Lettera di una madre incestuosa (romanzo - 9/9)
di
Ciro Esposito83
genere
incesti
Sei sempre stato un buon figlio. Da bambino non eri capriccioso, non mi facevi preoccupare, eri studioso, educato e piacevi a tutti. Crescendo, hai avuto anche tu le tue fasi, come era naturale che fosse. All'inizio della pubertà hai cominciato a definire quello che sarebbe stato il tuo carattere da adulto. Schivo e riservato. Nei miei confronti sei sempre stato affettuoso e premuroso. Mi facevi tanti regali, mi prendevi un mazzo di fiori per il compleanno, ti preoccupavi sempre di come stessi. Non ti vergognavi di farti vedere in giro con me quando incontravamo i tuoi amici, anche ai tempi delle scuole superiori. Mi piaceva vederti accoccolare su di me quando guardavamo la televisione, sul divano, con un plaid che condividevamo. L'amore che ho provato per te è quanto di più potente esista al mondo. Solo dopo aver partorito si può comprendere cosa significhi avere un figlio, sentire che lui è parte di te perché è stato dentro di te, lì si è formato per poi uscirne e diventare un'entità autonoma. Ma tu, come madre, sai che sarà sempre parte di te. So che sembra retorica. So che ci sono madri che amano altrettanto intensamente i propri figli sebbene li abbiano adottati. Non voglio mettere in discussione il loro sentimento. Ti dico quello che è stato per me averti. La vita può cambiare i rapporti tra le persone, questo è ovvio. Quello che è successo tra noi è stato uno di quei punti di non ritorno che segnano per sempre un rapporto tra due persone. Sarebbe assurdo pensare il contrario. Nonostante ciò, quel legame intimo e profondo l'ho continuato a sentire. Rafforzato e contemporaneamente minato da quell'evento, ma pur sempre presente e viscerale. Lo ammetto, tra prime e dopo c'è stato un mutamento del nostro rapporto. Entrambi abbiamo vissuto con il ricordo di quello che avevamo compiuto. Non è stato un percorso lineare. Si potrebbe credere che dopo un simile episodio i rapporti si orientino in maniera permanente in una direzione. Potrebbe nascere un amore carnale e proibito che si protrae nel tempo, che può restare occulto o si palesa, che crea una relazione o delle situazioni occasionali. Magari potrebbe rimanere ad un livello platonico, dove la pulsione viene soffocata e cerca di manifestarsi in altre maniere. Le variabili sono comunque infinite. L'altra direzione che potrebbe prendere è quella del rancore, dell'odio, del distacco. Mettiamoci pure il rimorso, il disgusto e quant'altro. Quando si pensa a situazioni come quella in cui ci siamo trovati noi, si tende a propendere per una delle due direzioni, a prescindere da quali siano le variabili lungo il loro percorso evolutivo. Per noi mi sento di dire che non è stato così. Abbiamo avuto momenti positivi e negativi. Gli stati d'animo, gli umori sono sempre stati variabili e mai estremi. È dipeso dal fatto che non ne abbiamo mai più parlato apertamente? È un'altra di quelle domande che resteranno senza risposta perché arriva tardi.
Comunque sia, ti ringrazio per tutto l'amore che mi hai dato. Sei stato un figlio meraviglioso in ogni circostanza.
C'è un altro momento che voglio ricordare insieme a te. Sì, perché scriverti adesso le cose di cui non abbiamo mai parlato, anche se mentre le scrivo tu non le puoi leggere e quando le leggerai io non ci sarò più, crea un legame profondo tra di noi e ci unisce ancora, per un'ultima volta.
