Triangolo estivo tra madre e figlia - capitolo 1

di
genere
etero

Lavorare come animatore in un campo estivo poteva essere tanto stimolante quanto estenuante, ma il luogo in cui passavo le mie giornate rendeva tutto più piacevole. Il circolo privato dove eravamo impiegati si estendeva su un vasto spazio verde, con campi sportivi, piscine e un’area giochi che si riempiva ogni giorno di bambini scalmanati e adolescenti con poca voglia di seguire le attività. Le giornate erano lunghe e il sole batteva forte, ma l’ambiente era vivo, pieno di energia, risate e—quando possibile—piccoli momenti di pausa sotto l’ombra di qualche albero.
A gestire il tutto c’era María Camila, la nostra responsabile.
Era una donna impossibile da ignorare. Non solo perché aveva il compito di organizzare le attività e assicurarsi che tutto filasse liscio, ma perché la sua sola presenza riempiva l’ambiente, attirando sguardi e attenzioni senza il minimo sforzo. Aveva quell’eleganza innata, una sicurezza che la rendeva magnetica, il tipo di donna che sapeva perfettamente come farsi rispettare senza mai perdere un briciolo di sensualità.
María Camila aveva da poco superato i quarant’anni, ma il tempo sembrava aver giocato a suo favore, scolpendo il suo corpo in una forma perfetta. Era piuttosto alta, con una pelle calda e liscia, e un viso affilato dai tratti intensi: grandi occhi castano scuro che brillavano di astuzia e malizia, un naso piccolo e sottile che si armonizzava perfettamente con le sue labbra lunghe, leggermente carnose, sempre pronte a incurvarsi in un sorriso enigmatico. I suoi capelli erano un richiamo alla sua origine colombiana: un castano chiaro illuminato da ciocche bionde naturali, ricci e voluminosi, che scendevano poco più giù delle spalle, incorniciando il suo volto con una bellezza selvaggia e raffinata al tempo stesso.
Ma era il suo corpo a lasciare il segno. Portava sempre abiti leggeri, freschi, adatti al caldo estivo, e ogni movimento sottolineava la perfezione delle sue forme. Il suo ventre era piatto e scolpito, come se il tempo non avesse mai osato sfiorarlo, il seno abbondante e sodo, reso ancora più provocante dalla naturalezza con cui lo portava. Le sue cosce erano semplicemente da urlo: tornite, sensuali, capaci di catturare lo sguardo di chiunque le incrociasse. E poi c’era il suo fondoschiena—alto, perfetto, il tipo di curva che un vestito aderente poteva trasformare in un capolavoro.
Io e María Camila avevamo sempre avuto un buon rapporto. Fin dai primi giorni, mi aveva trattato con riguardo, riconoscendo il mio impegno e facendomi sentire tra i suoi preferiti. Non era solo questione di lavoro: c’era un’intesa naturale tra noi, fatta di battute, sguardi complici e quella sottile sensazione di affinità che rendeva il tempo trascorso insieme incredibilmente piacevole.
Eppure, anche se fino a quel momento tutto era rimasto nei limiti della professionalità, non potevo negare che ci fosse qualcosa di più nell’aria. Un gioco sottile, non del tutto definito, ma presente.
Forse era solo una mia impressione. O forse, semplicemente, era solo l’inizio.

L’inizio del campo estivo era sempre la parte più leggera, quando l’adrenalina dei primi giorni ancora nascondeva la fatica e il caos era visto come una sfida divertente piuttosto che una prova di resistenza. Ma con il passare del tempo, le giornate diventavano sempre più pesanti. Il sole sembrava bruciare più forte, i bambini erano sempre più scatenati e ogni minuto in piedi si faceva sentire nelle gambe.
Eppure, c’era qualcosa che mi legava a quella routine estenuante. Il mio gruppo di bambini, una piccola banda di pesti che avevo imparato a gestire alla perfezione insieme a un mio collega. Era un buon ragazzo, bravo con loro, ma dopo quattro giorni di corse, urla e richieste incessanti, si arrese. Il quinto giorno non si presentò, e l’agenzia fu costretta a mandarmi un sostituto temporaneo.
Fu così che conobbi Isabella.
Appena la vidi, ebbi un’intuizione immediata. Il suo incarnato leggermente più scuro rispetto a María Camila, i suoi occhi enormi e di quello stesso castano scuro profondo, e la sua origine colombiana mi fecero pensare che fosse sua figlia. In fondo, sapevo che lavorava per la nostra agenzia, ma non l’avevo mai vista prima.
