Soccorso stradale
di
fabrizio
genere
saffico
Metto la freccia, scalando la marcia esco dalla rotonda e imbocco la rampa per il raccordo autostradale. La brusca staccata mi strappa una smorfia, normalmente guido più morbida ma i tacchi alti mi penalizzano nella sensibilità sui pedali.
Però oggi è il Giorno e nulla, neppure una brusca staccata, mi può impedire di essere vestita da strafiga.
Ridacchio fra me e me; anni ad inventare scuse con lui che mi voleva vedere agghindata così per esibirmi agli amici come un bel trofeo di caccia, ed ora le autoreggenti spuntano dalla minigonna per una persona che non mi vedrà mai…
Percorro i pochi chilometri che ancora mancano con un occhio alla strada ed uno all’orologio digitale, finalmente arrivo e mi fermo nella piazzola.
Un genio, veramente un genio; non so come definire diversamente l’ingegnere stradale che ha progettato questo spiazzo, dove la sommità di una salitella curva sulla sinistra. Possibilità che qualcuno si fermi qui: zero. Non le macchine che sfrecciano veloci verso la città facendo vibrare la mia autovettura, non qualche autoarticolato che rombando si inerpica e poi scollina, non qualche trattore che pigramente si dirige verso l’aratura quotidiana. Solo Claudia, cioè io, che di questa piazzola ho fatto il suo nido d’amore.
Il tempo di reclinare leggermente lo schienale, di accendermi una sigaretta e un attimo dopo l’orologio scatta alle 8,15.
Il telefono suona.
Aspetto tre squilli e accetto la chiamata.
Dagli altoparlanti esce la sua voce.
Ciao Claudia. Da ora le tue mani sono le mie. Togliti le mutandine per me…
Dopo un’ultima sera con lui che russa dopo essersi svuotato dentro di me, affamata di tenerezza, di emozioni, di mani che non predassero ma accarezzassero le mie curve e la mia anima, ero entrata in chat e avevo conosciuto lei. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di fare l’amore con una donna, e anche solo lo scriverlo mi fa ancora imbarazzo, eppure in quell’oretta di chiacchiere anonime avevo sentito che la mia disperazione era stata accolta, consolata, e sul finire perfino un po’ corteggiata. Poi l’indomani notte, e quella dopo e quella dopo ancora.
Lei aveva capito che non ero pronta per una storia reale, eppure il desiderio ci spingeva irresistibile l’una incontro all’altra; cosi me lo aveva proposto e io, incredibilmente, avevo accettato. Due giorni la settimana, il martedì e il giovedi, alle 8,15 del mattino, lei sarebbe stata al telefono per me; avrebbe aspettato tre squilli, non di meno, non di più. Se non avessi risposto, pazienza; se avessi risposto, avremmo fatto l’amore. Null’altro, né chiamate, né messaggi, solo quella mezz’ora nella quale lei sarebbe stata per me ed io per lei. Semplice, libere.
La prima volta non avevo avuto coraggio di rispondere.
La seconda, lei si accorse che stavo fingendo di fare ciò che mi stava chiedendo.
Pensavo si fosse offesa, o arrabbiata, o sentita presa in giro, invece alle 8,15 dell’appuntamento successivo il telefono era squillato, le mie mani erano diventate le sue, e mi ero fatta guidare dalla sua voce nel farmi fare l’amore.
Chiamata dopo chiamata, mentre il respiro appannava i vetri nella piazzola, mi insegnava a trarre piacere da ogni parte del mio corpo: le labbra e la bocca; i seni ed i capezzoli; il sesso e la clitoride. Imparai perfino a trarre piacere dal buco più osceno che avevo sempre evitato e che ora, invece, desideravo ardentemente mi chiedesse di usare per il nostro godimento.
Dopo il mio piacere, lei reclamava il suo; ed io, anonima nella linea telefonica ed ogni volta più spregiudicata, le accompagnavo guidandola al suo orgasmo, che nel ricevitore arrivava improvviso e brutale.