Avevamo fatto l'amore. Tua madre aveva preso la tua verginità, come magari avevi fantasticato chissà quante volte. Ti avevo ricevuto in me, come un ritorno alle origini. Adesso avevamo lasciato quella camera che era stata l'unica testimone del nostro segreto. Ci eravamo rivestiti, tu eri uscito per andare in paese forse. Avevo aperto le imposte e rifatto il letto, cambiando le lenzuola per far sparire le tracce dei nostri umori. Non mi ero ripulita intimamente. Volevo sentire il tuo seme ancora dentro di me, almeno fino a che non avrebbe cominciato a colare fuori e scivolarmi tra le cosce. Era una stupidaggine, ma al tempo stesso il vano tentativo di tenerti ancora un po' con me. Non so dove tu andasti, cosa facesti e chi incontrasti. Forse avevi bisogno di pensare. Io mi sedetti davanti all'uscio, sulla panchetta, in quell'oceano di luce. Grossi insetti si davano da fare sui cespugli fioriti, in un via vai che aveva qualcosa di profondamente sensuale, nel loro entrare e uscire dai fiori aperti. Le immancabili cicale frinivano e le spighe si muovevano pigre, scosse da una leggera brezza. Pensai al tuo futuro. Ti immaginai già grande, sposato e con dei figli e provai a domandarmi se quello che avevamo appena fatto avrebbe inciso sul tuo destino. Se avessi fatto un pessimo matrimonio, se non fossi riuscito ad avere dei bambini, quanto sarebbe stata colpa mia? Oppure avresti potuto decidere di non volere una relazione con una donna, perché a causa mia le odiavi tutte. Fu quello il momento in cui il senso di colpa mi attaccò ferocemente. Capitò anche in altri momenti, ma lì, in quella campagna solitaria, ancora scossa da quello che avevo fatto, ero più vulnerabile e disponibile al pentimento. Mi dissi che non ero degna di essere chiamata madre. Avevo tradito il mio ruolo. Ero venuta meno al mio dovere più sacro, quello di proteggerti da tutto e da tutti. Non ti avevo protetto da me stessa. Non aveva alcuna importanza che tu mi avessi desiderata, che non ci fosse stata alcuna coercizione da parte mia, ma solo che ti avessi offerto quello che tu mi avevi fatto capire di desiderare. Erano scuse che non reggevano. Avrei dovuto resistere a tutto quanto e riportarti a più miti ragionamenti. Avevo fallito.
Adesso ero sopraffatta da un senso di disperazione che mi toglieva il fiato. Ero da sola. Anche tu te ne eri andato e temevo che fossi sconvolto quanto me e che non saresti più tornato. Pensai che sarebbe arrivato qualcuno a dirmi che avevano ritrovato il tuo corpo senza vita e magari un biglietto che mi accusava di essere la causa del tuo suicidio. Mi stavo lasciando andare alla follia. L'idea che tu potessi morire per colpa mia era davvero troppo. Anche solo pensare che stessi male per quello che avevo lasciato che accadesse non era accettabile. Mi sentivo una persona indegna. Il giudizio altrui poteva anche ferirmi, ma non mi sarebbe importato. Temevo il tuo di giudizio. Se tu fossi tornato e mi avessi accusata, rimproverata, biasimata o qualsiasi altra cosa, non so cosa avrei fatto. Ero terrorizzata da ciò che avresti potuto dirmi dopo aver metabolizzato quello che avevamo fatto. In me avevo la certezza che ti fossi allontanato per riflettere e che da questo ne sarebbero derivate delle conseguenze nefaste. Stavo perdendo il senso della ragione, mi stavo lasciando andare alla disperazione. Decisi che volevo morire. Non potevo aspettare né che mi comunicassero la tua morte, né che tu venissi da me ad accusarmi di averti distrutto la vita, il futuro. Mi guardai intorno e cercai un modo per uccidermi. Dovevo farlo immediatamente, prima che il coraggio che la disperazione mi infondeva svanisse. Corsi in casa, frugai nei cassetti alla ricerca di un coltello, poi pensai che potevo usare il gas. Mi muovevo scoordinata, passando di stanza in stanza. Uscii di nuovo nel cortile, andai alla