Isabella era una ragazza bassina, con un viso incredibilmente dolce e liscio, che trasmetteva un’innocenza disarmante. I suoi occhi erano una versione più giovane e ingenua di quelli della madre: grandi, scuri, ipnotici, sempre curiosi, sempre attenti. I capelli neri, lunghi e ondulati, erano sempre raccolti in una coda, con qualche ciocca ribelle che scivolava lungo il viso, aggiungendo un dettaglio involontariamente sensuale alla sua immagine. Il suo naso era piccolo e perfettamente proporzionato, aggraziato in un modo che lo rendeva quasi affascinante da osservare.
Portava sempre un paio di occhiali sottili, che non facevano altro che accentuare il suo sguardo da ragazza studiosa, quasi fragile, ma con un magnetismo silenzioso. Le sue labbra erano carnose, ma più corte rispetto a quelle della madre, e il contrasto tra la loro pienezza e il viso appuntito, con quelle guance apparentemente morbide, era qualcosa che ti faceva impazzire. Era il tipo di ragazza che, pur non essendo sfacciatamente provocante, esercitava un fascino tutto suo, nascosto nei dettagli.
Fisicamente, era piuttosto magra, con un corpo snello ma con le curve al posto giusto. Il seno non era abbondante, ma piccolo e sodo, perfettamente in armonia con il suo fisico. Le cosce, invece, erano una sorpresa: tornite e incredibilmente belle, con una tonicità che non ti saresti aspettato a prima vista. E il fondoschiena? Perfetto. Sodo, rotondo, il tipo di dettaglio che attirava l’attenzione anche senza volerlo.
Inizialmente andammo d’accordo, anche se mantenni il mio solito atteggiamento severo con chiunque si relazionasse ai miei bambini. Non mi piacevano gli animatori che si facevano prendere dal panico o che cercavano di cavarsela con leggerezza, ma Isabella sapeva il fatto suo. Era attenta, mi ascoltava, si adattava ai miei ritmi senza fare storie. In poco tempo, la mia rigidità iniziale si sciolse e mi accorsi che lavorare con lei era sorprendentemente piacevole.
Le pause erano i momenti migliori. Tra un’attività e l’altra, finivamo per scherzare, per prenderci in giro, per chiacchierare del più e del meno. Spesso ci trovavamo a fumare insieme, scambiandoci sguardi complici mentre l’odore del tabacco si mescolava al calore dell’estate.
Isabella non passava inosservata. Era ambita da molti altri animatori, lo sapevo bene. Eppure, nonostante le attenzioni che riceveva, sembrava preferire la mia compagnia. E questo, in qualche modo, rendeva tutto ancora più intrigante.

La giornata era finalmente finita. Dopo ore di corse sotto il sole, urla di bambini e giochi infiniti, il campo estivo si svuotava lentamente, lasciandoci con la stanchezza addosso e la pelle ancora calda per il sole. Stavo sistemando le ultime cose, cercando di riprendermi dalla giornata, quando Isabella si avvicinò con il suo solito passo leggero.
«Ehi, sopravvissuto?» mi chiese con un sorriso, togliendosi gli occhiali per massaggiarsi l’attaccatura del naso.
Mi appoggiai al tavolo e le rivolsi uno sguardo esausto. «A malapena. I tuoi occhiali stanno per esplodere o reggono ancora?»
Rise piano, con quella risata delicata che mi piaceva ascoltare. «Reggono, reggono. Ma i tuoi nervi invece?»
Sorrisi. «Stranamente meglio di quanto pensassi. Sei brava, sai? Ti sei integrata subito, i bambini ti adorano.»
Si strinse nelle spalle, un gesto spontaneo che la fece sembrare ancora più piccola. «Mi piacciono. E poi tu sei stato un buon capo.»
Alzai un sopracciglio, divertito. «Capo? Suona male, non trovi?»
«Sì, forse un po’ troppo autoritario.» Mi guardò con malizia. «Diciamo che sei stato un buon collega, allora.»
Annuii. «Meglio. Almeno non sembro un dittatore.»
Ridacchiò, poi abbassò lo sguardo per un attimo, giocherellando con l’elastico della sua coda. «Comunque, mi è piaciuto stare qui oggi.»
