Roberta va a farfalle - la nostra prima pomiciata

di
genere
trans

Farfalle nello stomaco, turbamenti, macerazioni interiori: benché lottassi con tutte le mie forze per negarlo a me stesso prima che a lui, ero terribilmente cotta di Giovanni. Me ne ero innamorata senza un perché - succede sempre così - ed ero certa che lui se ne fosse accorto e che fosse percorso nell'intimo dalle stesse farfalle che svolazzavano e solleticavano il mio pancino e qualcosa più sotto, nelle parti intime, qualcosa che inebetiva la mia espressione quando mi sorprendevo a guardarlo con occhi mezzo sognanti e mezzo stracotti a puntino. E di fronte a lui mi sentivo sempre vulnerabile e fragile.
Ecco, fragile: era questa la condizione che mi avvicinava al genere a cui sentivo di appartenere già allora, avevo scoperto la mia innata femminilità grazie a lui, che mi emozionava, mi faceva piangere, quasi, di amore e di gioia, ma non ero capace di accettarmi, anche se mi piaceva immaginarmi con lui nell'intimità, il mio corpo acerbo era munito di un paio di tettine naturali, capita a molti maschietti, ma io avevo provato i vecchi reggiseni della minore delle mie sorelle, la prima misura mi stava bene, per la seconda mi stavo attrezzando e - sempre quando ero solissimo in casa - mi piaceva pure truccarmi, smaltarmi le unghie e girare con le scarpe col tacco, che pure torturavano i miei piedi troppo grandi per le misure femminili, cazzo ma come fanno a sopportare i tacchi, le donne. Significa che devono essere proprio motivate: su quei trampoli sei costretta a muovere il culo e ancheggiare nella maniera giusta serve, può servire. E poteva servire anche a me. Mi parlavo al femminile, "sono contenta, sono bella, sono bona": mi piaceva vedermi in quel modo, atteggiata, vestita da femminuccia, avevo provato una notte la morbidezza del baby-doll e non avevo chiuso occhio per l'eccitazione e per la paura adrenalinica di essere scoperta, mi piaceva pensare di poter sedurre facendo movimenti sinuosi col sedere, che poi ce l'avevo bello rotondo, il sedere. Pure quello.
E sullo sfondo c'era sempre lui, Giovi, il mio amore con il suo sorriso, i suoi occhi, i suoi capelli sempre arruffati, la sua pelle bianca e le sue braccia lunghe, i suoi occhiali, i colori da Gianburrasca, il leggero sfottò per i miei capelli lunghi tenuti insieme da un vezzoso cerchietto, per il mio corpo ricco di ambigue curve, effeminato, pieno nei punti giusti, si sarebbe detto se fossi stato una signorina a tutti gli effetti: culo, fianchi e "due belle minne", come le chiamava lui facendomi arrapare, specie quando nessuno poteva sentirci o vederci, a casa mia o a casa sua, dove facevamo la lotta finendo sempre con me spalle a terra e lui accovacciato sopra di me, a farmi assaporare il segreto e indicibile piacere della sottomissione.
Poi, quando ero da sola, rivivevo tutto con la fantasia e godevo immaginandomi nuda e a sua completa disposizione.

Fino a quando, un giorno, come era assolutamente inevitabile, non accadde quella cosina - che poi tanto cosina non fu - che cambiò tutto.
Non capivo cosa fossi per lui: forse solo un corpo, un piccolo seno, imitazione di quelli delle ragazze vere, ma comunque mi era chiaro come e quanto lo attizzassi. Fino a quel pomeriggio - cosa che avevo adorato - di tanto in tanto mi aveva solo massaggiato lievemente le poppe, accompagnando il movimento della mano con un mugolio che potevo sentire solo io, pizzicando in maniera deliziosa i capezzoli, che rispondevano subito presente, indurendosi e inturgidendosi in maniera visibilissima sotto le magliette bianche che disegnavano in maniera conturbante le mie rotondità. Fino ad allora lo avevo lasciato fare ma per poco, pochissimo, rispetto ai suoi e miei desideri, poi avevo sempre reagito, dandogli del frocio - ti piacciono i maschi, osavo dire io a lui - ma lui se ne fregava e con il suo solito sorrisino disarmante e malizioso stampato in viso continuava a turbarmi.
Quel pomeriggio invece non reagii.
