Roberta va a farfalle - il primo servizietto

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genere
trans

Come se non fosse successo niente, riuscimmo a non parlarne per non so quanti giorni. E non è che non parlammo solo di questo, non parlammo proprio, perlomeno da soli: non posso dire che ci ignorammo reciprocamente, ma io considerai lui (e lui me) soltanto se stavamo in mezzo agli altri. E più passava il tempo e più questo silenzio mi pesava, ripensavo a quello che era successo con Giovanni, le farfalle si erano scatenate nel mio stomaco, brulicavano e mi solleticavano, mi inquietavano e mi opprimevano, avevo lasciato che mi toccasse e io avevo toccato lui. Vestiti, per carità, io mi vergognavo troppo, ma lui mi aveva scoperto il seno, mi aveva palpeggiato le tette nude, avevamo mimato l'amplesso, io dietro di lui e lui dietro di me...
Coinvolgente, sconvolgente, ero rimasta intrippatissima e terrorizzata: per qualche giorno - subito dopo - ebbi pure la diarrea, non potevo resistere oltre, dovevo parlargli, chiarire, ragionare con lui su quel che c'era da fare o non fare. Non volevo però che la cosa si sapesse in giro, che gli altri capissero, parlassero, mi sputtanassero. Decisi così di affrontarlo una volta che lui andò in gabinetto, chiesi permesso e lo seguii.
Entrai nei bagni con il cuore in gola, mi sembrò che fossero deserti, nel solito inconfondibile e insopportabile puzzo di tutti i cessi del mondo, misto a disinfettante di pessima qualità. Bussai alle porte chiuse ma dentro non c'era nessuno, tranne che nell'ultimo dei sei bagni alla turca, vidi i piedi al di sotto della porta e colpii lievemente la porta con le nocche, sinceramente rinfrancata dissi "Giovanni, sono io" con voce lieve, un tantino in falsetto, effeminata più del solito, tanta era l'emozione che provavo al solo pronunciare il suo nome. La porta si aprì, ma dentro non c'era Giovanni.
"Ciao Robertina, amore, come stai?".
Il cuore mi balzò in gola: era un altro compagno di classe, Giuseppe il ripetente, detto Superman non perché assomigliasse al ben noto personaggio ma perché di lui si favoleggiava di doti nascoste, doti che in quel preciso momento non stava affatto nascondendo, un uccellone nudo e bianco gli penzolava tra le gambe fino a oltre metà coscia. Aveva i pantaloni calati al ginocchio, pareva quasi che mi aspettasse. E poi mi aveva chiamata Robertina. Ce n'era abbastanza per pensare al tradimento di Giovanni e a un agguato organizzato, avvampai di vergogna per la mia stupidità, arretrai colpita e indignata e andai a sbattere su qualcuno che era alle mie spalle.
"Robertina - disse Antonio il Molosso, un tipo alto e robusto, quello con cui mi ero scontrata - e mica avrai paura di questo pisellone? Non ne hai mai visto uno?" e sghignazzarono insieme, come se si stessero divertendo molto. Io rimasi di ghiaccio, mi sentii in trappola ma riuscii a svicolare e a trovare l'uscita, corsi velocissima in classe, dovevo essere pallidissima e mi incazzai proprio nel vedere Giovanni seduto lì, al suo posto, tranquillo e sereno, soprattutto indifferente. Ero trafelata, nella mente oltre che nel fisico, sentivo di odiarlo, aprii il diario e trovai un biglietto.
"OGGI ALLE TRE E MEZZA A CASA MIA".