«Anche a me.»
Ci fu una pausa breve ma intensa, uno di quei silenzi che non mettono a disagio, anzi, sembrano dare più significato alle parole non dette.
«E dimmi,» riprese lei, con un tono più leggero, «tu come te la cavi con l’amore?»
Inclinai la testa. «Domanda difficile, dipende cosa intendi per “cavarmela”.»
«Non so, hai qualcuno?»
Sorrisi. «No, sono libero. E tu?»
Scosse la testa, abbassando lo sguardo un istante prima di tornare su di me. «No, single anch’io.»
«Davvero? Credevo avessi la fila dietro.»
Si mise a ridere, arrossendo leggermente. «Oh, fidati, non è così.»
«Difficile crederlo.»
Mi guardò per un attimo, mordendosi il labbro in un gesto distratto, poi scosse la testa con un sorriso. «E tu? Non hai una fila di ragazze pronte a conquistarti?»
Feci spallucce. «Diciamo che non mi lamento. Ma non ho trovato nessuna che mi abbia fatto fermare, ecco.»
Lei annuì, poi sospirò. «Peccato che oggi fosse il mio ultimo giorno.»
La frase mi colpì più di quanto avrei ammesso. Certo, sapevo che la sua era solo una sostituzione, ma non avevo realizzato che il tempo fosse già scaduto.
«Te ne vai già?»
«Eh sì…» alzò gli occhi al cielo. «Domani entra il nuovo animatore e io torno alla mia vita di sempre.»
Non risposi subito. Stranamente, l’idea di non rivederla più mi lasciava un senso di vuoto che non mi aspettavo.
«A che ora hai il treno?» chiesi dopo un attimo.
«Tra poco, devo solo arrivare in stazione.»
«Ti accompagno.»
Mi guardò sorpresa. «Davvero?»
«Certo. Non posso lasciarti andare così, no?»
Sorrise, con quel sorriso piccolo e sincero che ormai mi ero abituato a vedere durante la giornata.
Uscimmo insieme dal campo estivo, camminando fianco a fianco mentre il sole iniziava a calare, lasciando nell’aria un tepore piacevole. Parlammo di tutto e di niente, scherzammo ancora, e più il tempo passava, più mi rendevo conto di quanto fosse facile stare con lei. Isabella aveva un modo leggero di parlare, di raccontarsi, e il tempo con lei sembrava scorrere senza che me ne accorgessi.
Quando arrivammo in stazione, il tabellone segnava l’orario del suo treno in arrivo.
«Beh… eccoci qui.» Si voltò verso di me, un po’ incerta, giocherellando con la tracolla della borsa.
«Già.» La guardai un attimo, quasi con rammarico. «È stato bello lavorare con te, Isabella.»
Lei abbassò lo sguardo un secondo, poi lo riportò su di me, con un piccolo sorriso. «Anche per me.»
Il treno arrivò, le porte si aprirono, e lei fece un passo indietro.
«Ci rivedremo?» chiesi, senza nemmeno rendermene conto.
Lei esitò per un attimo, poi sorrise di nuovo. «Chissà, magari verrò a trovarvi, sono solo 10 minuti di treno.»
E con quell’incertezza lasciata nell’aria, salì sul treno e sparì tra le porte che si chiudevano.
La guardai allontanarsi, mentre il rumore del convoglio si faceva più lontano. E solo in quel momento realizzai che quella giornata, in qualche modo, mi aveva lasciato qualcosa in più del semplice lavoro.

L’inizio del campo estivo era sempre la parte più leggera, quando l’adrenalina dei primi giorni ancora nascondeva la fatica e il caos era visto come una sfida divertente piuttosto che una prova di resistenza. Ma con il passare del tempo, le giornate diventavano sempre più pesanti. Il sole sembrava bruciare più forte, i bambini erano sempre più scatenati e ogni minuto in piedi si faceva sentire nelle gambe.
Eppure, c’era qualcosa che mi legava a quella routine estenuante. Il mio gruppo di bambini, una piccola banda di pesti che avevo imparato a gestire alla perfezione insieme a un mio collega. Era un buon ragazzo, bravo con loro, ma dopo quattro giorni di corse, urla e richieste incessanti, si arrese. Il quinto giorno non si presentò, e l’agenzia fu costretta a mandarmi un sostituto temporaneo.
Fu così che conobbi Isabella.
