Lo scrigno

di
genere
gay

Però - disse il mio amante - strano ma davvero eccitante…
Mi afferrò le caviglie e se le pose sulle spalle; mi divaricò leggermente e mi entrò dentro. Facemmo l’amore molto lentamente, gli occhi negli occhi. Lui venne riempiendomi. Io venni aspergendolo.

Quando arrivò il messaggio della grande ditta di vendite online, mi chiesi se fosse veramente quello ciò che volevo: aprire lo scrigno che per quarant’anni era rimasto chiuso in un angolo della mia testa.
Pensai che in fondo avrei avuto ancora altre possibilità di fermarmi. A tutti piace pensare a queste cose a come una scala, e che ogni scalino dia la possibilità di fermarsi, girarsi, e tornare indietro; invece sono piani inclinati, che una volta imboccati è impossibile smettere di scivolare fino al fondo.
Per anni avevo evitato di imboccarlo: prima il rispetto dell’autorità, poi la vergogna, poi altri sentimenti, altre storie, altre situazioni, e l’alibi che ogni momento non fosse quello giusto.
Il passaggio successivo fu andare alla Posta e ritirare il pacco. Lo scossi. Era pieno. Il passato risuonava nella scatola.
Ora? Dopo? Mai? Scivolo...
Strappo l’involucro di plastica che avvolge il pacco. Una carta dorata. Una pungente puzza di colla. Mi tremano le mani. Scendo un altro scalino. Sfilo il coperchio. Una cartolina di ringraziamenti per l’acquisto, in inglese e cinese. Una vezzosa rosa di carta rosa.
Un ultimo diaframma di carta velina mi separa dal passato.

Ho tredici anni, e da sempre gioco ad indossare i vestiti di mamma. I miei lavorano, passo molto tempo da solo in casa. Lunghi pomeriggi di quarant'anni fa senza TV, cellulari, internet.
Indosso calze di mamma. Mi trucco col rossetto di mamma. Mi acconcio i capelli con la lacca di mamma. E poi mi specchio, e mi vedo donna. Come mamma.
Rientra papà, e mi vede. Farfuglio qualche spiegazione. Lo schiaffo arriva bruciante.
Basta calze. Basta rossetto. Basta lacca. Nel giro di un attimo rinchiudo me stesso nello scrigno e il mio simulacro diventa uomo. Studio. Lavoro. Ragazze. Vita, approssimativamente.

La guancia mi brucia ancora per lo schiaffo. Ripercorro la mia vita innaturalmente raddrizzata secondo decenza, consuetudine, normalità. E la mia follia nell’intercapedine fra ciò che sono e ciò che appaio, quella follia che mi ha permesso di sopravvivere zavorrato da una guancia che brucia e uno scrigno sigillato.

Scosto la carta velina e vedo le chiavi che aprono lo scrigno. Le accarezzo con quella delicatezza e dolcezza con cui avrei voluto essere carezzato. Le studio con quell’attenzione e curiosità con cui avrei voluto essere ascoltato e capito. Scendo l’ultimo scalino, e piango.
Piango per ciò che è stato, piango per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, piango per ciò che, forse, potrà ancora essere. Forse tutto è perduto. Forse molto è perduto, ma quel che resta è tutto ciò che mi resta. Ad esempio, che la guancia smetta di bruciarmi.

Arrivato a casa, appoggio la scatola in salotto, e interpreto la solita esistenza: la lavatrice da stendere, i gatti da sfamare, riscaldare qualcosa per cena mentre la TV racconta la consueta razione di tragedie quotidiane.
E poi, mentre la notte scende ed i rumori della città si acquietano, mi preparo per andare incontro al mio passato: doccia, depilazione, un po’ di crema.
Dallo scrigno ripesco le calze velate, le indosso e mi trucco davanti allo specchio.
Poi apro la scatola e prendo le décolleté a tacco alto. Le indosso. Il numero è giusto. Il tacco è vertiginoso, diciamo come quello di mamma con quarant’anni di interessi. Mi alzo in piedi, traballante; mi appoggio alla parete, muovo qualche passo, giusto fino allo specchio per vedere finalmente il riflesso di me stesso e non quello della sua parodia.
Mi giro, un po’ di qua, un po’ di là. Il tacco alto tende al limite dei crampi i gemelli del polpaccio, allenati da anni di sport. Questa sofferenza sconosciuta mi pare molto più accettabile di quella conosciuta della quotidianità.
Passeggio per la casa e abbraccio me tredicenne. Assieme ci stendiamo allungando le gambe, poi accavallandole, e poi tornando a spalancarle. Ci masturbiamo accarezzandoci il perineo come fino a ieri facevo da solo quando non mi bastava lo sfogo ma volevo sentirmi. Ci addormentiamo e l’indomani mi sveglio, i piedi gonfi ancora nelle scarpe col tacco.

Il citofono suona, ed il mio amante entra. Resta interdetto a vedermi così. Gli vomito addosso che ho tredici anni e che sto riprendendomi la mia vita e che sto svuotando lo scrigno per poi bruciarlo e che voglio farmi passare il rossore sulla guancia e che io sono così e che se non mi vuole così pace ma non posso neppure con lui neppure con lui non essere così e che solo ora ho avuto il coraggio di rinunciare alla mia follia per essere folle o sano per davvero e che se…
Lui interrompe il mio monologo baciandomi sulla bocca e zittendomi.
Mi afferra le caviglie e se le pone sulle le spalle; mi divarica leggermente e mi entra dentro.
scritto il
2018-04-26
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