richiedere di smorzare i miei vagiti tra le sue candide chiappe. Ma è risaputo che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ricordo che avevo ancora le dita dentro di me quando don Angelo, il prete del convento, entrò in cucina per avvisarmi che la messa nel pomeriggio sarebbe stata posticipata. Ovviamente non ci accorgemmo di nulla se non troppo tardi, infatti un urlo di disapprovazione ci annunciò la sua presenza lasciandoci di sasso. Appena ci riordinammo, paonazze in viso, ci rendemmo conto che la sala era affollata di consorelle accorse appena udito le grida del parroco. Fummo denunciate alla badessa, il resto è storia che vi ho già raccontato. Io fui portata in questo monastero, mentre della mia dolce e amata Gertrude attualmente ignoro la sorte.
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2022-09-02
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