Grand Hotel ER Cap. 14 | Quelli cavi

di
genere
etero

Autore: MissFortune

Non è così difficile.
Non più, dopo quasi quarant'anni di pratica.

Le maschere che indosso hanno funzione diversa da quelle che indosseranno questa notte gli altri.
Le loro servono ad attirare, le mie a non far allontanare.
Le loro nascondono il volto, le mie il vuoto.

Le indosso tutte, una dopo l'altra, osservando con un certo compiacimento il mio riflesso fare lo stesso, dall'altro lato della specchio.
Il sorriso di cortesia, quello spontaneo, lo stupore e la rabbia, gioia e disgusto, le labbra appena schiuse per mostrare desiderio,
Anche gli occhi, dopo tutti questi anni, non tradiscono quasi più la messinscena.
Certo, probabilmente un osservatore attento potrebbe notare le sbavature, il fatto qualcosa sia fuori posto, ma la realtà dei fatti è che la maggior parte delle persone non vogliono vedere.
Glielo insegnano fin da piccoli.
I mostri basta non guardarli.

E a noi sta bene così.


L'abito bianco, estivo e leggero, è stata una sua idea. Ballerine nere ai piedi e sono pronta.
Sembro una di loro, in tutto e per tutto.
Una turista o una delle comparse per quello che si terrà questa notte.
Le chiamano convention.
Le chiamano feste private.
Per noi, sono Sabba.


Esco dalla stanza e attraverso il corridoio. Ignoro i gemiti, i mugolii e le urla di chi nelle stanze sta celebrando la vita nell'unico modo che conosce, che concepisce.
Dovrei provare invidia. Conosco quello sentono, so dargli un nome e la definizione.
Non lo provo, ma è giusto così.

Le porte dell'ascensore si chiudono e inizia la salita verso la terrazza.
Un'ultima ascesa, prima della discesa che mi attende.
È un prezzo che sono disposta, che devo pagare.
Cercando di colmare il vuoto che ho sempre avuto dentro, ho prelevato a destra e a manca dall'altra parte. Sapevo che, prima o poi, il conto sarebbe arrivato, che mi avrebbe raggiunta.


In questi giorni ho tenuto d'occhio gli ospiti che hanno frequentato il ristorante e il bar.
Coppie, ufficiali o meno, qualche single. Tutti convinti di essere accomunati dalla passione, dal desiderio di essere felici, di essere liberi lontani da occhi indiscreti.
Non è quello, ciò che li accomuna tutti.
Non è quello, ciò che hanno provato tutti la prima volta che l'aria gli ha riempito i polmoni.
No.
È la paura.
E se lo sono dimenticato.


Quando si aprono le porte, ancora prima del vociare dei pochi che non son chiusi in camera o nella spa, mi accoglie la luce del tardo pomeriggio .
Niente spicchi di mela e acqua naturale oggi, non c'è tempo.
Percorro il tratto che mi separa dalla postazione occupata dall'uomo al quale tutti si rivolgono, l'evidente capobranco qua. Ignoro la ghiaia sotto la suola delle ballerine, il giardino Zen e la ballerina di colore.
Nulla di tutto questo ha l'odore che mi ha attirata, fin dalla prima volta che sono venuta quassù.
Mi è costato non poca fatica impedirmi di mettermi a fiutare l'aria, all'inizio.
È tenue, sta sfumando ma è ancora lì.
I casi sono due: o non lo fa più da tanto tempo, o non si è mai spinto al largo.
L'occhiata che mi rivolge, quando arrivo al bancone, sembra darmi conferma di quello che ho notato nei giorni scorsi.
Sono solo l'ennesima cliente con l'ennesima richiesta particolare.


-..con i semi disposti ordinatamente all'angolo destro.


È ammirevole, a modo suo, il tentativo di anticipare la clientela, mostrarle che ci si ricorda di loro, di quello che sono soliti ordinare dai suoi barman.
Come ci è finito qua?
Non gli rispondo, non subito.


Il luccichio della targhetta appuntata sulla camicia attira il mio sguardo mentre prendo posto sullo sgabello e, dopo aver sistemato l'abito, poso entrambe le mani sul bancone.
Nome strano Hermann. Mi piace. Facile da ricordare.
Ho notato che le persone, di fronte ad una menomazione, una deformità anche se piccola, tendono a trovarsi in difficoltà e nel tentativo di non mostrarsi sulla difensiva, esagerano sul versante opposto.
E così tamburello con tutte e otto le dita, una dopo l'altra, iniziando a parlare solo quando avrei dovuto toccare con l'anulare e il mignolo sinistro, non pervenuti, il legno del ripiano.


-Hai sempre pagato, per tutto quello che hai portato da questo lato?


