La Rosa che non colsi (canone inverso)
di
Chicken1973
genere
tradimenti
Era stato bello rivedere i vecchi colleghi di ufficio ad un anno dalla mia decisione di cambiare totalmente vita, sapere che c’era chi aveva voluto organizzare una cena in centro per sentire cosa avessi da raccontare della mia svolta lavorativa, lontano dai viaggi internazionali per entrare nelle strette stanze della scuola statale come insegnante.
Ed era stato bello sapere che Rosa, inizialmente restia, aveva poi deciso di unirsi al gruppo, apprendendo che avrei partecipato a quella serata.
Era stato bello ritrovarsi a tavola ed incrociare lo sguardo di tanto in tanto, fissarsi in quei fugaci attimi che sembravano ore, in mezzo alle risate e alle battute del resto della compagnia.
Ed era stato bello trovarsi separati dagli altri passeggiando nella notte in mezzo alle antiche rovine, a parlare delle bellezze della città, come in una bolla, mentre qualche metro più indietro il gruppetto di uomini rumoreggiava lanciandosi aneddoti come in una partita di tennis.
Fu quindi doloroso il momento il cui Rosa decise di prendere il taxi per tornare a casa, una delle rare vetture che appare in quella desolata notte romana: un abbraccio, una promessa di rivedersi, un bacio sulla guancia e lei che sparisce dietro la portiera prima che possa dire qualcosa.
Avrei potuto proporle di riportarla io a casa in macchina, sebbene abitasse da tutt’altra parte rispetto a me, e lei avrebbe potuto accettare dopo le rassicurazioni che non mi sarebbe pesato allungare il viaggio di rientro.
Avremmo fatto ancora della strada assieme per raccontarci le reciproche giornate ed i progetti per l’anno nuovo, arrivare alla mia macchina e attraversare la città fino al quartiere defilato dove si era trasferita a vivere. E lei mi avrebbe ringraziato e salutato con un bacio scendendo dall’auto, io che al massimo posso seguirla con lo sguardo per assicurarmi che sia al sicuro nell’androne del palazzo, affranto.
Oppure avrei potuto fermarla prima che aprisse la portiera per chiederle se le andava di passare ancora del tempo assieme e magari lei, dopo una pausa, mi avrebbe invitato a salire a casa sua. Mi avrebbe suggerito dove parcheggiare per non perdere troppo tempo e poi mi avrebbe guidato fino al portone, all’ascensore e alla porta del suo appartamento. Le avrei fatto i complimenti per l’arredamento mentre lei prendeva quella bottiglia di rosso dalla cucina, per bere ancora un bicchiere. Ed avremmo parlato ancora di quella famosa cena aziendale in trasferta e delle chiacchierate nell’area caffè dell’ufficio, sorseggiando un corposo vino del sud che dava un po’ alla testa. E, ad un certo punto, la stanchezza si sarebbe fatta sentire, trovandomi costretto a darle ragione sul fatto che, considerando il vino e la strada che avrei dovuto fare per tornare a casa, forse era meglio terminare la serata lì, io che prendo le mie cose e torno alla porta, noi che ci guardiamo ancora un momento con lo stesso breve sguardo interminabile, l’ascensore che arriva e la porta che riluttante si chiude e ci separa.
Oppure avrei potuto farle un’ultima domanda prima di lasciarla, e chiederle se pensava ancora a quel giorno a lavoro in cui le avevo confessato il mio debole per lei, in cui le avevo chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi a lei in ufficio e a me a casa, con mia moglie che si meritava il marito fedele che aveva avuto in quei venti anni. E lei avrebbe risposto che sì, continuava a pensarci, ma che forse avevamo preso la decisione giusta per tutti, anche per chi mi attendeva a casa.
Oppure avrebbe detto che si era pentita di aver dato ascolto alla mia sofferta ragionevolezza, che forse avremmo potuto baciarci quel giorno di tanto tempo fa. Ed il bacio che non ci eravamo dati in ufficio ce lo davamo ora, in questa notte ubriaca, il sapore del Negramaro sulle nostre lingue, una scossa elettrica che l’avrebbe fatta retrocedere improvvisamente, pentita di quello che stava succedendo, scrollando la testa, pensando che lei non voleva sentirsi addosso il fardello di una donna sofferente per causa sua, allontanandomi tra mille scuse, abbracciandomi ma, con quell’abbraccio, conducendomi in una danza fino alla porta e fino al pianerottolo, tra una lacrima e frasi non finite ed il rumore del portone che si chiude nel silenzio della notte.
