Un metro 18 - Come si dice “asciugarmi” in olandese?

di
genere
masturbazione

Quando ci lasciamo per tornare alle nostre case, io e Serena abbiamo raggiunto un compromesso. Ok, spareggio sia, ma con un solo giorno a disposizione, domani. Oggi no, oggi riposo. Me l’ha chiesto lei e a me non è nemmeno dispiaciuto, in fondo. L’idea di un noioso pomeriggio domenicale casalingo mi attira. Si vede che sono stanca, voglio annoiarmi. L’altra concessione che le ho fatto è stata dire sì al suo “uno solo, Annalì, uno solo, non fare che ti porti a letto una squadra di pallavolo”. Ho detto di sì e ho riso, mi ha dato della troia e ci siamo salutate con un bacio lingua in bocca di fronte a due signore che controllavano un bimbo su un triciclo.

Prima di salire in macchina prendo l’iPhone e cerco il numero dell’olandesina. Le invio un WhatsApp: “Ciao, come stai? Ti ricordi di me? Ti ho pensata molto in questi giorni”.

A casa mangio e faccio quello che mi ripromettevo di fare, mi annoio. Dormo anche parecchio, sul divano del salotto mentre mio padre guarda la partita. Mi passa di mente anche il messaggio mandato a Debbie. Che invece si fa viva verso sera, mentre con i miei sto guardando una serie su Netflix: ding!

“Sletje! Che sorpresa! E che cosa curiosa! Ieri sera ti ho pensata anche io, ci crederesti? Perché ti sei ricordata di me?”.

Veramente, a questo punto, sono curiosa anche io di sapere perché lei abbia pensato a me. Le rispondo che ho conosciuto un olandese, “tu hai forse conosciuto un italiano? Ahahahah”.

“No, ahahahahah. Cosa vuol dire che hai conosciuto un olandese? Qualcosa mi dice che non lo hai semplicemente conosciuto, ahahahah”.

“Ahahahahah confesso”.

“Ho sempre ragione, io 🙂 Cosa confessi?”.

Le scrivo “sono stata con lui” e invio il messaggio. Poi senza nemmeno sapere io il perché le scrivo “con lui e con un suo amico”.

Ve lo ripeto, non lo so il perché. So bene invece che non le dirò di ieri sera, di Giovanna e degli altri tre. E il motivo, anche questo assolutamente indecifrabile per me, è che mi vergogno a dirglielo.

“Così giovane, così puttana. Ma non è la prima volta vero?”.

La parola puttana, “slut”, sembra sovrastare tutte le altre sul display, per un attimo. Mi investe come un treno e mi scalda il ventre. Mi ricordo di averle raccontato, questa estate a Londra, che il giorno prima di partire ero stata con due imbecilli totali, completamente ubriaca e decisa a scendere ben sotto il loro livello per sfogare la mia troiaggine repressa. Repressa dall’essere stata ignorata, completamente pisciata, dall’unico uomo che mi interessasse in quel momento e per il quale avrei fatto qualsiasi cosa, sarei stata qualsiasi cosa. Edoardo, il Capo, il cognato di Giovanna.

“E’ stata una cosa completamente diversa”, le scrivo.

“Ma forse tu vorrai sapere perché ti ho pensata”, scrive Debbie.

“Dimmelo, ti supplico. Non penso ad altro, voglio sapere”.

“Sei sola?”.

Bum! Altro che scaldarmi. La sua è una domanda che mi fa partire un crampo e allagare le mutandine. Ho la certezza che non solo voglia confessarmi a sua volta qualcosa, ma che voglia giocare a farmi eccitare. Mi verrebbe da scriverle “guarda, Debbie, ci sei già riuscita, perfettamente”.

E invece le scrivo “sto con i miei, ora mi sposto in camera mia, scrivi ti scongiuro”.

La sua risposta arriva dopo un tempo che, considerato in termini assoluti, non è nemmeno tantissimo, cinque-sei minuti. In termini relativi, ovvero relativi alla mia eccitazione, a me pare un tempo infinito. Mi sento colare anche oltre le mutandine, sull’acetato della tuta Adidas che indosso.

