Lettera di una madre incestuosa (romanzo - 2/9)

di
genere
incesti

Indossavo un vestitino estivo, giallo a fiori bianchi, sbracciato e con una serie di bottoni sul davanti, di cui ne lasciavo sempre un paio slacciati. Te lo ricordi? Sono certa di sì. Ero andata un attimo prima a fare pipì. Sapevo che tu ti eri appostato dietro la porta ad ascoltare lo scroscio potente che si infrangeva sulla porcellana del water. Da tempo mi ero accorta che facevi così, che ti piaceva sentire quel suono e immaginare il flusso che usciva da me con irruenza. Non mi ero rimessa lo slip. Andai in camera da letto, mi accomodai posando la schiena sulla testiera del letto, aggiustando un paio di cuscini, allungai le gambe e le incrociai all'altezza delle caviglie. Dalle persiane entravano raggi di luce che muovevano la polvere in volute disordinate. I muri erano spogli. Tutta la stanza era spoglia. Solo il grande letto, un armadio, una cassettiera, i comodini ed una vecchia sedia. Immaginavo che stessi ancora pensando a ciò che avevi udito e che la tua mente fosse in fermento. Sapevo che eri eccitato. Ti chiamai, ti pregai di venire da me. Udii i tuoi passi, i piedi nudi sul pavimento fresco. Dopo un istante eri nello specchio della porta con un'espressione di fastidio sul volto perché ti avevo distratto dalle tue fantasie. Sapevo di cosa si trattava. I pantaloni estivi, benché larghi e comodi, denunciavano il tuo stato. Il bozzo era comunque percepibile. Era la conferma che avevo ragione.
Passarono alcuni silenziosi secondi. Mi guardavi con fare interrogativo e non vedevi l'ora di tornare nella tua stanza, probabilmente a masturbarti. Posai le mani sull'orlo estremo del vestito giallo e lentamente feci risalire la stoffa lungo le cosce. Non te l'aspettavi e rimanesti a bocca aperta nel vedere quel gesto. Mi fermai solo quando il pube era allo scoperto. Era la prima volta che mi vedevi lì, liberamente.
I seni li avevi già visti. Era successo anni prima, una volta che ero intenta a fare le pulizie in casa. Quella volta non portavo reggiseno e avevo solo una maglietta molto larga, con scollo a V. Ero inginocchiata e stavo pulendo il tavolino in cristallo del salotto, quello che era sempre pieno di ditate e impronte dei bicchieri che tu e tuo padre appoggiavate sopra con noncuranza. Mi irritava vedere quegli aloni e passavo molto tempo a pulire fino a che la superficie tornava alla trasparenza perfetta. Era una mia fissa. Quasi una missione. Passavo il panno, controllavo, ripassavo lo straccio e via così per tutta la superficie. Solo alla fine riprendevo il contatto col mondo circostante. Quella volta alzai lo sguardo e ti vidi in piedi di fronte a me. Avevi lo sguardo fisso sulla mia scollatura. Istintivamente posai una mano e sentii la pelle. Coi movimenti energici era successo che la maglietta si spostasse al punto che un capezzolo era persino uscito dallo scollo. E tu lo stavi fissando incredulo. Feci finta di niente, mi ricomposi, raccolsi le pezze e andai in un'altra stanza.
Questa volta invece fui io a mostrarmi. Ti offrii la vista del mio sesso. Quel ciuffetto di peli neri racchiuso tra le cosce serrate. Lasciai passare alcuni istanti e poi allargai leggermente le gambe e le ripiegai. Adesso potevi vedere anche la parte interna, le labbra chiuse, dal colore più intenso, circondate da altri peli neri, ma meno folti. Percepii un fremito in te. Emozione? Timore? Imbarazzo. Temetti persino che saresti fuggito. Quello che vedevi ti attraeva troppo per rinunciarvi. Le cicale facevano da sottofondo e riuscivo persino a sentire il tuo respiro farsi più pesante. Immaginai che il cuore avesse preso a pomparti all'impazzata in quel giovane petto. Era emozione e natura, perché il sangue doveva affluire al tuo inguine, fortemente sollecitato. Portai una mano in mezzo alle gambe, a voler celare il pube al tuo sguardo. Solo per un istante. In realtà volevo che mi vedessi ancor di più. Con due dita discostai le piccole labbra per esporre il mio fiore di carne.
«Vieni», ti dissi.
Fui io a vincere le tue reticenze. Ti abbassai i pantaloni e liberai il sesso turgido dalla stoffa. Per la prima volta ti avevo tra le mie mani come uomo. Carne pulsante di giovanile desiderio. Sentivo un vago tremore attraversarti il corpo. Volevo evitare che la troppa emozione ti giocasse un tiro mancino portandoti precocemente alla conclusione. Le tue labbra si mossero in un sussurro che non riuscii a percepire. Chissà se ricordi quella frase che io non ho mai sentito. Mi piacerebbe ora che tu mi svelassi questo mistero. Ma è troppo tardi.

Da quanto tempo sapevo che mi desideravi? E quando ho cominciato a desiderare io? Le domande che mi hanno accompagnato in questi anni sono state infinite. Ad alcune sono riuscita a dare risposte, ad altre no. Congetture, supposizioni, fantasie. Ho passato lunghe notti nel buio della camera da letto, accanto a tuo padre che russava, sprofondato in un sonno privo di preoccupazioni, o almeno di questo genere di preoccupazioni. Nel profondo della notte lasciavo che gli occhi si abituassero all'oscurità e cercavo gli oggetti della stanza, per essere certa di dove mi trovassi, per aggrapparmi alla realtà materiale. Finita questa mappa mentale, fissavo lo sguardo al soffitto e anche le poche ombre svanivano. Cominciavo un percorso a ritroso. Tornavo a te, a quel figlio col quale avevo vissuto un'esperienza che andava ben oltre i limiti naturali e sociali. Ogni volta mi focalizzavo su un momento preciso, lo rivivevo e lo analizzavo attimo per attimo. Atteggiamento critico, per lo più, ma anche autoaccusa, o difesa, o rivendicazione orgogliosa di una decisione. In alcuni casi – lo ammetto, assai più di rado – mi abbandonavo alla piacevolezza del ricordo dei momenti più particolari ed emozionanti.
E tu? Hai mai fatto qualcosa di analogo? Quanto ci hai pensato? E in che modo? Se ne avessimo parlato qualche volta, in questi anni, ora forse lo saprei. La decisione di non affrontare mai più l'argomento è stata sbagliata. Abbiamo messo la testa sotto la sabbia.
scritto il
2024-09-02
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