Ci sedemmo di fronte senza aprire bocca. Anche la sua scrivania, come la mia, non era matrimoniale e infatti ci scostammo dal piano del tavolo, piazzando le sedie una di fronte all'altra. Ero arrivata a casa sua più effeminata che mai nell'aspetto e con un'autentica tempesta dentro, anche perché temevo che mi avesse venduta a quei due maiali del gabinetto della scuola. Indossavo una polo chiara aderente di mia sorella piccola, il jeans unisex ma vistosamente femminile dell'altra, la maggiore, le Snickers e per darmi un ulteriore tocco di femminilità, oltre al toupe che mi raccoglieva i capelli dietro la nuca, mi ero passata un filo di lucidalabbra e messa una goccia di profumo di mamma. Lui indossava un jeans sdrucito, una t-shirt che era tipo quella di una squadra di calcio, le scarpe da tennis. Era, al solito, belloccio, l'aria vagamente da intellettuale scanzonato, bohemien, i capelli rossicci arruffati da Gianburrasca, quelli che mi avevano fatto perdere la testa per lui, forse. Si beò dello spettacolo della mia vera natura che gli mostrava il mio vero volto, quello di una bella ragazzina, assaporò il mio profumo, mise subito le cose in chiaro.
"Fino alle otto saremo da soli".
Mi spiazzò completamente: io mi ero preparata un discorsetto chiaro e simpatico, qualche premessa e poi dritto al sodo, era stato bello ma non si poteva né doveva fare altro, era un rapporto contronatura, bisognava fermarsi subito, non andare avanti e...
"Roberta, lasciamo stare le cose come erano prima dell'altro giorno". Parlò per primo, disse le stesse cose che avevo pensato di dire e che forse non avrei mai detto, non capii perché ma provai una delusione enorme.
"Tu sei carina, dolce - proseguì e mi regalò un sorriso - anche docile e disponibile, ma dobbiamo dimenticare quello che è successo".
"Ma in fondo che è successo? - mi sforzai di sorridere anch'io -. Non c'è stato niente, ci siamo solo...", proseguire mi imbarazzava. Lo fece lui.
"Ci siamo toccati, ma senza spogliarci. Cose che succedono".
"Certo, succedono", mentii. Il solo fatto che lui avesse rievocato ciò che c'era stato fra di noi mi aveva messa in subbuglio, dentro, le farfalle si erano di nuovo levate in volo, mi sembrava di averne milioni e milioni nel pancino. Lo guardavo con occhi sognanti, mi sentii una perfetta imbecille.
"Oggi - dissi abbassando lo sguardo - Superman mi ha aspettata in bagno. Nudo. E c'era pure il Molosso. Aveva tutta l'aria di un agguato". Alzai gli occhi per vedere la sua reazione: mi sembrò stranito, non complice, come avevo pensato.
"Che porco. Ed è... successo niente?".
Avrei voluto rispondergli sì, mi hanno chiusa in un cesso, uno me l'ha schiaffato in bocca, l'altro nel culo. Non lo feci.
"Ti interessa saperlo?".
"No, hai ragione - sorrise e stavolta gli occhi li abbassò lui - mica siamo...". Si interruppe. Completai io.
"Mica siamo... fidanzati, volevi dire? Ma certo che no...".
Istintivamente alzammo gli sguardi l'uno verso l'altra, non ebbi più paura e conficcai i miei occhi nei suoi.
"E mica tu ti puoi fidanzare con me", nel dirlo avvertii un altro scossone, dentro, il pistolino reagì, iniziò a indurirsi.
"Tu sei molto dolce - sussurrò a sorpresa lui - e sei carina, sei tanto femminile". Allungò una mano, con due dita mi sfiorò il viso con una carezza, poi scese rapido verso il seno, mi palpò, non reagii, mi palpò ancora, solleticò i capezzoli che si drizzarono sotto la maglietta, provai a scostargli la mano, continuò a toccare, lo lasciai fare, mi si avvicinò e mentre si alzava notai il gonfiore all'altezza del basso ventre: pure lui era già eccitato. Stando in piedi accanto a me usò una mano per accarezzarmi ancora il viso liscio e l'altra per le mammelle, mi sollevò un po' la polo e non riuscì a tirarla su più di tanto, dato che era aderente. Senza dire nulla mi staccai da lui e mi tolsi la maglietta da me, rimanendo seminuda. Non disse nulla, nel rivedermi le tette e i capezzoli, mi prese per mano e mi fece scivolare dalla sedia al suo letto, mi spinse lievemente all'indietro e mi fece gustare l'umidità e il calore della sua lingua prima su un capezzolo, poi sull'altro. Si attaccò alternativamente a tutti e due i miei bottoncini del piacere, sensibilissimi come quelli delle donne, li succhiò e mordicchiò leggermente, mi sbaciucchiò ogni angolo della pelle e della carne ansiosa di effusioni e carezze intime e lascive, sentii che stavo velocemente perdendo il controllo, come il suo ormone era ormai partito, inarrestabile.