Oppure il vino avrebbe potuto annebbiarci quel poco che sarebbe bastato perché le nostre mani si intrecciassero e poi si slacciassero per esplorare i nostri corpi, l’odore della sua pelle che mi stordisce come e più del vino, io che la spoglio gettando i vestiti per terra, liberandole i seni e lasciando scivolare una mano sulle mutandine per arrivare ad accarezzarla in mezzo alle gambe. E ci saremmo concessi una scopata veloce e dolorosa, con la comune silenziosa coscienza che non avrei dovuto vedere l’alba in quella casa, perché il mio posto era altrove. E nei pochi minuti che avevamo a disposizione mi sarei inginocchiato per adorarla, tirarle via gli slip neri un po’ trasparenti che lasciavano intravedere il monte di venere peloso, gettando il mio viso tra le sue gambe e la lingua sul suo clitoride. Lei chi mi costringe a rimettermi in piedi, mi trascina sul divano e finalmente lì le entro dentro, il mio cazzo che scivola nella sua fica accogliente, l’unico pensiero di venire il prima possibile perché il destino ruggisce come un leone fuori dalla porta di casa, con il suono delle lancette dell’orologio appeso al muro. Ed avrei goduto in un sofferto orgasmo, venendole dentro, per rivestirmi in fretta, lei che mi dice “vai, per favore, vai” ed io che senza proferire parola la guardo un’ultima volta oscenamente nuda e, non so come, lascio casa sua, tornando da mia moglie in un orario che non avrebbe destato sospetti.
Oppure, invece di essere schiavo del tempo che fugge, mi sarei dedicato al suo piacere, come sempre faccio con la mia Alessia, perché un orgasmo so darmelo da solo, ma l’orgasmo della donna che ami è un dono inestimabile; e dopo lunghi combattimenti per arrivare al suo piacere, strozzato in un mugolio incontrollato, ci saremmo addormentati fianco a fianco, teneramente abbracciati. Un abbraccio atteso da tanto tempo, che avevamo coltivato nella reciproca distanza, che tale non poteva rimanere, sembravano dire i nostri corpi nudi.
E ci avrebbe svegliato lo squillare del mio cellulare. “Cazzo, Alessia!”. Io che, nella confusione del sonno e del sesso rispondo alla chiamata, “Claudio: dove cazzo sei?”. E la mia muta risposta avrebbe parlato più di mille parole, gli occhi da gatta di Rosa che mi fissano, le labbra serrate tra i denti per la tensione, ed io che mi sento il più imbecille degli stronzi che tradiscono la moglie.
Ed il sogno del corpo di Rosa di una notte, si sarebbe tramutato nell’incubo della storia di due anime che venti anni prima si erano aperte all’eternità e che invece ora era abbandonata a terra, appiccicata allo sperma sulle mie mutande sul pavimento.
Il più imbecille degli stronzi.
Ma invece avevo pensato al mio fugace piacere ed ero tornato a casa in tempo utile per non generare sospettose domande.
Anzi, no: dopo quel bacio ci eravamo dolorosamente separati.
Anzi no: non c’era stato nessun bacio perché avevamo dato retta alla ragione e ci eravamo salutati prima che potessi farle quella domanda.
Anzi no: le avevo fatto quella domanda che mi tenevo in serbo da due anni, ma lei aveva risposto che, sebbene ci pensasse, forse allora avevamo preso la decisione giusta per tutti, anche per chi mi attendeva a casa.
Anzi no: non ci eravamo neanche trovati nella situazione rischiosa di stare da soli in casa sua, a porci domande che non dovevamo porci, perché non le avevo chiesto di salire da lei.
Anzi no: non avevamo neanche avuto il tempo di far crescere un desiderio lungo la strada per portarla a casa, coscienti che più tempo fossimo stati assieme, più difficile sarebbe stato passare indenni in quella serata di ricordi e di nostalgie.