Appena la vidi, ebbi un’intuizione immediata. Il suo incarnato leggermente più scuro rispetto a María Camila, i suoi occhi enormi e di quello stesso castano scuro profondo, e la sua origine colombiana mi fecero pensare che fosse sua figlia. In fondo, sapevo che lavorava per la nostra agenzia, ma non l’avevo mai vista prima.
Isabella era una ragazza bassina, con un viso incredibilmente dolce e liscio, che trasmetteva un’innocenza disarmante. I suoi occhi erano una versione più giovane e ingenua di quelli della madre: grandi, scuri, ipnotici, sempre curiosi, sempre attenti. I capelli neri, lunghi e ondulati, erano sempre raccolti in una coda, con qualche ciocca ribelle che scivolava lungo il viso, aggiungendo un dettaglio involontariamente sensuale alla sua immagine. Il suo naso era piccolo e perfettamente proporzionato, aggraziato in un modo che lo rendeva quasi affascinante da osservare.
Portava sempre un paio di occhiali sottili, che non facevano altro che accentuare il suo sguardo da ragazza studiosa, quasi fragile, ma con un magnetismo silenzioso. Le sue labbra erano carnose, ma più corte rispetto a quelle della madre, e il contrasto tra la loro pienezza e il viso appuntito, con quelle guance apparentemente morbide, era qualcosa che ti faceva impazzire. Era il tipo di ragazza che, pur non essendo sfacciatamente provocante, esercitava un fascino tutto suo, nascosto nei dettagli.
Fisicamente, era piuttosto magra, con un corpo snello ma con le curve al posto giusto. Il seno non era abbondante, ma piccolo e sodo, perfettamente in armonia con il suo fisico. Le cosce, invece, erano una sorpresa: tornite e incredibilmente belle, con una tonicità che non ti saresti aspettato a prima vista. E il fondoschiena? Perfetto. Sodo, rotondo, il tipo di dettaglio che attirava l’attenzione anche senza volerlo.
Inizialmente andammo d’accordo, anche se mantenni il mio solito atteggiamento severo con chiunque si relazionasse ai miei bambini. Non mi piacevano gli animatori che si facevano prendere dal panico o che cercavano di cavarsela con leggerezza, ma Isabella sapeva il fatto suo. Era attenta, mi ascoltava, si adattava ai miei ritmi senza fare storie. In poco tempo, la mia rigidità iniziale si sciolse e mi accorsi che lavorare con lei era sorprendentemente piacevole.
Le pause erano i momenti migliori. Tra un’attività e l’altra, finivamo per scherzare, per prenderci in giro, per chiacchierare del più e del meno. Spesso ci trovavamo a fumare insieme, scambiandoci sguardi complici mentre l’odore del tabacco si mescolava al calore dell’estate.
Isabella non passava inosservata. Era ambita da molti altri animatori, lo sapevo bene. Eppure, nonostante le attenzioni che riceveva, sembrava preferire la mia compagnia. E questo, in qualche modo, rendeva tutto ancora più intrigante.

La chiacchierata con Isabella proseguì in modo leggero, tra battute e qualche frecciatina, come ormai era abitudine tra noi. Parlava con quella sua voce dolce e delicata, ma con un sottile velo di ironia che la rendeva irresistibile.
Dopo un po’, la guardai con un sorriso. «Visto che sei arrivata fin qui, almeno potremmo andare a bere qualcosa dopo il lavoro.»
Lei mi fissò per un attimo, inclinando la testa. «Mi stai invitando a uscire?»
Alzai le spalle, facendo il vago. «Diciamo che mi sembrerebbe scortese lasciarti andare via senza nemmeno offrirti un drink.»
Isabella ridacchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Va bene, accetto.»
Un piccolo brivido di soddisfazione mi attraversò la schiena. Non avevo ancora deciso cosa pensare di lei, ma una cosa era certa: mi piaceva starle intorno.
«Allora ci vediamo dopo,» dissi, alzandomi.
«Dopo,» confermò lei, prima di incamminarsi verso l’ufficio di María Camila.
Io tornai a lavoro con una leggerezza che non provavo da giorni. Sapere che mi aspettava dopo la fine del turno rendeva tutto più sopportabile, perfino Daniele e la sua totale incapacità di gestire i bambini.
La giornata volò via senza che me ne rendessi conto, e quando finalmente arrivò l’ora di uscire, Isabella era già lì, appoggiata al muretto accanto all’ingresso del circolo. Mi vide e sorrise.
