A dull girl - 1

di
genere
etero

1)

“Ti ho detto che ti amavo! Ti ho detto che volevo essere tua!! E questi sono i risultati? Ho buttato nel cesso un matrimonio per cosa? Per essere la tua puttana a comando?” Visti da fuori siamo due adulti che litigano. Uno più maturo dell’altra. Una più isterica dell’altro. Entrambi eleganti. Un uomo di quasi un metro e novanta, dalle spalle larghe, con il corpo asciutto e atletico e con lo sguardo basso a fissarsi le scarpe che giocano distrattamente con dei mozziconi di sigaretta. Una donna, più giovane, venti centimetri più bassa, che nella concitazione dello sfogo continua a togliersi dal volto i capelli castani che il vento le fa mulinare davanti agli occhi.
Visti da fuori. E infatti invidio gli occhi di quella bambina che combattendo le braccia della madre prova a non perdersi nulla della scena a cui sta assistendo. Magari pensando a quanto siamo buffi noi adulti. Già, buffi. Ma la verità è che dentro di me ti odio. Dal cuore. E odio anche me stessa per averti fatto entrare nella mia vita.

“Tu sei Sofia, giusto? Io sono Carlo, piacere!” Alzo lo sguardo dal computer. Leggermente brizzolato, barba curata, alto, atletico, elegante, uno zainetto bordeaux in spalla che ti sfili mentre mi porgi la mano, presentandoti: ecco la prima immagine che ho di te. Un bell’uomo, probabilmente di una ventina d’anni più grande di me. Che pare conoscermi ma di cui non ho alcuna memoria. Ho lo sguardo dubbioso mentre rispondo al saluto e titubante mi alzo. Cogli i miei dubbi e mi sorridi. “Deduco che non ti abbiano avvertito. Sono il nuovo collega che arriva da Roma. Cioè…nuovo si fa per dire, visto che sono in azienda da vent’anni. Ma in sede non ho mai lavorato e mi hanno detto di cercarti per capire dove mi abbiano sistemato.” Ancora quel sorriso. Magnetico. E poi quello sguardo. Due occhi verdi che puntano dritti nei miei. Finalmente ti stringo la mano che avevi lasciato aperta davanti a te, in attesa. Non so perché, ma, mentre dico il mio timido “Piacere”, la prima cosa a cui riesco a pensare è l’ultimo anno di liceo. Pensiero che non trattengo. “Io vent’anni fa studiavo filosofia per la maturità. Quindi...” “...e quindi mi stai dicendo che sono vecchio. Cominciamo benissimo!” Arrossisco e vorrei seppellirmi. “No no no no!! È che…è che…è…ecco, volevo dire che anch’io vent’anni fa non avrei mai pensato che sarei stata qui.” “Si si. Certamente! La verità è che ora non sai come uscirne e quindi ti toccherà offrirmi il caffè alla prossima pausa.” Dentro di me penso che dovresti smetterla di sorridere così. Dentro di me penso che se cominci così da subito chissà cosa mi aspetta quando entrerai in confidenza. E anche questa volta non tengo per me il pensiero. “Certo che se inizi così, non oso immaginare quando ti sarai ambientato!” “Scherzo, dai! Già il lavoro è quello che è!! Ogni tanto tocca distrarsi e giocare un po’...” “All work and no play…”, sussurro. Ma lo cogli. E mi stupisci. “...makes Sofia a dull girl? Speriamo di no…” Mentre ti guardo stupita per la citazione raccolta, mi accorgo che ancora ho la mano nella tua. La ritraggo, quasi colpevolmente, mentre tu continui. “Comunque scusami, non volevo sembrare eccessivo.” “Nessun problema, tranquillo. Probabilmente anch’io non ho iniziato benissimo. Ma mi hai preso alla sprovvista. Anche se ora capisco tutto il traffico nell’ufficio qui davanti. Quindi, ricominciamo. Ciao Carlo! Benvenuto a Torino! Quello è il tuo nuovo ufficio.” E indico la porta davanti la mia scrivania, dietro di te. Ti faccio segno di seguirmi ed insieme ci entriamo. “Perfetto. Vedo che tutte le scatole che ho fatto trasferire sono arrivate.” Faccio girare uno sguardo dubbioso per la stanza: a parte la scrivania, due sedie e uno schedario sotto la finestra, l’ufficio è vuoto. “Ti piace viaggiare leggero allora.” Sorridi. Facciamo due passi per avvicinarci alla scrivania e prendi un tubo di cartone che si trova lì vicino e che a prima vista non avevo notato. Ne tiri fuori un poster che apri sul piano del tavolo: Bogart e Bergman in primo piano e la scritta Casablanca in corsivo rosso su sfondo bianco. Faccio un sospiro di ammirazione e di stupore. “Non riesco a separarmene. Vestiti a parte, è l’unica cosa che ho portato via da casa.” Hai lo sguardo che si perde nel manifesto, di cui sembri fissare ogni dettaglio come se fosse la prima volta che lo vedi, anche se sicuramente non è così. Ti volti verso di me. Mi fissi. Giurerei di vedere gli occhi lucidi dall’emozione. Poi torni a guardare il poster e inizi a riavvolgerlo per rimetterlo nuovamente nel tubo. “Quindi sei venuto in città per la salute? Le sue meravigliose acque le trovi alla macchinetta al piano terra.” “Almeno qui non è deserto…”