Perché quella sera, al centro della città, dopo una bella e divertente cena tra ex-colleghi, Rosa decise di prendere il taxi per tornare a casa, una delle rare vetture che appare in quella desolata notte romana: un abbraccio, una promessa di rivedersi, un bacio sulla guancia e lei che sparisce dietro la portiera, prima che io possa dirle che l’amo.
(Ottobre 2022)
Ed era stato bello sapere che Rosa, inizialmente restia, aveva poi deciso di unirsi al gruppo, apprendendo che avrei partecipato a quella serata.
Era stato bello ritrovarsi a tavola ed incrociare lo sguardo di tanto in tanto, fissarsi in quei fugaci attimi che sembravano ore, in mezzo alle risate e alle battute del resto della compagnia.
Ed era stato bello trovarsi separati dagli altri passeggiando nella notte in mezzo alle antiche rovine, a parlare delle bellezze della città, come in una bolla, mentre qualche metro più indietro il gruppetto di uomini rumoreggiava lanciandosi aneddoti come in una partita di tennis.
Fu quindi doloroso il momento il cui Rosa decise di prendere il taxi per tornare a casa, una delle rare vetture che appare in quella desolata notte romana: un abbraccio, una promessa di rivedersi, un bacio sulla guancia e lei che sparisce dietro la portiera prima che possa dire qualcosa.
Avrei potuto proporle di riportarla io a casa in macchina, sebbene abitasse da tutt’altra parte rispetto a me, e lei avrebbe potuto accettare dopo le rassicurazioni che non mi sarebbe pesato allungare il viaggio di rientro.
Avremmo fatto ancora della strada assieme per raccontarci le reciproche giornate ed i progetti per l’anno nuovo, arrivare alla mia macchina e attraversare la città fino al quartiere defilato dove si era trasferita a vivere. E lei mi avrebbe ringraziato e salutato con un bacio scendendo dall’auto, io che al massimo posso seguirla con lo sguardo per assicurarmi che sia al sicuro nell’androne del palazzo, affranto.
Oppure avrei potuto fermarla prima che aprisse la portiera per chiederle se le andava di passare ancora del tempo assieme e magari lei, dopo una pausa, mi avrebbe invitato a salire a casa sua. Mi avrebbe suggerito dove parcheggiare per non perdere troppo tempo e poi mi avrebbe guidato fino al portone, all’ascensore e alla porta del suo appartamento. Le avrei fatto i complimenti per l’arredamento mentre lei prendeva quella bottiglia di rosso dalla cucina, per bere ancora un bicchiere. Ed avremmo parlato ancora di quella famosa cena aziendale in trasferta e delle chiacchierate nell’area caffè dell’ufficio, sorseggiando un corposo vino del sud che dava un po’ alla testa. E, ad un certo punto, la stanchezza si sarebbe fatta sentire, trovandomi costretto a darle ragione sul fatto che, considerando il vino e la strada che avrei dovuto fare per tornare a casa, forse era meglio terminare la serata lì, io che prendo le mie cose e torno alla porta, noi che ci guardiamo ancora un momento con lo stesso breve sguardo interminabile, l’ascensore che arriva e la porta che riluttante si chiude e ci separa.
Oppure avrei potuto farle un’ultima domanda prima di lasciarla, e chiederle se pensava ancora a quel giorno a lavoro in cui le avevo confessato il mio debole per lei, in cui le avevo chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi a lei in ufficio e a me a casa, con mia moglie che si meritava il marito fedele che aveva avuto in quei venti anni. E lei avrebbe risposto che sì, continuava a pensarci, ma che forse avevamo preso la decisione giusta per tutti, anche per chi mi attendeva a casa.
Oppure avrebbe detto che si era pentita di aver dato ascolto alla mia sofferta ragionevolezza, che forse avremmo potuto baciarci quel giorno di tanto tempo fa. Ed il bacio che non ci eravamo dati in ufficio ce lo davamo ora, in questa notte ubriaca, il sapore del Negramaro sulle nostre lingue, una scossa elettrica che l’avrebbe fatta retrocedere improvvisamente, pentita di quello che stava succedendo, scrollando la testa, pensando che lei non voleva sentirsi addosso il fardello di una donna sofferente per causa sua, allontanandomi tra mille scuse, abbracciandomi ma, con quell’abbraccio, conducendomi in una danza fino alla porta e fino al pianerottolo, tra una lacrima e frasi non finite ed il rumore del portone che si chiude nel silenzio della notte.