“Ieri sera avevo tantissima voglia e sono uscita. Avevo voglia, nell’ordine, di fare un pompino insensato, essere leccata e asciugata da una ragazza, leccare sperma dalla faccia di una ragazza. E poi essere scopata senza nessuna dignità. Tutto ancora mezza vestita… Sono uscita da sola perché avevo pensato a un paio di amiche ma non potevano. Ho chiamato un uomo con cui avevo fatto sexting su Tinder qualche giorno fa, gli ho detto ‘ho una domanda da farti’ e gli ho chiesto se gli andava di vederci e di portare un’amica”.

“Continua, ti prego”. Una mezza idea già ce l’ho, ma voglio leggerla scritta da lei. Ho bisogno di leggerla nelle parole che lei sceglierà.

“Un attimo Sletje! Lui mi ha fatto ‘No però se vuoi ho un amico’ e io gli ho detto ok. Gli ho chiesto se era sicuro, se l’avesse mai fatto, come era il suo amico. Sai come mi ha risposto? Mi ha risposto ‘hai proprio voglia, non pensavo che fossi così, se vuoi possiamo organizzare anche stasera’ ”.

“E…?”.

“Avevo una voglia assurda di rispondere di sì, tirandomela un po’, ma senza alcuna condizione se non essere imbrattata. Avevo bisogno di sperma addosso. Ho detto di sì”.

“Ti prego Debbie, ti prego, io che c’entro? Dimmelo”.

“Ti stai toccando?”

“No, ma se me lo chiedi lo faccio!”.

“Ci sono andata, anche se dentro avevo ancora la voglia di leccare una figa. Ma dovevi sentire quanto ero bagnata. Non pensavo altro che al fatto che davvero mi avrebbe scopata non solo uno che avevo visto giusto in foto (già successo), ma anche un suo amico di cui non sapevo nulla. Mi hanno proprio inondata, Sletje. Lui era davvero carino, l’amico un po’ rozzo. So che saprai come ci si sente, ero già venuta due volte ma quando mi sono esplosi entrambi assieme sul viso… wow!”.

“Oddio Debbie”.

“Lì ho pensato: come vorrei che ci fosse qui quella puttanella italiana a leccarmi lo sperma dalla faccia e dalla figa. E come vorrei farle lo stesso”.

Se mi tocco ora, svengo. Urlo, mi contorco, faccio entrare in camera mamma, papà e mezzo condominio. Ma non me ne frega un cazzo. L’idea di essere scopata insieme a Debbie e poi leccarci l’un l’altra è l’unica immagine che ho in testa in questo momento. L’immagine di due uomini che si divertono con le nostre figure bionde, esili e in definitiva così simili, che ci chiavano forte a pecora mentre ci lecchiamo a vicenda i nostri bei faccini. L’immagine di me stessa che striscia dietro di lei e la vede esposta, con la vagina aperta che gronda sperma e umori. Leccarla, asciugarla, portare tutto quel cremoso ben di dio un po’ più su, sul buchino, e infilarglielo dentro con la lingua dopo averle detto “adesso ti faccio una cosa che a me fa impazzire”. E sapere che quei due che fino a un attimo prima ci hanno usate come delle troie ci guardano. Sentire addosso i loro sguardi febbrili, ascoltarli mentre ci dicono quanto siamo troie. E poi vorrei essere finalmente sua e dirglielo, dirle fammi il cazzo che ti pare, Debbie, sono pronta a tutto.

“Dimmi cosa devo fare, Debbie. Dammi un ordine e lo faccio, te lo giuro… Fammi fare qualcosa di depravato… fammi essere puttana per te”.

Ecco fatto, l’ho scritto e l’ho inviato. Forse era quello che non riusciva ad uscire in tutti questi giorni, in tutte queste volte che ho pensato a lei. Ora attendo solo la risposta.

“Hai qualcosa da metterti dentro?”. La sua risposta è un’altra domanda. Ma cazzo, vi assicuro che è una di quelle domande che ti fanno aprire un’altra volta il rubinetto, anche se non so bene cosa si aspetti.

“Boh, credo di sì. A cosa pensi?”.

“Non penso a una cosa qualunque, penso a un giocattolino. Ne hai? Li usi?”.

