Vacanze Istriane - di Joe Cabot 19: epilogo

di
genere
incesti

NELLE PUNTATE PRECEDENTI, Jacopo e Lia, con la sorella di lei Rachele, ed il suo ragazzo Bruno, sono in vanzanca in un albergo sulla costa istriana. Fanno amicizia con il direttore dell'albergo, il signor Laban e la sua giovane protetta, Mila, e questi li coinvolgono nei loro giochi erotici. Una sera i quattro vengono invitati ad una particolare festa in maschera...


Passò del tempo pigro, mentre ci riprendevamo stesi sui divanetti, con le ragazze al nostro servizio che ci rifornivano di liquori o caffè.
– Eppure, – esordì d’un tratto la mia lady, rivolta al signor Laban – gira e rigira, noi donne ci troviamo sempre a recitare una parte. Ma sia da schiave, sia da regine, è il vostro totem che viene messo al centro del tempio, è la vostra bacchetta che dirige l’orchestra.
– Credete davvero, mia cara? – chiese l’uomo di rimando. – No, io non lo credo, o quanto meno è una semplificazione che fa di un cavallo alato un mostruoso scherzo di natura. Vedete, voi continuate a pensare che queste nostre amiche, si prestino a farci da schiave per il nostro piacere. Ed allora dovreste cercare di capire quale è questo nostro piacere, o quanto meno qual è il mio. Ed il mio sommo piacere, cara Lia deliziosa, non è costringere il corpo, ma carpire la mente. La mente di una prostituta che si concede per denaro, è libera. Ma dominare il pensiero di una persona, renderla prona ai nostri desideri, questo è sublime. Questo è il mio piacere. Se potete capire questo, pensate ora alla dedizione che ottengo…, pensate a come potrei ottenere tale dedizione… da voi.
– Da me?
– Certo. Immaginate che io riesca a conoscere i vostri desideri al punto da capirli anche meglio di quanto li conosciate voi stessa…, immaginate ora che io vi conduca, imprigionata, per quel sentiero che voi stessa desiderate seguire, ma che ancora non conoscete, che ancora ignorate.
– Ma come si può desiderare qualcosa che non si conosce?
Il signor Laban sorrise.
– Non si può. Eppure è nostro destino, forse sventurato, desiderare soprattutto ciò che non abbiamo. E nulla è così poco nostro di ciò che non conosciamo.
– Ma nessuno meglio di noi, può conoscere i nostri stessi desideri.
– Noi conosciamo ciò che crediamo giusto desiderare, e questo perché sovente i nostri educatori tralasciano di educare i nostri sensi al bello, troppo impegnati ad istruirci su ciò che, a loro parere, è giusto. Così il desiderio, quanto meno il desiderio del bello (e le virtù ad esso collegate come ad esempio l’acutezza dei sensi) rimane qualcosa di misterioso, e rimane tale soprattutto per noi stessi. Così, accade che abbiamo il desiderio disegnato in volto, e proprio per questo noi siamo gli unici a non vederlo. Solo chi ci sa guardare può svelarci la nostra ignoranza. E ciò ci porta al passo più difficile per chi decide di darsi a qualcuno come schiavo: la necessità di fidarsi.
Stavolta fu Lia a sorridere sarcastica.
– Dunque lei crede di conoscere il desiderio di queste ragazze più di loro stesse.
– Sì. Se così non fosse, non credo mi obbedirebbero.
– E magari crede di conoscere anche il mio più grande desiderio.
– Io credo che lei rifugga dal suo più grande desiderio. Ciò che le manca, lei lo desidera spasmodicamente, e poiché ciò che le manca le è ignoto, lei lo teme come una bimba teme il buio.
Lia lo guardò con aria di sfida.
– E cos’è che temo allora?
Il signor Laban la fissò severo, penetrante, mentre tutti noi commensali non osavamo fiatare. La sola Mila, splendida al fianco del suo uomo, pareva divertita, come se già il destino della mia lady fosse stato scritto e lei ne avesse letto il finale.
– Lei, mia dolce e profumata Lia, teme di mettersi nelle mie mani. Lei teme che io possa comprendere il suo più intimo desiderio, quello che lei non ha ancora il coraggio di ammettere a se stessa.
Lia ora lo fissava furente, mentre lui, il signor Laban, aveva concluso la sua affermazione volgendo di nuovo la sua attenzione al vino che Nina stava versandogli nel bicchiere.