Così, due volte alla settimana, la mattina mi preparavo per l’amplesso telefonico con la mia amante vocale: mi acconciavo, mi truccavo, depilavo, ed indossavo ciò ritenevo potesse essere più eccitante per lei. Dopo l’amore staccavo la telefonata, riaccendevo la macchina e andavo al lavoro; e dopo pochi appuntamenti ormai tutta la mia vita trascorreva in quella latente eccitazione dell’attesa della prossima mezz’ora d’amore con lei.
Riaccendevo, perchè oggi la macchina proprio non ne vuole sapere di ripartire; allora scendo, apro il cofano e provo a muovere cavi a caso sperando di azzeccare quello giusto; ma nulla, nessun segno di vita da quell’ammasso di ferraglia.
Risalgo in macchina, chiamo il soccorso stradale - attesa di una ventina di minuti, mi dice l’operatrice - e avverto al lavoro del problema, facendomi passare una collega a cui passare le consegne per la mattinata.
Sto ancora cercando sull’agenda i recapiti dei clienti da avvertire, quando il carro-ponte dell’assistenza mi supera e posteggia; con la coda dell’occhio vedo una figura imbacuccata nella tuta fosforescente scendere dall’autocarro, prendere la valigetta degli attrezzi e scomparire dietro il cofano ancora alzato.
Saluto la collega e mi preparo al prevedibile sfottò del meccanico sulle donne, e il vestito attillato e i tacchi alti lasciano poco spazio ai dubbi sulla mia femminilità, che restano in panne per non aver fatto rifornimento di benzina.
Invece al di sopra del cofano spunta un berrettino con la visiera che non riesce a trattenere una cascata di riccioli biondi, che a loro volta incorniciano due meravigliosi occhi celesti. Dalla bocca morbida, quella voce mi sussurra: ciao Claudia, da ora le tue mani sono le mie…
Resto senza fiato. Lei… lei?!?
Mi mette in mano una chiave inglese, mi guida nelle viscere del motore, e mentre con l’attrezzo tengo ferma la ghiera di un manicotto, lei, con le sue mani, svita un raccordo, lo pulisce e lo riavvita in sede.
Richiude il cofano e mi fa cenno di girare la chiave d’avviamento.
Il motore riparte.
Io, no.
Però oggi è il Giorno e nulla, neppure una brusca staccata, mi può impedire di essere vestita da strafiga.
Ridacchio fra me e me; anni ad inventare scuse con lui che mi voleva vedere agghindata così per esibirmi agli amici come un bel trofeo di caccia, ed ora le autoreggenti spuntano dalla minigonna per una persona che non mi vedrà mai…
Percorro i pochi chilometri che ancora mancano con un occhio alla strada ed uno all’orologio digitale, finalmente arrivo e mi fermo nella piazzola.
Un genio, veramente un genio; non so come definire diversamente l’ingegnere stradale che ha progettato questo spiazzo, dove la sommità di una salitella curva sulla sinistra. Possibilità che qualcuno si fermi qui: zero. Non le macchine che sfrecciano veloci verso la città facendo vibrare la mia autovettura, non qualche autoarticolato che rombando si inerpica e poi scollina, non qualche trattore che pigramente si dirige verso l’aratura quotidiana. Solo Claudia, cioè io, che di questa piazzola ho fatto il suo nido d’amore.
Il tempo di reclinare leggermente lo schienale, di accendermi una sigaretta e un attimo dopo l’orologio scatta alle 8,15.
Il telefono suona.
Aspetto tre squilli e accetto la chiamata.
Dagli altoparlanti esce la sua voce.
Ciao Claudia. Da ora le tue mani sono le mie. Togliti le mutandine per me…
Dopo un’ultima sera con lui che russa dopo essersi svuotato dentro di me, affamata di tenerezza, di emozioni, di mani che non predassero ma accarezzassero le mie curve e la mia anima, ero entrata in chat e avevo conosciuto lei. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di fare l’amore con una donna, e anche solo lo scriverlo mi fa ancora imbarazzo, eppure in quell’oretta di chiacchiere anonime avevo sentito che la mia disperazione era stata accolta, consolata, e sul finire perfino un po’ corteggiata. Poi l’indomani notte, e quella dopo e quella dopo ancora.