Oppure il vino avrebbe potuto annebbiarci quel poco che sarebbe bastato perché le nostre mani si intrecciassero e poi si slacciassero per esplorare i nostri corpi, l’odore della sua pelle che mi stordisce come e più del vino, io che la spoglio gettando i vestiti per terra, liberandole i seni e lasciando scivolare una mano sulle mutandine per arrivare ad accarezzarla in mezzo alle gambe. E ci saremmo concessi una scopata veloce e dolorosa, con la comune silenziosa coscienza che non avrei dovuto vedere l’alba in quella casa, perché il mio posto era altrove. E nei pochi minuti che avevamo a disposizione mi sarei inginocchiato per adorarla, tirarle via gli slip neri un po’ trasparenti che lasciavano intravedere il monte di venere peloso, gettando il mio viso tra le sue gambe e la lingua sul suo clitoride. Lei chi mi costringe a rimettermi in piedi, mi trascina sul divano e finalmente lì le entro dentro, il mio cazzo che scivola nella sua fica accogliente, l’unico pensiero di venire il prima possibile perché il destino ruggisce come un leone fuori dalla porta di casa, con il suono delle lancette dell’orologio appeso al muro. Ed avrei goduto in un sofferto orgasmo, venendole dentro, per rivestirmi in fretta, lei che mi dice “vai, per favore, vai” ed io che senza proferire parola la guardo un’ultima volta oscenamente nuda e, non so come, lascio casa sua, tornando da mia moglie in un orario che non avrebbe destato sospetti.
Oppure, invece di essere schiavo del tempo che fugge, mi sarei dedicato al suo piacere, come sempre faccio con la mia Alessia, perché un orgasmo so darmelo da solo, ma l’orgasmo della donna che ami è un dono inestimabile; e dopo lunghi combattimenti per arrivare al suo piacere, strozzato in un mugolio incontrollato, ci saremmo addormentati fianco a fianco, teneramente abbracciati. Un abbraccio atteso da tanto tempo, che avevamo coltivato nella reciproca distanza, che tale non poteva rimanere, sembravano dire i nostri corpi nudi.
E ci avrebbe svegliato lo squillare del mio cellulare. “Cazzo, Alessia!”. Io che, nella confusione del sonno e del sesso rispondo alla chiamata, “Claudio: dove cazzo sei?”. E la mia muta risposta avrebbe parlato più di mille parole, gli occhi da gatta di Rosa che mi fissano, le labbra serrate tra i denti per la tensione, ed io che mi sento il più imbecille degli stronzi che tradiscono la moglie.
Ed il sogno del corpo di Rosa di una notte, si sarebbe tramutato nell’incubo della storia di due anime che venti anni prima si erano aperte all’eternità e che invece ora era abbandonata a terra, appiccicata allo sperma sulle mie mutande sul pavimento.
Il più imbecille degli stronzi.
Ma invece avevo pensato al mio fugace piacere ed ero tornato a casa in tempo utile per non generare sospettose domande.
Anzi, no: dopo quel bacio ci eravamo dolorosamente separati.
Anzi no: non c’era stato nessun bacio perché avevamo dato retta alla ragione e ci eravamo salutati prima che potessi farle quella domanda.
Anzi no: le avevo fatto quella domanda che mi tenevo in serbo da due anni, ma lei aveva risposto che, sebbene ci pensasse, forse allora avevamo preso la decisione giusta per tutti, anche per chi mi attendeva a casa.
Anzi no: non ci eravamo neanche trovati nella situazione rischiosa di stare da soli in casa sua, a porci domande che non dovevamo porci, perché non le avevo chiesto di salire da lei.
Anzi no: non avevamo neanche avuto il tempo di far crescere un desiderio lungo la strada per portarla a casa, coscienti che più tempo fossimo stati assieme, più difficile sarebbe stato passare indenni in quella serata di ricordi e di nostalgie.
Perché quella sera, al centro della città, dopo una bella e divertente cena tra ex-colleghi, Rosa decise di prendere il taxi per tornare a casa, una delle rare vetture che appare in quella desolata notte romana: un abbraccio, una promessa di rivedersi, un bacio sulla guancia e lei che sparisce dietro la portiera, prima che io possa dirle che l’amo.
(Ottobre 2022)
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