«Pensavo ci avessi ripensato.»
«Mai,» risposi, mentre le indicavo la strada.
Camminammo insieme fino a un bar vicino al mare, un posto tranquillo con una terrazza che si affacciava direttamente sulla spiaggia. Il sole stava iniziando a calare, tingendo il cielo di sfumature calde, e una brezza leggera rendeva l’aria piacevole.
«Bel posto,» commentò Isabella, guardandosi intorno.
«Ci vengo spesso,» ammisi. «Dopo giornate come questa, fa bene rilassarsi un po’.»
Lei mi osservò con un sorriso curioso. «E di solito con chi ci vieni?»
«Dipende,» risposi, lanciandole uno sguardo divertito. «Ma questa è la prima volta con una ex collega.»
Rise, scuotendo la testa. «Mi sento onorata.»
Ci sedemmo a un tavolo vicino alla ringhiera, da cui si sentiva il rumore delle onde. Il cameriere arrivò poco dopo e ordinammo due cocktail freschi.
«Allora,» dissi, mentre lei accarezzava il bordo del bicchiere con le dita. «Dimmi la verità, sei venuta oggi solo per vedere se il mio nuovo collega fosse davvero così scarso?»
Isabella rise. «In parte sì. Ma anche perché… non mi dispiaceva l’idea di rivederti.»
Lo disse con una leggerezza che mi colpì più di quanto volessi ammettere. In quell’istante, con il vento che le muoveva qualche ciocca sfuggita dalla coda e il riflesso del tramonto nei suoi grandi occhi scuri, Isabella sembrava ancora più bella.
«Nemmeno a me,» ammisi.
Un silenzio cadde tra noi, ma non era scomodo. Solo carico di qualcosa di indefinito, qualcosa che non avevo ancora del tutto compreso.
Sorrise di nuovo, portando il bicchiere alle labbra. «Allora, raccontami di te. Voglio sapere com’era la tua vita prima di questo campo estivo.»
E così iniziammo a parlare, mentre il sole calava piano sul mare.

Continuammo a chiacchierare, scivolando da un argomento all’altro con la naturalezza di chi si conosce da sempre, anche se in realtà erano passati solo pochi giorni. Scoprimmo di avere passioni molto diverse: io amavo i fumetti, i supereroi e le storie intricate, mentre lei aveva un debole per la fotografia, per i dettagli nascosti che solo un occhio attento sapeva cogliere.
«Quindi ti piace rubare attimi alla vita?» le chiesi, portando la bottiglia di birra alle labbra.
Isabella sorrise, mescolando il ghiaccio nel suo tè freddo con la cannuccia. «Mi piace conservarli. Fermerli, imprigionarli in un’immagine.»
«Un po’ inquietante, detta così.»
Rise. «Forse. Ma è l’unico modo per non lasciar sfuggire le cose belle.»
La guardai per un attimo. Con il tramonto che le rifletteva negli occhiali e il viso morbido incorniciato da qualche ciocca ribelle, sembrava lei stessa un quadro da immortalare.
Bevvi un altro sorso di birra, cercando di ignorare il pensiero.
Dopo un po’, pagammo e uscimmo dal bar, spingendoci fino alla riva. La sabbia sotto i piedi era ancora tiepida, il vento sapeva di sale e libertà.
«Vieni,» disse lei, indicando gli scogli poco distanti.
Esitai per un attimo. «Se finiamo in mare, voglio che sia chiaro che è colpa tua.»
«Smettila di lamentarti e vieni,» mi rispose, già avanti di qualche passo.
La seguii, arrampicandomi con attenzione sulle rocce lisce, fino a trovare un punto comodo dove sederci. Davanti a noi, il sole si abbassava lento sull’orizzonte, incendiando il cielo di rosso e arancione.
Rimanemmo in silenzio per un attimo, entrambi assorti nella bellezza del momento. Poi Isabella prese il telefono e inquadrò il paesaggio.
«Stai per rubare un altro attimo?» le chiesi.
Lei scattò una foto, poi abbassò il telefono e mi guardò con un sorriso furbo. «L’ho già fatto.»
La sua voce aveva un tono particolare, come se volesse dirmi qualcosa senza dirlo apertamente.
Inclinai la testa. «L’hai fatta al tramonto o a me?»
