Addis Abeba, 1938 (2)

di
genere
etero

Certo l’essere umano per certi versi è incomprensibile, ci sono uomini che possono trattare gli altri simili da schiavi o pretendere con la forza o con il denaro un rapporto sessuale da una donna, altri che addirittura possono uccidere un altro essere umano senza porsi troppi problemi.
Ce ne sono altri che invece non farebbero mai nessuna di queste cose o che quantomeno nel farlo si pongono delle domande.
Stefano Astolfi era uno di questi casi.
Giovane ufficiale, milanese di buona famiglia, era stato richiamato nell'esercito a 26 anni e spedito in Africa come tanti altri giovani uomini, che al pari di lui provavano un senso di smarrimento.
L’esercito non li aveva dotati di una attrezzatura adeguata ma soprattutto non li aveva minimamente preparati psicologicamente.
Era arrivato ad Addis Abeba da meno di un mese, sbattuto da un giorno all’altro in un altro continente, così diverso dall’Italia che aveva lasciato.
Quel pomeriggio, in una squallida cameretta africana, trovarsi di fronte una giovane donna che sembrava una bambina, lo sguardo fiero ma triste con cui lei lo aveva osservato mentre era intento a tirarsi su le braghe, dopo aver lasciato che il suo sperma disegnasse bianchi ricami sul suo viso color dell’ebano.
Quel pomeriggio aveva sentito il peso di tutte le ingiustizie del mondo posarsi sulle sue giovani spalle.
Tornando verso la caserma, con gli altri commilitoni che ridacchiavano sguaiatamente chiedendogli di raccontare loro i particolari piccanti, sentiva di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma nonostante ciò sapeva anche che la sola cosa che voleva fare era ritornare da lei il prima possibile.
Nella sua piccola camera della caserma, sdraiato sul letto, con le mani intrecciate sotto la nuca contemplava il soffitto scrostato senza vederlo, la sua mente vagava, anzi, la sua mente era persa nel nulla, non essendo in grado di elaborare i sentimenti che gli si ingarbugliavano nel percorso tra cuore e cervello.
Il giorno seguente, negli uffici degli alti comandi, sbrigò distrattamente i suoi compiti e poi non poté fare altro che aspettare la fine della lunga giornata.
Appena il trombettiere ebbe suonato il “rompete le righe” si diresse con passo rapido verso la casa di Madame.
L’enorme nero all’ingresso lo riconobbe e lo fece entrare, un sorriso beffardo dipinto sul volto.
Salutò la tenutaria frettolosamente e si diresse verso il piano superiore facendo gli scalini due a due, ma arrivato davanti alla camera della ragazza, con disappunto si avvide che la chiave, con la sua nappa bordeaux non era inserita nella serratura, come era stato il giorno prima.
Gli avevano spiegato che poteva significare solo una cosa, c’era già un cliente con lei.
Avrebbe voluto tirare giù la porta a calci, ma sapeva che Madame non l’avrebbe gradito e avrebbe fatto immediatamente intervenire l’enorme buttafuori di colore.
Non gli restava che attendere, più o meno pazientemente, che il cliente che lo aveva proceduto finisse i suoi comodi.
Stare fuori dalla porta fu un vero supplizio, attraverso lo stipite si sentiva chiaramente il cigolio del letto e il rumore della testiera in ferro che sbatteva ritmicamente contro la parete, l’ansimare dell’uomo e i gemiti, a dire il vero assai artificiosi, della ragazza.
Fu un vero strazio per Stefano restare fuori e sentirli, sembravano due animali durante l’accoppiamento.
Per fortuna il supplizio durò assai poco, alcuni colpi più intensi e delle urla roche gli fecero capire che il tipo che lo aveva preceduto stava venendo.
Finalmente nella stanza calò il silenzio, passarono ancora pochi minuti poi la chiave girò nella serratura e la porta si aprì.