"E meno male che dovevamo lasciare le cose come erano prima dell'altro giorno", borbottai sollevando un po' la testa per guardarlo in viso.
"Che c'entra? Questo stavamo per farlo, poi ci hanno interrotti... Oggi - lo ribadì - non ci disturberà nessuno".
Mi fece sentire pienamente donna, distesa sul suo letto alla francese, una piazza e mezza in cui stavamo comodi con lui accanto a me, intento a succhiarmi il seno e io in estasi, in trance ma pronta ad allungare la mano fino al suo coso, che sembrava volesse rompere gli argini di mutande e jeans. Glielo toccai con intenzione, ma con i vestiti addosso non poteva funzionare. Lui mi si accostò ancora di più, in modo da sentire meglio la mia manina morbida ma efficace e con la sua mano destra iniziò a esplorarmi fra pube e sedere, titillandomi il pisellino e spingendo con le dita attorno al buchetto.
"Spogliati...".
"No - risposi - non chiedermelo, mi vergogno. E poi ho paura".
Non condivise ma dopo un po' che armeggiava indovinò il profilo del mio cazzetto e iniziò a segarmi con dolcezza.
"Amore - era la prima volta che nella mia vita chiamavo qualcuno così - che stai facendo?".
Non rispose, continuò a farmi il lavoretto in contemporanea, tette, culo e pistolino, io fui invasa da un calore straordinario, iniziai ad ansimare: "Ma Giovanni, tesoro, così mi fai... venire" e prima di finire di dirlo ero venuta sul serio, sentii le mutandine che si allagavano di un liquido caldo, bollente, l'orgasmo fu rapido e intenso, il cuore mi batté forte forte, ero salita in paradiso e subito ripiombata in quella stanzetta, sul letto, dove rimasi immobile per almeno un paio di minuti, lui continuava a leccarmi il seno e io volevo sotterrarmi per la vergogna: mi aveva fatta godere, era stata la mia prima volta. Mi coprii il volto con le braccia, lui ne approfittò per darmi un colpo di lingua lungo lungo, dall'ombelico al collo, facendomi venire i brividi.
"Meno male che dovevamo finirla, lasciare perdere", dissi sempre col viso coperto, abbozzando un sorriso appena percettibile dalla bocca che faceva capolino da sotto le braccia.
"E' che sei irresistibile", sentenziò lui. Mi colpì, con quelle parole: tolsi le braccia dal volto, sollevai il busto e la testa.
"Anche tu", dissi con un filo di voce. Era l'espressione più erotica che potesse dedicarmi dopo quella straordinaria, inquietante ma gioiosa intimità. Non volevo banalizzare quel che era successo, era qualcosa di importante, di straordinario ma non era finita: lui fremeva. Si tolse la maglietta, rimase anche lui a torso nudo.
"Ora tocca a te darti da fare", disse determinato e mi si avvicinò, come se mi stesse offrendo il petto appena muscoloso, attraversato da una rada peluria trasversale. Non capivo cosa dovessi fare, pensai di fare la stessa cosa che mi aveva fatto lui. Ma lui si tolse anche le scarpe, facendole volare per terra. L'odore dei suoi piedi sudati si diffuse per la stanza. Lo trovai intimo, eccitante. Mi si accostò, gli presi in bocca il capezzolo più vicino, alzai gli occhi e vidi che aveva chiuso i suoi, gli passai una mano dietro la schiena, accarezzandolo, cominciai a baciargli il torace, la pancia, l'ombelico: non era solo erotismo, lo amavo proprio, anche se ammetterlo mi pareva strano.