Non rispose subito. Si limitò a sorridere, tornando a guardare il mare.
E in quel momento, seduto accanto a lei con il vento che ci accarezzava la pelle, mi resi conto che qualcosa in me stava cambiando.

Il vento portava il profumo salmastro del mare, mescolandosi al calore dei nostri corpi vicini. Il cielo si era tinto di blu profondo, le ultime sfumature del tramonto morivano all’orizzonte, lasciando spazio alle prime stelle.
I nostri sguardi si incrociarono, più a lungo stavolta. I suoi grandi occhi castani riflettevano la luna che iniziava a sorgere, mentre io sentivo un brivido corrermi lungo la schiena. Un silenzio carico di tensione si insinuò tra noi, un’energia palpabile, elettrica.
Fu lei la prima ad accorciare le distanze.
Il suo respiro si mescolò al mio, le nostre labbra si sfiorarono per un istante infinito, prima che il desiderio ci travolgesse. Il bacio scoppiò con forza, intenso, bagnato, ricco di saliva e voglia trattenuta. Le nostre bocche si muovevano con urgenza, come se aspettassimo quel momento da una vita intera.
La sua lingua cercò la mia, le nostre teste si inclinavano per non spezzare quel contatto febbrile. La mia mano scivolò lungo il suo fianco, risalendo fino al suo seno piccolo ma sodo, stringendolo con delicatezza attraverso il tessuto della maglietta. Lei emise un gemito soffocato contro le mie labbra, il suono più eccitante che avessi mai sentito.
L’altra mia mano le afferrò la nuca, tenendola salda, impedendole di posare la testa sugli scogli ruvidi. Le sue dita si aggrapparono al mio braccio, mentre il suo corpo si avvicinava sempre di più al mio, incastrandosi perfettamente contro di me.
Il tempo si dilatò. Non c’erano più il campo estivo, gli altri animatori, sua madre. Solo noi due, immersi in quella notte calda, nel sapore della nostra voglia e nel rumore lontano delle onde che si infrangevano sulla riva.

Mi fermai un istante, lasciando che il bacio si spezzasse solo per guardarli meglio, quei suoi occhi grandi e scuri, velati dal desiderio e da qualcosa di più profondo. Il respiro le si era fatto irregolare, le labbra erano umide, leggermente arrossate dal nostro baciarsi incessante.
La mia mano, che fino a quel momento aveva accarezzato il suo seno, iniziò a scendere, scivolando lungo il suo ventre piatto fino ai suoi pantaloncini. Quando le mie dita si insinuarono tra le sue cosce, lei tremò leggermente e mi fermò con una mano sulla mia.
«Io…» mormorò, mordendosi il labbro inferiore. «Non ho mai fatto nulla.»
Mi immobilizzai, lasciando che fosse lei a prendere il controllo di quel momento.
«Va bene,» sussurrai, accarezzandole la guancia con dolcezza. «Non c’è nessuna fretta. Facciamo tutto con calma, come vuoi tu.»
Isabella mi guardò con occhi incerti, ma non c’era paura nel suo sguardo, solo un misto di emozione e desiderio. Inspirò profondamente e, senza dire una parola, mi prese la mano che aveva fermato poco prima e la guidò di nuovo tra le sue cosce.
«Solo… piano,» aggiunse con un filo di voce.
Le sue parole furono come benzina sul fuoco. La mia mano si insinuò sotto l’elastico delle sue mutandine, trovandola già umida, calda. Il mio dito sfiorò con leggerezza il suo centro, e lei inarcò leggermente la schiena, mordendosi un gemito sulle labbra.
Continuai a sfiorarla con delicatezza, seguendo il ritmo del suo respiro, che si faceva sempre più spezzato. I suoi occhi si chiusero, la testa si abbandonò leggermente all’indietro. La sentivo stringersi attorno alle mie dita mentre il suo corpo rispondeva a ogni mio tocco.
Le onde del mare coprivano i suoi gemiti trattenuti, che ogni tanto si scioglievano in piccoli sospiri più intensi. Il vento caldo della notte le scompigliava qualche ciocca di capelli sfuggita dalla coda, mentre il suo corpo si muoveva delicatamente contro la mia mano, cercando un piacere ancora nuovo per lei.
Ero completamente incantato da lei, dalla sua bellezza pura e sensuale, dal modo in cui si stava affidando a me. Quella notte, sugli scogli, con il sapore salmastro sulle labbra e il suono del mare a fare da colonna sonora, fu l’inizio di qualcosa che nessuno di noi poteva ancora immaginare.