Sono passati un paio di mesi da quel giorno. Sul muro a destra della sua scrivania a Casablanca si è aggiunto Vertigo, mentre sulla mia, alla foto del mio matrimonio, si è aggiunta una pagina dattiloscritta da Jack Torrance. Pochi giorni dopo il tuo arrivo, ad inizio maggio, hai sentito alcune colleghe farmi gli auguri e mi hai fatto quel regalo. Risultato: lo sguardo invidioso delle colleghe, lo sguardo imbarazzato mio. Ma la verità è fin troppo semplice: dopo solo una settimana di lavoro insieme, per me è stata attrazione. Folle dico io. Malata direbbe qualcun altro, visti i tuoi cinquantacinque anni da compiere a novembre e i miei trentotto appena compiuti. Mi hai circondata di attenzioni che nessuno in quel momento mi stava dando. Né a lavoro, dove ero una delle tante impiegate della sede centrale. Né a casa, dove la quotidianità e la routine avevano, e hanno, ormai mangiato ogni brivido nel mio matrimonio. Attenzioni. Piccoli gesti. Parole. Sussurri. Passioni. E io ci sono cascata. Ho voluto cascarci. In fondo al sorriso che non perdi mai. In fondo alla sicurezza nelle cose che fai o dici. Durante la prima riunione mi hai voluto vicino. “Ti prego, siediti qui dietro di me. Almeno ho vicino qualcuno che conosco.” Ricordo di aver sorriso, fra l’imbarazzato e il felice. “Dimmi la verità: non ricordi i nomi e te li devo suggerire da dietro?” Mi hai risposto con l’ennesimo sorriso, mentre spostavi la sedia per farmi sedere. Non avevi bisogno di me. Lo sapevo. Non m'importava. “O è uno stronzo o l’ex moglie doveva essere peggio di lui.” Mi giro verso Claudia, la mia vicina di scrivania nel quotidiano e che ora si era seduta alla mia destra. Mi ha sussurrato quella frase appena seduta. “Scusami?” “Bello com’è, ci stiamo chiedendo tutte come faccia ad essere solo. L’unica cosa certa è che a Roma ha divorziato e poi ha chiesto subito il trasferimento qui.” Mi rigiro per guardarti. Ormai di spalle, vedo come giri la testa a destra e sinistra per parlare con chi ti è vicino, facendoli ridere. E ancora un altro sussurro da Claudia. “Oppure aveva già pronta la sostituta qui in città.” Una battuta? Un’allusione? Alzo le spalle. Dico che non so altro e nemmeno mi interessa. Mentivo. Lo avrei scoperto poco tempo dopo.

2)

Sono a casa. Un'inutile programma in TV come sottofondo ad una litigata ormai all’ordine del giorno. Sbuffo e decido che tanto è inutile cercare di convincere mio marito. “Ok Paolo. Va bene. Ora devo andare a cambiarmi, altrimenti faccio tardi allla cena.” Piuttosto che stare a casa con Paolo, mi faccio andare bene anche la cena per festeggiare il trimestre appena finito. "Peccato che…” Il pensiero arriva, fugge via, ritorna. È ormai tarlo in me. E ha i tuoi lineamenti e il tono della tua voce. E si insinua nei momenti più inattesi, come in quelli più voluti. Chiudo gli occhi. Rivedo il tuo abbracciarmi che diventa virile possesso. Rivedo la tua mano stringermi la spalla per un normale richiamo diventare un catturarmi per un bacio colmo di passione. Rivedo le tue labbra muoversi e dire frasi lavorative diventare esortazioni alla seduzione e al piacere. Soprattutto rivedo i tuoi occhi e il tuo volto confondersi con quelli di mio marito quando stanotte abbiamo fatto l’amore. Diventavi tu. A possedermi. A scoparmi. A farmi tua. A farmi finalmente godere come da mesi non mi capitava. Il vibrare del telefono sul letto mi riporta alla realtà. Leggo il tuo nome. Rispondo. “Carlo. Dimmi. Successo qualcosa?” “Nulla. Nulla. Volevo solo chiederti se avessi bisogno di un passaggio per il ristorante.” “Per la cena di stasera? Ma ci sei anche tu? Non dovevi tornare a Roma?” “Si, dovevo. Cambio di programma. Quindi? Passo?” Non rispondo subito. Guardo lo specchio davanti a me: una giovane donna attratta dal suo superiore che vorrebbe dire “Si, ti prego!!” ma che sta cercando un modo elegante per decidere. Senza trovarlo. Lo fai tu. “Ok, decido io. Alle 20 alla fermata della metro dietro casa tua. A dopo.” “O…ok.” Sono frastornata. Mi pulsano le tempie. Sento un leggero affanno. E mi scopro eccitata.