"Mi piaci, cazzo!", dissi mentre lo riempivo di baci e lo leccavo dappertutto.
"Anche tu", rispose e lo vedevo armeggiare con la cintura. Stavolta non ne ebbi paura, infoiata com'ero e stretta a lui non mi resi conto dei suoi movimenti, delle sue contorsioni, gli succhiavo un capezzolo e subito correvo con la lingua sul suo collo, per riprendere il lavoro sul petto e lui tendeva i muscoli per resistere all'eccitazione e si muoveva, si muoveva come per liberarsi di un peso, fino a quando non avvertii un odore particolare e mi resi conto che era rimasto in mutande, mostrava uno slip rosso fuoco sotto il quale si stagliava un cazzo in erezione che mi sembrò enorme.
"Ma che fai?", protestai, non so se per finta o sul serio.
"Zitta, troia", e mi schiacciò la testa sul suo petto, spingendola più giù, fece pressione con la mano sulla mia nuca, mi costrinse a scendere sul ventre, incollai le labbra alla sua carne per cercare di frenare la mia ineluttabile discesa verso l'ombelico, punto di confluenza di una peluria rossastra che calava a strapiombo e affondava nelle sue mutande, scesi ancora più giù e l'odore si fece più intenso, acre, insostenibile, quell'odore che mi entrava nelle narici, mi arrivava al cervello, mi faceva perdere ancora di più il controllo.
"Giovanni, altro che finirla lì...".
"Succhiamelo", disse facendo scavalcare al suo cazzo l'elastico degli slip, me lo sentii sbattere sul viso, fu come un colpo di manganello su una guancia, poi sull'altra, istintivamente aprii le labbra e lo presi in bocca.
Sapeva di sale, un po' di urina e anche di sperma, la pre-eiaculazione gli aveva lasciato un sapore di uomo, di vero maschio che stava finendo di sottomettermi. Me lo sentii penetrare in profondità, dritto dritto fino in gola, ebbi un conato: scontavo l'inesperienza, non sapevo da dove cominciare. Lui lo capì, non penso fosse molto più esperto di me ma mi prese per il toupe e mi guidò nei movimenti, perlomeno nel ritmo, rallentandolo. Mi carezzò la testa, riuscì a trovare il pettinino che teneva i capelli raccolti, li sciolse.
"Devi sembrare una donna mentre mi fai il pompino - disse - da ora devi essere sempre donna, quando sei con me" e queste parole tornarono a eccitarmi, sebbene fossi appena venuta sentii che mi si stava indurendo di nuovo. Ero sottomessa, ciucciavo il suo cazzo con foga, leccavo la cappella nuda, violacea, lucida. Non so quanto durò, non moltissimo, lui era eccitatissimo e lo aveva veramente grosso, duro, nodoso, gli misi una mano tra i coglioni pelosi, li schiacciai leggermente nel palmo, spremendoli per sollecitare la sua eiaculazione.
"Troia, ci sai fare, troia! Sicuro che non hai già fatto qualche altro servizietto?" e nel dirlo accelerò i colpi, mi prese la testa con entrambe le mani, mi tirò i capelli fino a farmi male e poi cominciò a venire, fragorosamente, urlando e digrignando i denti, ululò mentre mi riempiva la bocca, la gola, l'esofago del suo piacere, il suo sperma dovetti ingoiarlo tutto per non soffocare, non mi disgustò, era il seme del ragazzo che amavo, il mio ragazzo, lo succhiai tutto fino all'ultima goccia e mentre lui sussultava dandomi gli ultimi colpi, mentre il suo cazzo si ammosciava fra le mie labbra mi accorsi di essere venuta di nuovo anche io, nelle mutandine ormai del tutto inservibili di quella mia prima scopata di bocca.



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2022-12-18
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