Un soldato tozzo, il viso ancora paonazzo, i pochi capelli unti di brillantina si affacciò, e vista la faccia scura del giovane ufficiale si affrettò a scendere per le scale, senza nemmeno curarsi di richiudere la porta, tanto sembrava proprio ci fosse un altro cliente pronto a prendere il suo posto tra le cosce della bella negretta.
Stefano si fece coraggio e varcò la soglia trovandosi nuovamente nella piccola stanza spoglia.
La ragazza era accovacciata su un catino metallico di ferro smaltato e stava cercando di lavare via ogni traccia dello squallido rapporto appena concluso.
Nell’aria si sentiva l’odore acre del sesso, del sudore del militare e ancora più forte quello del disinfettante che Madame comprava all’ingrosso e che le sue ragazze dovevano usare tra un rapporto e l’altro.
Le lamelle di legno delle gelosie lasciavano passare a tratti la luce violenta del pomeriggio africano, disegnando sul suo corpo striature dorate che la facevano assomigliare a una fiera dalla pelliccia zebrata, dal colore nero e oro.
Si voltò lentamente guardandolo di traverso, quando lo riconobbe sembrò che un lieve sorriso solcasse le sue labbra e addolcisse un poco il suo sguardo, o almeno questo era quello che voleva credere lui, ma gli occhi, per quanto fieri, rimasero comunque tristi.
Si sollevò lentamente e nuda com’era si andò a sedere sul piccolo letto, camminando con la sua andatura ancheggiante.
Mentre raggiungeva il letto, il sedere, che l’altra volta era rimasto nascosto, ondeggiava lentamente, in modo quasi ipnotico, tanto che non era possibile distogliere lo sguardo da quegli enormi glutei così perfettamente rotondi e sporgenti.
Si appoggiò con un ginocchio sul letto sfatto e ruotando la testa all’indietro lo guardò nuovamente da sopra la spalla.
Sembrava lo sguardo di una gazzella che, rassegnata guarda il suo predatore.
Poi si sdraiò a pancia in giù, con le braccia incrociate sotto il viso, continuando a guardarlo senza dire una sola parola.
Ma i piccoli piedi sfregavano uno contro l’altro, come se parlassero per lei, come se lo stessero invitando ad avvicinarsi.
Il tenente si ricordò di non aver chiuso la porta alle sue spalle e lo fece prontamente,
poi si avvicinò al letto e gli si inginocchiò a lato, rimanendo a contemplare quella pelle color cioccolato.
Avvicinò Il dito indice e con il dorso la sfiorò.
Accarezzava quella pelle liscia e scura come incantato, dopo un po’ lei si girò sulla schiena, divaricò le gambe, prese la sua mano e fece spostare il dito indice di lui lungo la linea morbida del suo ventre, lo fece passare attraverso l’ombelico e scendere ancora fino a un foltissimo ciuffetto di peli ricci, compatti e duri.
Il cazzo del tenente già premeva contro la patta, compresso com’era da quella posizione accovacciata.
E quando il dito arrivò a sfiorare le labbra carnose ebbe un ulteriore sussulto.
Lei stava con le palpebre abbassate e la bocca socchiusa, la punta della lingua, incredibilmente rosa tra quelle labbra così scure, si muoveva eccitata a destra e a sinistra, umettandole.
Teneva sempre il dito e lo dirigeva come se fosse la punta di una penna, disegnando dei ghirigori invisibili sulla sua carne che cominciava a trasudare umori dolci e vischiosi.
La donna stava eccitandosi sempre di più e suo bacino aveva preso a muoversi ritmicamente premendo con una certa insistenza contro il dito del ragazzo.
La fragranza esotica e speziata del suo sesso pervadeva l’aria, penetrando a fondo nelle narici dell’uomo.
Il tenente era troppo eccitato per proseguire oltre con questo gioco e si spogliò velocemente lasciando cadere la divisa color cachi sul pavimento.
Prese posto al fondo del letto, inginocchiandosi in modo da trovarsi con la faccia di fronte al sesso della ragazza.
Guardò quella carne abbrustolita e così profumata e sempre più bagnata.
Il profumo era fortissimo, ricordava benissimo come lo aveva colpito la prima volta che lo aveva sentito.