Avevo una scrivania da single, non matrimoniale, e quando lui, col solito gemito in sottofondo, cominciò a palpeggiarmi, non solo non mossi un muscolo per fermarlo ma anzi, dopo un paio di minuti abbondanti di liberi toccamenti delle mie piccole ma sode mammelle, trovai il modo per buttarmi letteralmente addosso a lui, fingendo di dover prendere una gomma che si era incagliata in fondo a un bicchiere pieno di penne e matite, che stava dal suo lato del tavolo: per farlo dovetti sollevare il culo dalla sedia e fu come se lo avessi invitato a nozze, perché lui immediatamente ne approfittò per piazzare una mano fra i miei glutei torniti. Con la mano destra continuò a massaggiarmi dolcemente le tette, con la sinistra iniziò a esplorarmi - senza una minima opposizione da parte mia - il solco formato dalle chiappe, ci infilò tutta la mano, spinse con le dita, mi sollecitò il buchino.
Avvertii una sensazione di piacevole benessere, come se il mondo volesse fermarsi attorno a me, il tempo non scorreva più invano, fra intrippamenti e resistenze stupide quanto inutili. Mi piaceva e non dovevo più torturarmi né giustificarmi, mi piaceva e basta, mentre stavo sempre lì, buttata addosso a lui, a scavare nel bicchiere: con la gomma che, per fortuna, rimaneva sempre prigioniera delle matite e delle penne sul fondo, lui mi pomiciava senza ostacoli e senza freni, il suo gemito si era fatto una cantilena a bocca chiusa, sempre più vicina al mio lobo, con la coda dell'occhio vidi un gonfiore smisurato che si era prodotto sul suo pube e fu in quell'istante, come se mi avesse letto dentro, che mi prese il polso destro, lo distolse dalla affannosa (e falsa) ricerca della gomma nel bicchiere e mi portò la mano sul suo coso. Io resistetti giusto per figura, ancora una volta falsamente, poi posai la palma aperta su quel cazzone trattenuto a stento da mutande e pantaloni. Strinsi leggermente, ne saggiai la consistenza, ne indovinai il contorno e mossi lievemente le dita.
"Così, così", sussurrò lui ansimando e mi resi conto che erano le prime parole che uno di noi due stava dicendo dopo perlomeno una decina di minuti in cui si erano sentiti solo i nostri respiri caldi e sempre più affannati e il ticchettio di un orologio elettrico da muro. Avevo smesso di cercare nel bicchiere, adesso gli stavo palpando quel cazzo enorme, non volevo più nascondermi, sentii la sua mano sinistra risalire sotto il mio cavallo, cercarmi il pistolino, ma in quella posizione eravamo terribilmente scomodi e allora gli feci una proposta che ancor oggi non so quanto coraggio o incoscienza mi ci volle per fare.
"Vieni", dissi sempre tenendolo per il cazzo ma staccandomi un poco da lui e poi prendendolo per mano.
Lo portai in un angolo della mia stanza, tra il muro e un divanetto, un punto strettissimo dove si poteva stare solo in piedi, anche in due, ma a condizione che si stesse proprio appiccicati.
"Mettiti qua", e lo feci sistemare davanti a me, che subito dopo mi incollai alla sua schiena, a fargli qualcosa di importante e coinvolgente, appoggiandogli il mio modesto gonfiore fra le natiche. Con tutte e due le mani gli presi di nuovo il pacco e glielo toccai con passione, dolcezza e dedizione. Gli tastai anche i coglioni, pure quelli mi sembrarono enormi e glieli palpai con tanta foga che lo lasciai quasi senza fiato: la cosa non gli dispiaceva affatto, ma non continuai a lungo. Avevo un altro tipo di voglia, troiesca e incontenibile.
"Ora tu a me", dissi dopo quel tempo nemmeno percettibile, calcolabile, e gli chiesi il cambio, piazzandomi davanti a lui e invitandolo a sua volta a incollarsi a me, a essere un tutt'uno con la mia schiena, soprattutto col mio fondoschiena.
Giovanni non credeva quasi a ciò che stava accadendo: gli stavo offrendo il mio corpo e la porta d'ingresso, il mio culetto, sebbene fasciata dai vestiti, era a sua completa disposizione. Si piazzò dietro di me con fare professionale, mi fece divaricare le gambe, piegare un po' la schiena in avanti, mi si accostò delicatamente prendendomi per i fianchi.
"Oh!", sobbalzai non appena sentii la prima spinta che arrivava dal suo basso ventre al mio sedere: aveva un cazzo di marmo, durissimo, ed ero io ad averlo eccitato in quel modo. Mi sentii importante per lui, era la prima volta che mi capitava di esserlo per qualcuno: ne ero orgogliosa. Al tempo stesso avvertivo una strisciante e inquietante preoccupazione: non stavamo correndo un po' troppo?