Isabella cercava di soffocare i gemiti mordendosi il labbro, le mani aggrappate alla mia maglietta, le unghie che premevano leggermente sulla mia pelle. La mia mano si muoveva lenta ma decisa dentro le sue mutandine, accarezzandola, esplorandola, fino a trovarla completamente bagnata. I suoi fianchi iniziarono a muoversi istintivamente contro il mio tocco, cercando più pressione, più piacere.
«Ti piace?» le sussurrai all’orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra.
Lei annuì in fretta, gli occhi chiusi, il respiro spezzato. Il suo corpo tremava leggermente sotto di me, le gambe si stavano facendo più deboli, e allora la strinsi meglio con l’altro braccio, tenendola salda mentre aumentavo appena il ritmo.
Un suono strozzato le sfuggì dalle labbra.
«Shh…» la ammonii dolcemente, con un sorrisetto, mentre il mare copriva il suo respiro affannato.
Le onde si infrangevano sugli scogli, e con esse il piacere dentro di lei cresceva sempre di più, la sua pelle ora umida di eccitazione e del calore della notte. I suoi fianchi si irrigidirono all’improvviso, le sue dita strinsero più forte il tessuto della mia maglietta, la sua bocca si aprì in un gemito silenzioso. Sentii il suo corpo contrarsi, scosso da un’ondata di piacere che la attraversò come un brivido, e la sua fronte si posò sul mio petto mentre il suo respiro si fece ancora più irregolare.
Rimase così per qualche istante, abbandonata contro di me, il petto che si sollevava e abbassava rapidamente, gli occhi chiusi, le guance accese di un rossore ancora più intenso.
La strinsi a me, accarezzandole i capelli, lasciandole tutto il tempo di riprendersi. Lei sorrise contro il mio petto, un sorriso dolce e rilassato, prima di sollevare lo sguardo su di me, gli occhi lucidi di emozione.
«Wow…» sussurrò, quasi incredula.
Le baciai la fronte, tenendola ancora stretta.
Rimanemmo lì per un po’, godendoci il momento, lasciando che il vento tiepido della sera ci accarezzasse la pelle. Poi, con calma, la aiutai a rimettersi in ordine, sistemando i suoi capelli scompigliati e lasciandole il tempo di ritrovare la calma.
«Ti accompagno a casa io,» le dissi, quando ci alzammo dagli scogli.
Lei mi guardò sorpresa. «Non devi, posso prendere il treno…»
«Non se ne parla.»
Le sorrisi, e lei ricambiò con dolcezza.
Salimmo in macchina e partimmo, il tragitto fu tranquillo, con la musica della radio che riempiva il silenzio confortevole tra noi. Ogni tanto la sbirciavo di lato, e la vedevo con un piccolo sorriso sulle labbra, come se stesse ancora assaporando la serata.
Arrivati sotto casa sua, spense la cintura e si girò verso di me. «Grazie per tutto,» mormorò, con un’ombra di timidezza negli occhi.
«Grazie a te.»
Si avvicinò, posando un bacio leggero sulle mie labbra, un ultimo assaggio prima di scendere. La guardai mentre entrava nel portone, poi rimasi lì per qualche secondo, ripensando a tutto.
Era stata una bella serata, e dentro di me sapevo che non sarebbe finita lì. Volevo rivederla, volevo capire dove ci avrebbe portato tutto questo. E, soprattutto, volevo sentire di nuovo il sapore di quelle labbra.

La mattina seguente arrivai al campo estivo con una sensazione nuova addosso. La sera con Isabella mi aveva lasciato un gusto dolce sulle labbra, un pensiero leggero che mi accompagnava mentre sistemavo le ultime cose prima che i bambini arrivassero.
María era già lì, come sempre impeccabile. Jeans aderenti che modellavano perfettamente le sue curve e una camicetta bianca leggermente sbottonata sul seno, lasciando intravedere appena l’incavo caldo della scollatura. Mi lanciò uno sguardo attento, come se mi stesse analizzando.
«Mira, chico...» disse con quel suo accento che rendeva ogni parola più sensuale del dovuto. «Hai un’aria diversa stamattina. Notte interessante?»
Sorrisi, stringendo le spalle con noncuranza. «Diciamo che ho dormito bene.»