Allargò quelle cosce, morbide e nere, avvicinò il viso a quella vagina così profumata e con la punta della lingua le diede un colpo leggero, lei reagì inarcando la schiena e lanciando un gemito verso il soffitto.
Se il profumo era intenso, il sapore lo era ancora di più, acre ma eccitante da morire, gli sembrò di leccare il sesso di un animale selvatico.
Mentre lui la leccava serrandole forte il bacino lei si torturava i piccoli seni a punta, tirando verso l’alto i capezzoli e poi rilasciandoli andare.
Poi fece scendere le mani accarezzandosi il corpo minuto e sinuoso, fino ad arrivare alle mani di lui, intrecciando le dita con le sue, creando un’alternanza di bianco e nero, come fossero i tasti di avorio ed ebano di un pianoforte di carne.
Le strinse e le tirò verso l’alto in modo che lui fosse costretto a lasciare la posizione per venirsi a sdraiare sopra di lei.
Stefano ubbidì come se fosse in trance e si sdraiò sopra quel corpo bollente e scuro.
Come sembrava pallido sopra di lei, un verme rosa chiaro sopra una venere nera.
Il suo pene puntava dolorosamente contro i peli pubici di lei, poteva sentire quanto fossero fradici, completamente bagnati dagli umori prodotti dall’eccitazione e delle saliva che lui vi aveva appena lasciato.
La guardò come per chiederle il permesso, e lei con un impercettibile movimento del capo glielo diede.
Allora lui prese il pene con le dita di una mano e lo indirizzò in modo da metterlo al centro di quelle labbra fradice e pronte.
Lo strusciò avanti e indietro tra quei lembi di carne umida facendola sospirare di desiderio e quando la cappella trovò la strada, vi entrò scivolandovi dentro come un serpente che si infila nella tana, la prese con un colpo lento ma deciso, penetrando dentro di lei per buona parte della lunghezza del suo bastone di carne.
La donna si inarcò, curvando la schiena come un animale colpito a morte da una lancia, gemendo forte per l’intenso piacere e serrandogli le gambe attorno al bacino come fossero le spire di un pitone che non voleva lasciare la preda.
Stefano cominciò ad andare avanti e indietro serrando i glutei ogni volta che arrivava alla fine della spinta e lei con le dita glieli artigliava ficcandogli le unghie nella carne, come fossero gli artigli di una fiera. Rantolando, anzi, ruggendo rocamente nelle sue orecchie facendolo eccitare ancora di più.
Poi man mano che il ritmo aumentava i ruggiti divennero gemiti e squittii, ora la fiera era diventata una preda, una esile antilope che perde la vita sotto i morsi di un leone.
In queste condizioni Stefano non resistette a lungo, era troppo eccitato per farlo e arrivò velocemente al culmine del piacere.
Avrebbe voluto prolungare ancora un poco l’amplesso ma non riuscì a trattenersi oltre e scaricò nel ventre della donna una lunga serie di schizzi caldi.
Lei li accolse come fossero offerte votive, pronunciando incomprensibili parole nelle sue orecchie e serrando ancora di più le cosce con cui lo imprigionava e le dita con cui gli artigliava le natiche.
Poi giacquero entrambi inermi, come morti uno sul corpo dell’altra.
Non voleva muoversi, non voleva andarsene, non poteva sopportare che un altro uomo entrasse dopo di lui e la possedesse.
Piano piano un’idea prese forma nella sua mente, l’avrebbe riscattata da Madame, l’avrebbe sistemata in una stanza da qualche parte in città, si era informato tra i commilitoni che erano in Africa da più tempo, altri facevano la stessa cosa con le loro donne di colore.
Sarebbe stata solo sua.
L’avrebbe sposata, l’avrebbe portata in Italia, avrebbe lottato contro l’orrore della sua famiglia e contro la morale dei suoi concittadini.
Ma le cose andarono in modo assai diverso...
di
scritto il
2019-03-20
3 . 4 K
visite
0
voti
valutazione
0
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

La mondina

racconto sucessivo

Botswana (2)
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.