– Lei è davvero una persona arrogante, signor Laban.
– No, mia dolce Lia, non rompa lo specchio che riflette una realtà sgradita, non era certo mia intenzione offenderla in alcun modo.
Il signor Laban pareva davvero dispiaciuto della reazione di Lia e porse le sue scuse con sincero rammarico. La mia lady però aveva ancora il viso arrossato e continuava a fissare l’uomo irata. Con sorpresa di tutti intervenne Rachele.
– Mi pare ci sia un solo modo per appurare la verità, non credi sorellina?
La rossa, con i grossi capezzoli turgidi offerti dalla generosa guêpiere, parlava con un tono canzonatorio e provocante. Lia la guardò imporporandosi ancora di più.
– Che hai in mente?
– Beh – rispose Rachele – mettilo alla prova. Non ti costa nulla e se perdi ti fai un’altra bella goduta. Signorina Nadja! Porti una corda per la signora Lia.
Mentre Nadja si affrettava ad obbedire, Lia si guardò attorno smarrita. Cercò nei miei occhi l’intenzione di sottrarla a quel nuovo gioco ma io le sorrisi rassicurante ma senza alcuna intenzione di sottrarre a lei la responsabilità di tirarsi indietro o meno.
– Non tema, mia cara Lia – intervenne Laban – basta un suo “no” e tutto finirà.
A queste parole gli occhi di Lia divennero lucidi e per un attimo pensai di porre fine al gioco. Tuttavia lei era la mia lady e non mi permisi di farlo. La signorina Nadja fece ritorno con una catenella sottile, lucente, con due bracciali a lucchetto, di cuoio nero, alle estremità. La ragazza la porse a Laban e l’uomo, dopo averne saggiato la consistenza, la mostrò a Lia. Credemmo di scorgere da fuori tutte le tensioni che scorrevano dietro agli occhi della mia lady come onde elettriche. Alla fine accettò.
Ad un cenno del signor Laban, Nina e Nadja si portarono ai suoi fianchi e la fecero sollevare da tavola. Le due ragazze, le nostre schiave di quella sera, con le loro guêpiere e le calze nere, i tacchi alti, sovrastavano di mezza testa la mia esile biondina mentre la scortavano davanti a Laban che si era alzato da tavola.
– Sii tutt’una con il tuo corpo, non schiava delle tue paure – le disse. Quelle parole le diedero la forza di dominarsi. Lo guardò negli occhi e gli porse i propri polsi.
– Signori e signore, vi prego di seguirmi – disse avviandosi e tirandosi dietro per i polsi la mia lady.

La stanza in cui entrammo era priva di finestre. La preziosa carta da parati era rosso cupo con ricami di rose oro e argento. Nelle pareti di fronte e ai lati dell’unica porta c’erano dei divanetti bassi, simili a quelli che ci eravamo lasciati alle spalle. Accanto alla porta un mobile simile ai porta stecche delle sale da biliardo. Solo che invece delle stecche c’era un vario campionario di catene con bracciali e collari e, soprattutto, scudisci e frustini. Un gancio pendeva dal soffitto al centro della stanza.
Vedendo quell’esposizione Lia guardò perplessa il signor Laban, che dal canto suo le sorrise letteralmente sotto i baffi.
– Non tema – le disse l’uomo mentre Mila, avvicinatasi alle sue spalle, le fissava una benda di seta nera sugli occhi.
Eravamo tutti nella sala. Su un divanetto si era seduto Bruno tirando a sé le due ragazze che ci facevano da schiave. Entrambe parevano ben disposte a sottomettersi al suo notevole cazzo ed in particolare Nina, che non l’aveva ancora assaggiato, era china sul suo inguine. Sull’altro divanetto ci eravamo accomodati io e Rachele. Entrambi fissavamo il modo in cui il signor Laban stava preparando Lia, chiedendoci quali altre sorprese ci avrebbe riservato il padrone di casa. L’uomo, assistito dalla sua giovane amante Mila, le aveva sollevato i polsi, imprigionati dai bracciali di cuoio, per fissarli al gancio del soffitto. Ora la mia lady se ne stava lì, con le braccia sollevate, la benda sugli occhi e quello strano costume di seta avorio e fiori d’argento che, ora ridotto allo stretto corpetto, faceva di lei un’esile figura con il bel sedere alto incorniciato dalle stringhe che sostenevano le calze bianche, il bel sedere magnificamente modellato dalla natura e sollecitato dalle scarpe con il tacco. Rachele, al mio fianco, pareva eccitata e probabilmente invidiosa della sorella, tanto degli sguardi che così esposta si stava attirando, quanto del gioco che presumeva stesse per proporle Laban che così parlò quando ebbe valutato soddisfacente la posa di Lia:
– Ora miei cari amici, poiché la nostra amata signorina Lia si è messa così volenterosamente a nostra disposizione, ognuno di noi riceverà una carta dal mazzo che la mia piccola Mila sta mescolando. Vi prego di non rivelare la vostra carta finché tutti non ne avremo ricevuta una. Solo uno di noi godrà del corpo della nostra… del nostro giocattolo, se così vogliamo chiamare questa donna che stasera si offrirà al nostro diletto.