Lei alzò un sopracciglio, divertita. «Bene, eh? Allora dovresti dormire così tutte le notti, perché stamattina sembri... più rilassato.»
María aveva un modo particolare di parlarmi, sempre velatamente provocante, ma con un tono che poteva anche sembrare del tutto innocente. Mi piaceva.
A metà mattina, mentre il caldo iniziava a farsi insopportabile, María mi chiamò nel suo ufficio. «Vieni, devo parlarti un attimo.»
Entrai e chiuse la porta dietro di sé. L’ufficio non era grande, e l’aria condizionata rendeva l’ambiente più fresco rispetto all’esterno. Si appoggiò al bordo della scrivania, incrociando le braccia. Il tessuto della camicetta tirava leggermente, sottolineando il seno pieno.
«Volevo solo dirti che stai facendo un ottimo lavoro.» incrociò le gambe, facendo scorrere una mano sulla coscia, come per sistemarsi meglio. «Sai gestire i bambini meglio di tanti altri che lavorano qui da anni.»
Mi feci appena più vicino, appoggiandomi allo stipite della porta. «Apprezzo che lo noti.»
María mi scrutò con un mezzo sorriso, poi allungò una mano verso di me. «Hai la maglietta tutta stropicciata.»
Sentii le sue dita sfiorarmi il petto mentre sistemava il tessuto con un gesto lento. Avrebbe potuto farlo in un attimo, ma si prese il suo tempo, facendo scivolare le mani lungo i lati della mia maglietta, quasi come una carezza.
I nostri occhi si incontrarono, e per un momento l’aria si caricò di qualcosa di diverso. Lei non si ritrasse subito, lasciò che quel contatto durasse un secondo in più del necessario.
Poi si scostò con un sorriso appena accennato. «Ora sì che sembri a posto.»
Sapeva esattamente cosa stava facendo. E io cominciavo a chiedermi dove volesse arrivare.

Il resto della giornata scivolò via in una strana tensione. Ogni volta che incrociavo María, mi sembrava di percepire qualcosa di sottile ma innegabile, un’energia che non avevo mai considerato prima.
Ero sempre stato consapevole della sua bellezza: María aveva una sensualità matura, sicura, il tipo di fascino che non aveva bisogno di gesti eclatanti per farsi notare. Eppure, oggi, la sentivo addosso come un profumo persistente, come un calore sotto la pelle.
Mentre giocavo con i bambini, mentre organizzavo le attività, mentre pranzavo con gli altri animatori, la sua immagine mi tornava in mente. Il modo in cui le sue dita avevano sfiorato la mia maglietta, il suo sguardo vagamente divertito mentre mi analizzava, il modo in cui si sedeva sulla scrivania accavallando lentamente le gambe. C’era qualcosa di profondamente provocante nel modo in cui si muoveva, nel modo in cui mi parlava.
E il pensiero mi eccitava.
Non era solo attrazione fisica, anche se quella c’era, eccome. Era il gioco sottile, la sensazione che María stesse consapevolmente testando il terreno, sfidandomi senza mai oltrepassare il limite. Sapevo che non era solo la mia immaginazione a lavorare: c’era qualcosa nei suoi occhi, nel suo tono di voce, nei piccoli tocchi apparentemente innocenti.
Quando la giornata finì e il sole iniziò a calare, rimasi qualche minuto in più rispetto agli altri, raccogliendo le mie cose con calma. María era ancora nel suo ufficio, la porta socchiusa. Sentivo il suono lieve della sua voce mentre parlava al telefono, un tono basso e morbido che mi fece rabbrividire.
Presi fiato, scuotendo la testa con un sorriso quasi incredulo.
Prima Isabella. Ora María.
Era possibile che si stesse creando qualcosa anche con lei? O forse era solo la mia mente, ancora accesa dal contatto della notte precedente, che stava cercando di vedere segnali dove non c’erano?
Ma il mio corpo non mentiva.
L’idea di María che giocava con me, che mi provocava con gesti appena accennati, che mi guardava con quegli occhi scuri e profondi, mi lasciava addosso una tensione difficile da ignorare.
Mentre salivo in macchina e mi allontanavo dal campo, con le finestre abbassate e l’aria calda della sera che mi accarezzava la pelle, sapevo solo una cosa: qualsiasi cosa stesse succedendo, non mi dispiaceva affatto.
scritto il
2025-02-18
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