"Ah!", esclamai sentendo una serie di colpi regolari e ben calibrati, lo strofinamento del suo membro sotto il mio cavallo, all'altezza del buchino. All'inizio mi aveva tenuta per i fianchi, dettandomi il ritmo per farmi partecipare a quella sorta di amplesso mimato; poi, quando avevo preso a muovermi all'unisono con lui, da sola e senza essere guidata, una mano - la sinistra, credo - l'aveva portata sul mio pube, trovandoci qualcosa di piccolo ma duro, durissimo. L'altra mano, dopo qualche secondo di esitazione, me l'aveva piazzata sul seno.
"Cazzo", mi scappò di dire.
"Cazzo, sì, il cazzo ti piace proprio", rispose lui, che si era accostato al mio orecchio destro, facendomi sentire il suo fiato bollente. "Roberta, Robertina, troiettina", aggiunse intensificando il ritmo dei colpi. Sorrisi: era la prima volta che qualcuno mi chiamava come volevo che tutti mi chiamassero, Roberta e non Roberto. Non risposi ma continuai a sculettare seguendo il suo ritmo, mentre la sua mano destra aveva ripreso a massaggiarmi le tette, a stimolare i capezzoli, a farmeli ingrossare e inturgidire che pareva dovessero scoppiare. Anch'io iniziai ad ansimare, la situazione mi eccitava da impazzire. Lui lo capì, pareva che mi leggesse nel pensiero, che l'algoritmo del suo cazzo intercettasse all'istante l'algoritmo del mio culo, staccò la sinistra dal mio pube e mi palpeggiò i seni con le due mani contemporaneamente.
"Hai le tette come quelle delle ragazze - mi sussurrò all'orecchio - sei una bella femminuccia, Robertina troiettina". Nemmeno stavolta risposi, mi sentivo finalmente libera, in quel corpo a corpo mi piaceva la mia posizione sottomessa e quando cercò di spogliarmi non ebbi il tempo di rendermene conto, mi sollevò la maglietta e ci mise le mani sotto, tutt'e due insieme, il contatto tra le sue dita calde e i miei capezzoli nudi mi provocò una scossa, lui riprese a mugolare, mi insultò, "ma sei proprio una troia, piccola puttana, finocchio", ma io non reagivo, non facevo nulla, ero rapita, in estasi, lui aveva aumentato ancora di più il ritmo dei colpi, mi faceva sobbalzare a ogni botta come se mi sollevasse da terra, "sei un frocetto, una mignotta", continuava convinto, finché non si fermò, staccandosi da me.
Ci rimasi male, quasi, non capii il motivo ma nel girarmi in quella posizione da contorsionisti, avvitata e praticamente impossibile da reggere, vidi che stava cercando di mettersi in una posizione da cui potesse baciarmi il seno e che armeggiava pure goffamente con la cintura per spogliarsi. Fu come se mi avessero svegliato da una lunga passeggiata da sonnambula, ebbi un attimo di sbandamento, pensai che mi vergognavo troppo di farmi succhiare i capezzoli e anche di vederlo nudo e - probabilmente - di dovermi mostrare a mia volta nuda nelle parti più intime, che talvolta nascondevo pure a me stessa, perché sentivo come non mi appartenessero per niente, volevo la fica e invece fra le gambe avevo un cazzetto.
"No, no!", dissi.
"Sì, cazzo, sì!", insisté lui.
"No, ti prego no... questo no, non adesso...".
"Ma sei matta, stiamo limonando da un'ora, fatti succhiare questi bei capezzoloni, dai...".
Un'ora, cazzo, era vero, eravamo in intimità da un'ora, era tardi e...
Giusto in quel momento sentimmo che era rincasato qualcuno, istintivamente ci staccammo e ci precipitammo a sederci al tavolo, accaldati e respirando intensamente, come se avessimo fatto una corsa veloce, cosa che in un certo senso quel pomeriggio avevamo fatto sul serio. Forse troppo veloce, a perdifiato, da perdere il senno, il controllo. Per la paura di essere sgamati non staccammo gli occhi dai libri, rispondemmo al saluto di mia madre che aveva fatto capolino con la testa sulla soglia della stanza, tirammo un sospiro di sollievo per averla fatta franca e poi ci guardammo negli occhi, un istante o qualcosa di più, interrogandoci a vicenda su cosa avessimo fatto, su cosa avremmo ancora potuto fare se non fossimo stati interrotti, su cosa sarebbe accaduto fra di noi, lui mi sfiorò la mano con la sua, ancora eccitato e non sazio come non ero sazia io, mi sorrise, mi sussurrò un "brava Robertina" e fu in quel momento che dentro di me gli giurai eterno amore.
di
scritto il
2022-12-17
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