“No”. La prima cosa che scrivo è no. Poi sento letteralmente uno strattone. Come se qualcuno mi avesse tirata per i capelli, ma è ovvio che è tutto dentro la mia testa, perché nella stanza con me non c’è nessuno. Sì, ce l’ho. E’ quella specie di oggetto diabolico che mi ha lasciato Giancarlo dopo essercisi divertito per una sera intera al tavolo di un ristorante e anche dopo.

“Sì”, rispondo. Anzi, “sì ce l’ho”.

“Cosa è?”, scrive Debbie.

“Una specie di ovetto vibrante che si controlla con una app”.

“Ti piace il divertimento tecnologico, Sletje”.

“Non l’ho comprato io, me l’ha regalato un amico!”.

“Un amico?”.

“Sì”.

“Uno che ti scopa, immagino”.

“No”.

“E dai… non fare la santa, Sletje”.

“Giuro” E’ troppo lungo da spiegare. E’ uno più grande, non sono mai stata scopata da lui”.

“Più grande quanto?”.

“Intorno ai quaranta, penso, non so di preciso”.

“Sei una continua sorpresa, Sletje! Ti fa giocare con queste cose e non ti scopa? Conosci gente strana!”.

“Sì, forse”.

“Comunque prendi quel giochino”.

Protesto dicendo che per farlo funzionare serve un’app e io non ce l’ho, ma intanto cerco già le chiavi del cassetto della mia scrivania. Mi arriva la risposta a stretto giro, la più ovvia, la più meritata: “Scaricala Sletje, non fare la cretina”. Ho un brivido più forte di tutti quelli che l’hanno preceduto. Vorrei supplicarla di continuare, di insultarmi, di dirmi che sono una nullità. Ma non lo faccio, mi vergogno, non so come la prenderebbe. Cerco l’app e la scarico. Con l’ovetto in una mano e il telefono nell’altra le scrivo di dirmi cosa devo fare. Debbie mi risponde “per prima cosa infilalo, poi dimmi quando hai finito di scaricare l’app”.

Eseguo. Scosto l’elastico della tuta e degli slip e me lo metto dentro. Sono già oscenamente aperta e bagnata, sotto la felpa i miei capezzoli induriti sfregano e mi eccitano ancora di più. Mi mordo un labbro. Non l’ho più usato da quella sera con Giancarlo, ma ricordo bene l’insostenibile piacere che questo affaretto ti può regalare.

Le scrivo “downloaded”, lei mi chiede “funziona?”. Vorrei che fosse qui a sentire il mio sospirato “oddio…” quando comincio a sentirlo muoversi dentro. Invece deve accontentarsi del mio “sì”.

“Lascialo andare, al minimo. E torna dai tuoi”.

E’ una mazzata, mi aspettavo tutto ma non questo. Non lo posso fare, davvero non ce la posso fare. Le scrivo che non può chiedermi questo, ma so benissimo che me lo chiederà un’altra volta e che le obbedirò per il semplicissimo motivo che ho un irrefrenabile desiderio di farlo. Mi sento soggiogata da lei, anzi ho voglia di essere soggiogata da lei. Il motivo? Chi cazzo lo conosce il motivo. E’ una cosa che mi sento addosso, che mi sento dentro, punto.

“Fai quello che ti ho detto, piccola puttana. E prima di levartelo vestiti da troia e fumati una sigaretta davanti allo specchio, e mentre lo fai scattati una foto e mandamela”.

Miagolo da sola leggendo il suo messaggio. Le rispondo semplicemente “sì” mentre quell’affare mi ronza dentro, ma in realtà vorrei scriverle che la scongiuro di venire qui a prendermi per i capelli e trascinarmi in salotto strisciandomi per terra e dire a mamma e papà “ma lo sapete cosa sta facendo questa troia di vostra figlia?”. Afferro un plaid e lo porto con me per coprirmi. Camminare è un piccolo calvario. Stringo istintivamente i muscoli e più li stringo più sento il mio piccolo torturatore farsi strada.