Mila fece il suo giro da croupier mettendoci molto tempo e molti fruscii di vesti. Ogni suo gesto, in quegli abito osceni, ne sottolineavano la prorompente bellezza, eppure il gioco erotico in quel momento dipendeva dall’ansia di ricevere la carta che avrebbe assicurato la posta in palio, ovvero la mia Lia, e l’incedere lento della croata non faceva che aumentare la smania di quell’attesa. Andò da Laban, da Bruno e anche dalle due ragazze, e ad ognuno sorrideva e consegnava una carta presa dal mazzo. Venne da me, mi fissò con quei suoi occhi verdi, sempre carichi di promesse, e mescolò ancora le carte per il gusto di vedermi soffrire ancora un po’. Lia stessa, parve gemere a quell’attesa. Quindi mi consegnò una carta e, dopo un fugace sorriso, offrì il mazzo a Rachele.
– Scegli la tua carta, Rachele – le disse.
Rachele non aveva pensato a quell’eventualità ed esitò.
– Coraggio, manchi solo tu – insistette Mila.
Vidi Rachele arrossire prima di allungare la sua mano.
– Ora, miei cari ospiti – riprese Laban – scopriremo le nostre carte. Naturalmente non riveleremo il vincitore di questa nostra lotteria alla nostra Lia che in tal modo avrà a che fare con le attenzioni di uno sconosciuto.
Il signor Laban diede il buon esempio mostrando il suo 6 di picche che subito fu sconfitto dal mio 7 di quadri. Bruno mostrò il suo jack di fiori che batteva anche Mila. Per un attimo mi figurai il modo in cui il grosso randello di Bruno si sarebbe avventato tra le carni della mia piccola Lia poi, come in un sussulto di lucidità, mi accorsi che qualcun altro non aveva ancora mostrato la sua carta. Rachele. Rachele che sollecitata da nostri sguardi si decise ad esibire il suo numero. Rachele aveva una donna di cuori.
Gli occhi ora erano tutti fissati sulla rossa Rachele. Gli occhi di tutti tranne quelli di sua sorella che, bendata, aspettava con sospiri colmi d’ansia, che qualcuno si decidesse a profittare della sua posizione. Doveva essere terribile per lei, immersa in quel buio, aspettare.
Rachele però non pareva potersi decidere. Fissava la sorella come in trance, con il respiro piuttosto grosso, le guance imporporate. Il signor Laban riuscì a scuoterla con un gesto della mano. Come per invitarla ad accomodarsi, come per offrirle il proprio posto di gran cerimoniere. Lei si alzò con il suo corpo dalle curve esplosive, i suoi capelli rossi, e si portò di fronte alla sorella. L’espressione del suo viso era strana. Pareva più assente che eccitata, pareva una sonnambula che sogna ad occhi aperti. Fissava il volto della sorella, le sue labbra socchiuse in attesa di qualcosa, il suo petto costretto dal corsetto ed i suoi piccoli seni candidi. Si avvicinò lentamente e allungò una mano verso la sorella con un gesto ancora più lento. Le sue dita cercarono il capezzolo roseo del seno sinistro, lo sfiorarono appena con la punta del medio. Tanto bastò per far gemere Lia quasi fosse venuta lì per lì. La vidi scartare e ritrarsi come se le avessimo gettato contro una secchiata d’acqua gelida, e invece, a farla trasalire come una tarantolata, era stato il dito di uno sconosciuto, una carezza leggerissima che giungeva inattesa dopo essere stata attesa a lungo.