rimessa. Lì avrei potuto trovare qualcosa di efficace, di rapido e poco doloroso magari. Vidi una grossa corda. Ecco la soluzione, mi sarei impiccata ad un ramo. Sarebbe stata un morte sufficientemente vergognosa, con il corpo a penzoloni, esposto alla luce del giorno. Sarebbe stato sufficiente ad espiare la mia colpa. Presi la corda e uscii di nuovo. Mi diressi dietro la casa. Lì c'erano le due grosse querce. I rami robusti avrebbero potuto reggere il mio peso. Si trattava di capire come fare. Dovevo legare una cima ad un ramo. La cosa migliore sarebbe stata quella di mettermi il cappio al collo e lasciarmi cadere dal ramo stesso. La tensione avrebbe dovuto rompermi le vertebre superiori e provocarmi una morte immediata. Inoltre così non avevo il problema di mettermi su uno sgabello o una sedie, che avrebbero lasciato poco spazio e quindi di sicuro sarei morta per soffocamento e non per il contraccolpo. Ero in preda al delirio ma conservavo una buona dose di lucidità. Mi muovevo con frenesia, sapendo quello che dovevo fare. Tornai alla rimessa e presi la lunga scala a pioli, la posai all'albero e mi arrampicai fino a salire sul ramo che avevo prescelto. Cominciai a legare la corda, solo successivamente avrei fatto il cappio. Dovevo calcolare quanta corda serviva, per evitare che buttandomi giù, toccassi il suolo prima che il laccio mi si stringesse alla gola. C'era poi il problema che non sapevo esattamente come si facesse un vero cappio, così mi dissi che dovevo predisporre tutto e poi avrei improvvisato attorcigliandomi la corda intorno.
Mentre trafficavo con queste cose, arrivasti tu, ti piazzasti sotto la pianta, mi guardasti, mi facesti un sorriso e mi chiedesti cosa stessi facendo. Ricordi la mia risposta?
«Volevo creare un'altalena», ti dissi, con voce malferma.
Fu così che mi salvasti la vita. Non credo avessi capito le mie intenzioni. Non credo fosti venuto con quell'intenzione. Fu il caso a portarti lì al momento giusto. Di certo fu la serenità del tuo sguardo e la pacatezza della tua voce a ricondurmi alla vita e a te.
Perché ho voluto scriverti questa lunga lettera? Perché ho voluto parlare ancora una volta di queste cose? E perché ho voluto che la leggessi solo dopo la mia morte? Sono tua madre. Ho fatto cose che una madre non dovrebbe fare, ma alla fine di tutto non sono riuscita a dirmi pentita. Quel che è stato è stato. Il nostro percorso esistenziale non si è certo fermato per questo. Ora lo posso affermare con certezza. Ti ho amato tantissimo e per un breve periodo il mio amore è stato altro da quello materno. Se di ciò che è stato non ne abbiamo parlato per il resto della nostra vita, farlo alla fine, tu ed io, l'uno di fronte all'altra, sarebbe stato ridicolo, scomodo, inutile. Avevo bisogno, però, di ripensare un ultima volta a tutto quello che è stato e spero che queste mie parole abbiano portato chiarezza e leggerezza in te, ti abbiano fatto vedere i fatti dal mio punto di vista. Magari sono anche riuscita a colmare qualche lacuna che ti attanagliava e alla quale non hai mai osato cercare di dare risposta. Spero di aver fatto bene a scriverti.
Dopo che avrai letto queste righe, ti consiglio di bruciarle e di tenere dentro di te solo quello che ritieni di buono ci sia. Fai in modo che con la mia scomparsa svaniscano anche le nebbie del passato e lascia che il sole ti illumini come una giornata d'estate in campagna.
Ti ho sempre voluto bene, figlio mio.
Mamma
Comunque sia, ti ringrazio per tutto l'amore che mi hai dato. Sei stato un figlio meraviglioso in ogni circostanza.
C'è un altro momento che voglio ricordare insieme a te. Sì, perché scriverti adesso le cose di cui non abbiamo mai parlato, anche se mentre le scrivo tu non le puoi leggere e quando le leggerai io non ci sarò più, crea un legame profondo tra di noi e ci unisce ancora, per un'ultima volta.