Mi stendo sul divano con il plaid addosso, rannicchiata. Mia madre mi chiede se ho freddo e se mi sento bene. Dico “sì, tutto ok”. Per fortuna che sono concentrati su Narcos, altrimenti se ne accorgerebbero eccome che col cazzo che va tutto bene. Sì, certo, sarà anche al minimo, ma l’ovetto si muove e cambia il modo di vibrare in continuazione. Scatta, avanza, arretra, mi tocca ovunque e, cazzo, sembra che sappia perfettamente dove andare a toccare.

Guardo le immagini scorrere sul 4K di casa ma le vedo a malapena. Negli occhi ho l’olandesina con tutto il suo carico di sensualità e perversione. Me la immagino nuda, seduta su una poltrona con le sua magnifiche gambe spalancate e poggiate sui braccioli. La immagino che mi ordina di leccarle la fica e dice a quei due che ieri sera le hanno sborrato in faccia di fare di me quello che vogliono, che sono solo una piccola e insignificante puttana italiana e che servo solo a quello. La immagino che si contorce sotto le mie lappate gemendo “così piccola e così troia” mentre i due mi possiedono uno dopo l’altro. La immagino che mi dice di incollare la bocca sulla sua vagina mentre mi inculano, perché gode a sentire sul suo sesso le vibrazioni della mia voce urlante e l’aria dei miei sbuffi. Immagino lo sperma che invade la mia fica mentre nello stesso istante il suo dolce succo mi schizza in bocca.

Ho caldo, sempre più caldo, e penso di essere congestionata in faccia. Muoio dalla vergogna che i miei genitori possano solo lontanamente immaginare cosa sto facendo. Dentro di me sento il piacere che sale a ondate, lento ma inesorabile. Inarrestabile, soprattutto inarrestabile. Anche volendo, credo, non lo potrei più fermare. Mi contraggo e mi rilascio, stringo le gambe sotto la coperta e devo reprimere più volte ogni altro mio movimento. Ma arriva, arriva, cazzo se arriva. Sta salendo e non so più che cazzo fare. Lo so che non sarà esplosivo ma sarà lungo, mi farà tremare, come farò a controllarmi? La paura alimenta la mia eccitazione e l’eccitazione a sua volta alimenta la mia paura. Devo godere e mi maledico per questo gioco del cazzo, per la mia troiaggine.

Per fortuna l’orgasmo arriva proprio nel momento in cui sullo schermo uno della banda di Pablo Escobar spara a un tipo facendogli un buco in testa grosso come una noce e il sangue schizza sul muro di dietro. Lancio un urletto represso ma comunque liberatorio, salto giù dal divano stringendo in mano il telefono che controlla l’app e piagnucolando “ste cazzo di scene….”. E vi assicuro che, nonostante lo splatter non mi faccia né caldo né freddo, piagnucolare mi riesce benissimo in questo momento. Scappo in bagno malferma sulle gambe e mi ci chiudo dentro, mentre quel coso continua a vibrare e a muoversi dentro di me. Risale, risale, lo sento che risale. Praticamente cado in ginocchio sul tappetino di spugna, guardo il display del telefono e metto al massimo tutto, vibrazione e movimento. Mi tappo la bocca per soffocare l’urlo “Debbie!” che mi scappa incomprimibile, mentre per un po’ tutto si spegne e cado quasi a faccia in avanti.

Per un po’ resto così tremare e a cercare di riprendermi, finché arriva la voce di mio padre che mi domanda “topolina, tutto bene?” (eh, che cazzo ci volete fare, mi chiama ancora topolina). Non so nemmeno come faccio a dominare la mia voce e gli dico “sì papo, certo, perché?”. Sento che si allontana dicendo “no, mi sembrava…” ed è un bene che si allontani, perché posso uscire dal bagno e chiudermi a chiave in camera.

Mi tolgo i pantaloni della tuta e mi guardo allo specchio. Sono l’indecenza fatta persona. C’è una parte delle mie mutandine, normalissimi slip di cotone viola, che sembra uscita dall’acqua. Ho lo sguardo stravolto e i capelli scomposti. Mi tolgo la felpa e vedo le mie tettine. Sembrano sempre quelle, ma io le sento gonfie, con i capezzoli svettanti che supplicano che arrivi qualcuno a massacrarli. Resto nuda, pensando che ho voglia di un altro orgasmo. Più bisogno che voglia, a essere onesta. Bisogno assoluto. Ma mi domino, perché in questo momento ho ancora più bisogno di portare a termine l’incarico che mi ha dato Debbie. E ho bisogno che veda, che sappia come mi ha conciata.