“Perchè non metti mai gonne?” Siamo in auto, diretti verso la collina. Sul lungo corso iniziano ad accendersi le prime illuminazioni, ma il crepuscolo ancora non è sceso del tutto. In alto, davanti a noi, la sagoma bellissima di Superga. La stavo guardando, leggermente sovrappensiero, mentre mi fai quella domanda. Mi volto verso di te. “Sc…scusa?” “Chiedevo perché non mettessi mai una gonna. Sempre in pantaloni, casual o eleganti, come stasera.” “Beh…non lo so…comodità direi, nulla di più…” “Peccato…” “Peccato?” “Si, peccato. Ora non prendermi per maniaco, ma io trovo volgare più di metà delle tue colleghe che mostrano fin troppo. E aggiungo che quasi nessuna di loro se lo potrebbe nemmeno permettere, ma non voglio giudicare i gusti altrui. Ma tu…tu sei sempre così misurata, quasi pudica. Hai un bellissimo fisico. Si vede benissimo. Lo lasci intuire, ma non lo mostri.” “Ti…ti ringrazio, Carlo. Come ringrazio madre natura per alcune cose…” e ridendo indico la mia terza di seno “...e come ringrazio le sveglie all’alba per andare a correre per altre cose…” e mi do una leggera pacca al fianco. “Il seno è sopravvalutato. Cioè…non dico che non sia importante o affascinante. E il tuo lo è decisamente!” Ridi. Rido. Arrossisco. “Ma le gambe…Sofia…le gambe…quelle si che sono fonte di piacere, attrazione ed erotismo…” Inconsciamente inizio ad accarezzarmele, mentre mi metto più comoda per guardarti meglio e cercare di capire dove tu voglia andare a finire con quel discorso. “Ecco, vedi. Tu ora stai facendo scorrere le tue mani sulla stoffa. Ed io…” Mi fermo e tolgo la mano. “No, Sofia, non era una critica. Anzi…era…era per dire che dietro quel tuo semplice movimento, probabilmente quasi istintivo e non ricercato, io potrei fare pensieri misti di sensualità e desiderio, pensieri infinitamente dolci quanto magari anche più spinti. Pensieri, aggiungo, che il vedere un seno, per quanto magari bello ed eccitante, probabilmente non mi verrebbe da fare. O che mi verrebbe da fare con molta più…trivialità, diciamo così…” Muta. Tesa come una corda di violino. Guardo fuori dal finestrino scorrere le piante lungo la carreggiata. Accavallo le gambe e riprendo a far scorrere le dita lungo la coscia. Il pantalone risale leggermente, mostrando la caviglia. “Ti ho lasciata senza parole? Non volevo metterti in difficoltà o in imbarazzo. Era così per parlare…” Mi giro verso di te. “Quindi stasera ti sarebbe piaciuto se avessi avuto la gonna?” “Certamente!” “E ora…è così dura accontentarsi solo di caviglia ed uno spicchio di polpaccio, caro il mio Al Pacino?” Voglio che sia tu a cogliere la citazione. Voglio che anche questa volta mi sorprenda. Voglio che capisca cosa sto vivendo ora dentro di me. “Soffrirò in silenzio…sognando il Paradiso…”

La villa dove hanno deciso di fare questa cena è lungo le prime rampe che salgono dal lungo Po. Una cancellata coperta da rampicanti e alberi, che in parte invadono la carreggiata, e poi una piccola rampa a scendere per entrare nel parco antistante l’entrata. Mentre entrambi diciamo “Dovrebbe essere qui…” la vediamo sfilare alla nostra destra. “Cazzo…mettere un'insegna sembrava troppo furbo?” Imprechi mentre continuando a salire cerchi uno slargo dove fare inversione. Dietro di noi mi è sembrato di sentire un clacson suonare. Pochi secondi e mi arriva un messaggio sul telefono. È Claudia. “Certo che se volevate imboscarvi potevate almeno aspettare il dopo cena.” Non trattengo l’insulto e mi chiedi cosa sia successo. Rispondo genericamente che si trattava di un messaggio di Claudia. “Ti sta chiedendo dove stiamo andando?” “Ma tu come fai a…” “A sapere che ci ha visti? L’abbiamo incrociata all’ultimo semaforo e da allora è sempre stata dietro di noi. Era lei a suonare il clacson prima.” Penso che questa cosa sarà il colpo di grazia alle frasi e alle allusioni che già da settimane mi rivolge. E quasi sicuramente ne sta già parlando con le tre o quattro amiche pettegole con cui di solito fa comunella. “Ecco uno slargo.” Accosti. Fai manovra, ma prima di ripartire mi guardi. Mi appoggi una mano sulla gamba. “Fregatene Sofia. Fregatene di Claudia e delle voci che mette in giro. È quel tipo di persona che vive solo di questo. E non vede l’ora di dire qualche malignità in giro. Pensa che io sia uno stronzo perchè non le do confidenza, quando semplicemente è perchè è una persona piccola e insignificante. Ma tu fregatene.” “Francamente me ne infischio?” “Esatto. Questo è lo spirito giusto. Ora andiamo.” Stai per rigirarti verso la strada quando metto la mia mano sulla tua. Ti fermi. Occhi negli occhi. E succede.
scritto il
2024-05-26
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