Gli parlo usando quello che ho imparato essere il tono che usano gli sconosciuti quando vogliono mostrarsi cordiali. Lo osservo forse più a lungo del dovuto perché la cortesia, la professionalità lasciano spazio ad un accenno d'insofferenza sul suo volto.


-onironauta.


È quando aggiungo quell'ultima parola alla domanda, che ho la conferma.
Si blocca come gli animali quando, nel buio della notte, gli si punta contro una luce improvvisa.
È rapido nel riprendersi, questo devo concederglielo.
Si guarda attorno non in cerca di aiuto, ma di tempo.
E di quello non ne abbiamo ancora tanto.
Abbastanza, ma non tanto.
Sette ore, a giudicare dalla posizione del sole.


-Sempre fatto, anche perché con quelle cose è impossibile non pagare.


Parla piano, quasi tra se e se, al punto che devo sporgermi in avanti fino a posarmi con il petto al bancone per poterlo sentire bene.
Non mi osserva.
È una reazione particolare, la sua.
Vuol salvare capra e cavoli, Kobayashi Maru e trattato di pace.
Potrei rivolgergli un sorriso o dire qualcosa per tranquillizzarlo ma, quando si decide a riportare lo sguardo sul mio, preferisco ripagare la sua onestà non indossando alcuna maschera, sia nell'espressione che nel parlare.


-È impossibile non pagare, si. Andrai questa sera? Moneta di scambio, tanta. Agnelli e lupi, maiali e corvi. Topi e blatte. Tutti assieme, tutto assieme.


Non mi risponde. Non con le parole.
Afferro con le tre dita della mano sinistra lo spicchio di mela che mi porge e, senza neppure pensarci né cambiare posizione lo porto alla bocca.
Probabilmente ai suoi occhi non devo apparire diversa dai corvi che ho nominato.
Pazienza. Non sarebbe sbagliato, in ogni caso. Non più di tanto.
Deglutisco fissandolo, scendo dallo sgabello e, dopo aver sistemato l'abito, gli rivolgo un rapido cenno della mano destra.
Ci sarà anche lui.


Ripercorrendo il tragitto che porta all'ascensore, noto le occhiate che mi lancia la ballerina. Non le piaccio.
Quella vede, quella sente.
Accolgo la liberazione da quelle occhiate che mi viene offerta dalla chiusura delle porte alle mie spalle.

Se durante la salita la permanenza nell'ascensore mi è sembrata tutto sommato breve, la discesa sembra durare un'eternità.
Solo quando rientro nella camera il tempo sembra riprendere a scorrere normalmente.

La lancetta corta dell'orologio posto sul comodino è poco sotto il nove, la smilza sull'undici.
Mi metto a sedere sul letto e riprendo a fare quello che so fare meglio.
Aspetto.

È quello che facevo, quando l'ho incontrato la prima volta.
Sedevo su una panchina e osservavo le persone che si apprestavano a rientrare a casa, al calare del sole.
Aspettavo passasse qualcosa, qualcuno e mi notasse, avvicinandosi.
L'ho percepito subito come simile.
E lui deve aver fatto lo stesso perché si è avvicinato senza mostrare nulla se non curiosità.
Mi ha chiesto se non avessi paura a star da sola in un parco la sera e ha riso quando gli ho risposto che se non fossi stata sola non si sarebbe fermato nessuno.

Abbiamo viaggiato stando soli assieme, negli ultimi mesi.
E da soli andavamo a fare i nostri lavori, come è solito chiamarli. Senza farci domande, senza sentire il bisogno di doverci fornire spiegazioni.
La decisione di arrivare in due momenti separati è stata sua ed io, sentendo ancora il suo sapore in bocca, ho acconsentito.
È stata l'unica volta in cui abbiamo consumato un rapporto sessuale, malgrado abbia sempre percepito una certa tensione, da parte sua.
È stata l'unica volta in cui gli ho visto abbassare completamente la maschera, mettere via l'abito da essere umano.
Non abbiamo parlato per tutto l'atto e, con ogni probabilità, non eravamo in grado di farlo.
Gli sguardi, i morsi e i graffi hanno parlato per noi.
Vederlo struggersi per controllarsi e non premere troppo con i pollici sulla mia gola quando ho avuto le sue mani sul collo, il suo peso su di me, mi ha fatta sentire viva.
Ho provato piacere come non capitava da tanto tempo e, negli istanti in cui tutto è stato cancellato dall'orgasmo mi sono sentita a casa.
E, ne sono certa, anche lui deve aver provato qualcosa di simile quando, in piedi di fronte a me, ha reclinato il capo all'indietro, le mani ben salde sul mio.


I tre tocchi alla porta, seguiti da altri due in rapida successione mi riportano nella stanza d'albergo.
È lui, e tutto è pronto.

Questa notte si torna a casa.

Prossimo autore: Hermann Morr

Per info, critiche, suggerimenti ed iscrizioni: brigata_er@libero.it
scritto il
2023-08-16
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