Lei aveva capito che non ero pronta per una storia reale, eppure il desiderio ci spingeva irresistibile l’una incontro all’altra; cosi me lo aveva proposto e io, incredibilmente, avevo accettato. Due giorni la settimana, il martedì e il giovedi, alle 8,15 del mattino, lei sarebbe stata al telefono per me; avrebbe aspettato tre squilli, non di meno, non di più. Se non avessi risposto, pazienza; se avessi risposto, avremmo fatto l’amore. Null’altro, né chiamate, né messaggi, solo quella mezz’ora nella quale lei sarebbe stata per me ed io per lei. Semplice, libere.
La prima volta non avevo avuto coraggio di rispondere.
La seconda, lei si accorse che stavo fingendo di fare ciò che mi stava chiedendo.
Pensavo si fosse offesa, o arrabbiata, o sentita presa in giro, invece alle 8,15 dell’appuntamento successivo il telefono era squillato, le mie mani erano diventate le sue, e mi ero fatta guidare dalla sua voce nel farmi fare l’amore.
Chiamata dopo chiamata, mentre il respiro appannava i vetri nella piazzola, mi insegnava a trarre piacere da ogni parte del mio corpo: le labbra e la bocca; i seni ed i capezzoli; il sesso e la clitoride. Imparai perfino a trarre piacere dal buco più osceno che avevo sempre evitato e che ora, invece, desideravo ardentemente mi chiedesse di usare per il nostro godimento.
Dopo il mio piacere, lei reclamava il suo; ed io, anonima nella linea telefonica ed ogni volta più spregiudicata, le accompagnavo guidandola al suo orgasmo, che nel ricevitore arrivava improvviso e brutale.
Così, due volte alla settimana, la mattina mi preparavo per l’amplesso telefonico con la mia amante vocale: mi acconciavo, mi truccavo, depilavo, ed indossavo ciò ritenevo potesse essere più eccitante per lei. Dopo l’amore staccavo la telefonata, riaccendevo la macchina e andavo al lavoro; e dopo pochi appuntamenti ormai tutta la mia vita trascorreva in quella latente eccitazione dell’attesa della prossima mezz’ora d’amore con lei.
Riaccendevo, perchè oggi la macchina proprio non ne vuole sapere di ripartire; allora scendo, apro il cofano e provo a muovere cavi a caso sperando di azzeccare quello giusto; ma nulla, nessun segno di vita da quell’ammasso di ferraglia.
Risalgo in macchina, chiamo il soccorso stradale - attesa di una ventina di minuti, mi dice l’operatrice - e avverto al lavoro del problema, facendomi passare una collega a cui passare le consegne per la mattinata.
Sto ancora cercando sull’agenda i recapiti dei clienti da avvertire, quando il carro-ponte dell’assistenza mi supera e posteggia; con la coda dell’occhio vedo una figura imbacuccata nella tuta fosforescente scendere dall’autocarro, prendere la valigetta degli attrezzi e scomparire dietro il cofano ancora alzato.
Saluto la collega e mi preparo al prevedibile sfottò del meccanico sulle donne, e il vestito attillato e i tacchi alti lasciano poco spazio ai dubbi sulla mia femminilità, che restano in panne per non aver fatto rifornimento di benzina.
Invece al di sopra del cofano spunta un berrettino con la visiera che non riesce a trattenere una cascata di riccioli biondi, che a loro volta incorniciano due meravigliosi occhi celesti. Dalla bocca morbida, quella voce mi sussurra: ciao Claudia, da ora le tue mani sono le mie…
Resto senza fiato. Lei… lei?!?
Mi mette in mano una chiave inglese, mi guida nelle viscere del motore, e mentre con l’attrezzo tengo ferma la ghiera di un manicotto, lei, con le sue mani, svita un raccordo, lo pulisce e lo riavvita in sede.
Richiude il cofano e mi fa cenno di girare la chiave d’avviamento.
Il motore riparte.
Io, no.
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