Rachele si ritrasse, sempre con quell’espressione assorta, estatica, che la faceva apparire quasi una cieca, sensibile solo a visioni d’altri mondi. Fece alcuni passi verso l’armadio ed era veramente strano vederla camminare a quel modo. Fummo noi a trasalire quando vedemmo l’oggetto su cui si chiuse la sua minuta mano: un piccolo stiletto affilato, appuntito, che io nemmeno avevo notato entrando. Feci per alzarmi ed andarle incontro ma Laban, che si era spostato alle mie spalle senza che me ne rendessi conto, me lo impedì posandomi la mano sulla spalla. Rachele tornò con quei suoi passi eterei, nonostante i tacchi che di solito le davano un’andatura ben più provocante, fino all’ignara e indifesa sorella. Si portò alle sue spalle tenendo il coltello con entrambe le mani, come fosse una sacerdotessa pronta al sacrificio. E sempre con quello sguardo che in quel momento mi atterriva. Vidi la lama posarsi di piatto sopra la spalla destra della mia lady, sulla sua pelle candida. Vidi Lia contrarsi senza potersi muovere. Poi vidi la lama spostarsi verso la sua nuca che tante volte avevo colmato di piccoli baci, seguire la linea dell’attaccatura dei corti capelli biondi. Lia aveva intuito fin dal primo tocco che si trattava di un oggetto metallico ed ora, quel suo muoversi graffiandola appena, le aveva fatto capire che si trattava di un coltello. Dalle sue labbra socchiuse non venne però alcun “no”, ma solo soffi e sbuffi provocati da quei piacevoli piccoli graffi. La punta dello stiletto scese dalla nuca lungo la spina dorsale. Vidi la lama infilarsi sotto al corsetto recidendo uno ad uno i suoi legacci. Noi tutti ci lasciammo andare ad un sospiro di sollievo, mentre il viso di Rachele rimaneva immutabile, mentre la sua mano sinistra, senza toccare il corpo della sorella, reggeva il corsetto in modo da permettere al coltello di lavorare. Recise anche le stringhe che reggevano le calze e lasciò cadere a terra il corsetto. Lia rimase con le sole calze e le mutandine. A questo punto lo stiletto in mano a Rachele prese a discendere le cosce sfiorandole di piatto al fine di sfilarle le calze. Rachele seguì il movimento chinandosi sulle ginocchia, poi si rizzò di nuovo e, con fare stavolta più deciso infilò la lama tra le mutandine ed il fianco della sorella e, prima da un lato poi dall’altro, con un colpo secco, recise le mutandine che caddero a terra ormai inutilizzabili. Aveva spogliato completamente la sorella senza mai toccarla con null’altro che quel piccolo stiletto affilato. Mentre lo riponeva nel suo supporto notai che la mano le tremava. Tirai un altro sospiro di sollievo.
Al posto dello stiletto, prese un corto scudiscio, terminante in alcune frangette di cuoio. Quando si volse di nuovo verso la sorella notai che aveva mutato espressione. Ora pareva più padrona di sé, come se avesse recuperato un certo ruolo e un certo personaggio, con quel frustino in mano. Girò attorno alla sorella come a passarne in rassegna il corpo. Lo scudiscio si posava su quel corpo senza violenza, quasi per saggiare con disinteresse la curva del suo sedere, la linea di quei fianchi lisci, i suoi piccoli seni appuntiti, i suoi capezzoli rosei. Quando Rachele fu di nuovo di fronte a Lia, la punta dello scudiscio stuzzicò un attimo un capezzolo, poi risalì verso la gola, ne sollevò il mento, ne carezzò la guancia. Lia respirava dalla bocca socchiusa, estremamente tesa a comprendere chi fosse quel paziente suo seduttore. Paziente ai limiti della follia. Lo scudiscio scese di nuovo ai seni, lungo i fianchi, andò a rovistare tra i radi peli pubici della biondina ed infine andò ad infilarsi tra le sue cosce. Rachele fece strusciare lo scudiscio in un modo prima disordinato, grezzo, come stuzzicasse le api di un favo. Poi iniziò a metterci più abilità, volendo infilarsi tra le labbra del sesso di Lia. Quando vi riuscì, scorgemmo tutti il lucido miele che la sua fica stava lasciando sulla superficie scura di quell’aggeggio.