Per vestirmi da mignotta penso in un primo momento a una mini bianca con due orli rosa così corta che davvero basta camminare perché ti si veda il sedere, completata da una maglietta coordinata che finisce appena sotto le tette, sottilissima. Sì, certo, la uso per il mare, è una cosa che, obiettivamente, si può portare solo quando di va in spiaggia e sticazzi se qualcuno vede il costume. Ammetto però che quando l’ho comprata, mi pare due anni fa, un pensierino a uscirci e a farmi un giretto in metropolitana con tanto di infradito l’ho fatto. Nulla di che, intendiamoci. Ero ancora vergine allora. Così, per giocare, per guardare esplicitamente negli occhi tutti quelli che mi avrebbero sbirciata, avvicinarmi, fare la zoccola e poi lasciarli lì, appesi, a soffrire. Che osservassero pure, che deglutissero. Che si guardassero intorno per vedere se avrebbero potuto osare. Magari concedere al più audace di infilare una mano e tastarmi il culo o strusciarsi con il suo pacco ingrossato. O magari, al contrario, mettermi a strillare “porco!” così forte da fargli venire l’ebola. Giuro, pensai esattamente questo, me lo ricordo benissimo. Lo sapete che non l’ho scoperto oggi di essere una troietta, no?

Comunque no, decido per un’altra cosa. La più giusta, in fondo. Mi metto le autoreggenti e, sopra, il vestitino nero che portavo la sera che ho conosciuto Giancarlo, quando dopo nemmeno due minuti avermi agganciata mi infilò un dito sotto la gonna e mi penetrò per dimostrarmi che aveva capito che non indossavo le mutandine. E poi me lo fece succhiare, quel dito. Il tutto davanti al bancone di un bar e ad un esterrefatto barista. E io lì, in piedi, incapace di reagire, che forse per la prima volta in vita mia comprendevo cosa significhi essere violata nel cervello ben prima che nella vagina.

Non sarà proprio un vestito da troia come intendeva Debbie, ma è giusto che metta questo, e senza mutandine. Perché in definitiva, proprio quella sera, ho fatto la mignotta come mai in precedenza: il dito di Giancarlo, il pompino a Fabrizio nella toilette, la scopata in macchina con Francesco. Una specie di esame di maturità, un upgrade della puttanella succhiacazzi che ero stata fino ad allora.

Tacchi a spillo non ne ho, ma metto i più alti che possiedo. E mi metto anche il rossetto. Scarlatto, eccessivo, perché nella foto si deve vedere bene.

Faccio ripartire l’ovetto e mi posiziono davanti allo specchio, a gambe larghe. Ho una faccia e dei capelli che davvero, come diceva Serena,sembro uscita dallo spogliatoio di una squadra di pallavolo dopo essere stata il premio di tutti i giocatori per una coppa appena vinta. Mi mancano solo gli schizzi di sperma sul vestito, sulla faccia, sui capelli. Scatto la foto mentre fumo una sigaretta e la guardo, la mando a Debbie.

Ma sarà l’effetto del giocattolino che vibra, oppure il fatto che nel mio cervello qualche contatto si è definitivamente staccato, eppure sento che non basta, non mi basta.

Mi siedo per terra davanti allo specchio e apro le cosce. Si vede perfettamente l’antenna bluetooth del giocattolino che spunta, fa un effetto sconcio. Aumento la vibrazione dell’ovetto e preparo lo scatto. Tenere ferma la mano è un’impresa, ma alla fine la foto riesce. Meglio della prima, più sconvolta e affamata della prima.

La invio all’olandesina ma sento che manca ancora qualcosa. L’immagine non riesce a rendere il lucido che ho sul ventre e in mezzo alle gambe.

“Eccomi Debbie, come si dice ‘asciugami’ in olandese?”.


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scritto il
2019-07-27
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