Avevamo fatto l'amore. Tua madre aveva preso la tua verginità, come magari avevi fantasticato chissà quante volte. Ti avevo ricevuto in me, come un ritorno alle origini. Adesso avevamo lasciato quella camera che era stata l'unica testimone del nostro segreto. Ci eravamo rivestiti, tu eri uscito per andare in paese forse. Avevo aperto le imposte e rifatto il letto, cambiando le lenzuola per far sparire le tracce dei nostri umori. Non mi ero ripulita intimamente. Volevo sentire il tuo seme ancora dentro di me, almeno fino a che non avrebbe cominciato a colare fuori e scivolarmi tra le cosce. Era una stupidaggine, ma al tempo stesso il vano tentativo di tenerti ancora un po' con me. Non so dove tu andasti, cosa facesti e chi incontrasti. Forse avevi bisogno di pensare. Io mi sedetti davanti all'uscio, sulla panchetta, in quell'oceano di luce. Grossi insetti si davano da fare sui cespugli fioriti, in un via vai che aveva qualcosa di profondamente sensuale, nel loro entrare e uscire dai fiori aperti. Le immancabili cicale frinivano e le spighe si muovevano pigre, scosse da una leggera brezza. Pensai al tuo futuro. Ti immaginai già grande, sposato e con dei figli e provai a domandarmi se quello che avevamo appena fatto avrebbe inciso sul tuo destino. Se avessi fatto un pessimo matrimonio, se non fossi riuscito ad avere dei bambini, quanto sarebbe stata colpa mia? Oppure avresti potuto decidere di non volere una relazione con una donna, perché a causa mia le odiavi tutte. Fu quello il momento in cui il senso di colpa mi attaccò ferocemente. Capitò anche in altri momenti, ma lì, in quella campagna solitaria, ancora scossa da quello che avevo fatto, ero più vulnerabile e disponibile al pentimento. Mi dissi che non ero degna di essere chiamata madre. Avevo tradito il mio ruolo. Ero venuta meno al mio dovere più sacro, quello di proteggerti da tutto e da tutti. Non ti avevo protetto da me stessa. Non aveva alcuna importanza che tu mi avessi desiderata, che non ci fosse stata alcuna coercizione da parte mia, ma solo che ti avessi offerto quello che tu mi avevi fatto capire di desiderare. Erano scuse che non reggevano. Avrei dovuto resistere a tutto quanto e riportarti a più miti ragionamenti. Avevo fallito.
Adesso ero sopraffatta da un senso di disperazione che mi toglieva il fiato. Ero da sola. Anche tu te ne eri andato e temevo che fossi sconvolto quanto me e che non saresti più tornato. Pensai che sarebbe arrivato qualcuno a dirmi che avevano ritrovato il tuo corpo senza vita e magari un biglietto che mi accusava di essere la causa del tuo suicidio. Mi stavo lasciando andare alla follia. L'idea che tu potessi morire per colpa mia era davvero troppo. Anche solo pensare che stessi male per quello che avevo lasciato che accadesse non era accettabile. Mi sentivo una persona indegna. Il giudizio altrui poteva anche ferirmi, ma non mi sarebbe importato. Temevo il tuo di giudizio. Se tu fossi tornato e mi avessi accusata, rimproverata, biasimata o qualsiasi altra cosa, non so cosa avrei fatto. Ero terrorizzata da ciò che avresti potuto dirmi dopo aver metabolizzato quello che avevamo fatto. In me avevo la certezza che ti fossi allontanato per riflettere e che da questo ne sarebbero derivate delle conseguenze nefaste. Stavo perdendo il senso della ragione, mi stavo lasciando andare alla disperazione. Decisi che volevo morire. Non potevo aspettare né che mi comunicassero la tua morte, né che tu venissi da me ad accusarmi di averti distrutto la vita, il futuro. Mi guardai intorno e cercai un modo per uccidermi. Dovevo farlo immediatamente, prima che il coraggio che la disperazione mi infondeva svanisse. Corsi in casa, frugai