Rachele ora pareva davvero eccitata dal modo in cui stava facendo godere la sorella e Lia, dal canto suo, pareva non desiderare altro che sentire quell’intero frustino infilato fino in fondo alla sua fica. Pareva davvero vicina ad esplodere quando Rachele spinse lo scudiscio tra le sue cosce fino all’impugnatura, mentre con l’altra mano afferrava la nuca della sorella. Così si bloccò, come sull’orlo di un dirupo, con le labbra ansanti a pochi centimetri da quelle altrettanto ansanti della sorella.
– Ti scongiuro, continua… – gemette Lia.
Ma Rachele non continuò. Costringendo la sorella per la nuca avvicinò le sue labbra rosse all’orecchio e sussurrò qualcosa che non udimmo. E mentre continuava a sussurrare a quel modo all’orecchio della sorella, la sua mano destra, quella che reggeva lo scudiscio, se ne liberò e cominciò ad accarezzare il pube biondo della mia lady, le sue dita scesero facendosi largo tra le sue labbra bagnate con un abile movimento circolare, entrarono in lei riemergendo lucide di umori, si posarono sul suo grillettino.
Lia pareva sconvolta ma non faceva una sola mossa per sottrarsi alla presa della sorella ed anzi pareva volerne agevolare le mosse. Ebbi la percezione sullo sfondo di Bruno che riempiva la bocca di Nina del suo sperma, poi sentii una nuova implorazione, gutturale, sfinita, della mia lady:
– Baciami…
Rachele posò la sua bocca su quella della sorella e le premette l’intero suo corpo contro. Vidi le loro lingue che si separavano solo quando Lia si ritrasse per urlare il suo piacere. Venne come se stesse affogando.

Rachele prese ad armeggiare sui bracciali ed io subito corsi ad aiutarla. Rimuovemmo i fermi ed io dovetti sorreggere Lia che pareva svenuta. La misi a sedere e la abbracciai.


Ritornare alla vita di ogni giorno dopo quell’incredibile vacanza a quattro pareva l’ultimo dei nostri pensieri. Tuttavia dovemmo imporci di fare le valige e tutto il resto.
Il signor Laban ci disse che potevamo rimanere quanto volevamo, davvero ospiti suoi, ma lo fece con la solita discrezione ben sapendo che mille ragioni ci obbligavano a tornare alle nostre vite.
Mentre guidavo verso casa, con la mia Lia al fianco, avevo ancora negli occhi l’immagine dei saluti davanti all’albergo. Il signor Laban con il suo elegante vestito bianco, la splendida Mila che mi aveva salutato con un lungo bacio prima di strapparmi la promessa di tornare. Assieme a quella strana coppia, c’erano, con le proprie divise di servizio, la bruna Nadja e la bionda Nina. Guardai nello specchietto retrovisore Bruno che si era addormentato prima ancora di imboccare la statale: quella notte le due ragazze croate se l’erano trascinato in camera e dovevano averlo spolpato ben bene. Lo specchietto mi rimandò lo sguardo dell’altra passeggera seduta di dietro: la rossa Rachele, la sorellina della mia lady. I suoi occhi verdi erano sempre più quelli di una tigre affamata. In quel momento Lia mise la sua mano sopra la mia, posata sul cambio. Io la guardai e lei mi sorrise felice. La mia biondina dolce. Che non si ferma davanti a nulla. Tornavo da quella vacanza sempre più legato a lei, anche ora che, di fatto, mi ritrovavo con due fidanzate. Quella sera infatti, Lia e Rachele mi si erano date, e si erano date tra loro, con una passione che nessuno di noi tre credeva possibile solo una settimana prima. Il ricordo dei loro corpi nudi, avvinghiati tra le lenzuola, e quello dei loro sederi entrambi offerti al mio desiderio, mi trapassò la mente andando a conficcarsi nel mio basso ventre. Dietro le mie spalle Rachele fece un sbuffo divertito intuendo i miei pensieri. Lia si girò incuriosita verso di lei e quando capì ricambiò il sorriso. La mia lady mi guardò di nuovo e allungò la mano verso la mia patta accarezzandomi affettuosa.
– Prima ho chiamato mamma – disse Rachele alle nostre spalle con tono falsamente sovrappensiero. – Venerdì lei e papà vanno in montagna dalla zia. Pare per tutto il week end…

. FINE

(Se vi è piaciuto, ci vediamo, con racconti inediti e le immagini di un immaginario casting, su: http://raccontiviola.wordpress.com)
scritto il
2013-05-23
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