nei cassetti alla ricerca di un coltello, poi pensai che potevo usare il gas. Mi muovevo scoordinata, passando di stanza in stanza. Uscii di nuovo nel cortile, andai alla rimessa. Lì avrei potuto trovare qualcosa di efficace, di rapido e poco doloroso magari. Vidi una grossa corda. Ecco la soluzione, mi sarei impiccata ad un ramo. Sarebbe stata un morte sufficientemente vergognosa, con il corpo a penzoloni, esposto alla luce del giorno. Sarebbe stato sufficiente ad espiare la mia colpa. Presi la corda e uscii di nuovo. Mi diressi dietro la casa. Lì c'erano le due grosse querce. I rami robusti avrebbero potuto reggere il mio peso. Si trattava di capire come fare. Dovevo legare una cima ad un ramo. La cosa migliore sarebbe stata quella di mettermi il cappio al collo e lasciarmi cadere dal ramo stesso. La tensione avrebbe dovuto rompermi le vertebre superiori e provocarmi una morte immediata. Inoltre così non avevo il problema di mettermi su uno sgabello o una sedie, che avrebbero lasciato poco spazio e quindi di sicuro sarei morta per soffocamento e non per il contraccolpo. Ero in preda al delirio ma conservavo una buona dose di lucidità. Mi muovevo con frenesia, sapendo quello che dovevo fare. Tornai alla rimessa e presi la lunga scala a pioli, la posai all'albero e mi arrampicai fino a salire sul ramo che avevo prescelto. Cominciai a legare la corda, solo successivamente avrei fatto il cappio. Dovevo calcolare quanta corda serviva, per evitare che buttandomi giù, toccassi il suolo prima che il laccio mi si stringesse alla gola. C'era poi il problema che non sapevo esattamente come si facesse un vero cappio, così mi dissi che dovevo predisporre tutto e poi avrei improvvisato attorcigliandomi la corda intorno.
Mentre trafficavo con queste cose, arrivasti tu, ti piazzasti sotto la pianta, mi guardasti, mi facesti un sorriso e mi chiedesti cosa stessi facendo. Ricordi la mia risposta?
«Volevo creare un'altalena», ti dissi, con voce malferma.
Fu così che mi salvasti la vita. Non credo avessi capito le mie intenzioni. Non credo fosti venuto con quell'intenzione. Fu il caso a portarti lì al momento giusto. Di certo fu la serenità del tuo sguardo e la pacatezza della tua voce a ricondurmi alla vita e a te.
Perché ho voluto scriverti questa lunga lettera? Perché ho voluto parlare ancora una volta di queste cose? E perché ho voluto che la leggessi solo dopo la mia morte? Sono tua madre. Ho fatto cose che una madre non dovrebbe fare, ma alla fine di tutto non sono riuscita a dirmi pentita. Quel che è stato è stato. Il nostro percorso esistenziale non si è certo fermato per questo. Ora lo posso affermare con certezza. Ti ho amato tantissimo e per un breve periodo il mio amore è stato altro da quello materno. Se di ciò che è stato non ne abbiamo parlato per il resto della nostra vita, farlo alla fine, tu ed io, l'uno di fronte all'altra, sarebbe stato ridicolo, scomodo, inutile. Avevo bisogno, però, di ripensare un ultima volta a tutto quello che è stato e spero che queste mie parole abbiano portato chiarezza e leggerezza in te, ti abbiano fatto vedere i fatti dal mio punto di vista. Magari sono anche riuscita a colmare qualche lacuna che ti attanagliava e alla quale non hai mai osato cercare di dare risposta. Spero di aver fatto bene a scriverti.
Dopo che avrai letto queste righe, ti consiglio di bruciarle e di tenere dentro di te solo quello che ritieni di buono ci sia. Fai in modo che con la mia scomparsa svaniscano anche le nebbie del passato e lascia che il sole ti illumini come una giornata d'estate in campagna.
Ti ho sempre voluto bene, figlio mio.
Mamma
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