Famo robba – seconda parte

di
genere
etero

Alzo un’altra volta lo sguardo per vedere se Trilli si è ricordata che esisto, nulla. Mi chiedo dove sia finita o se si sia persa. Io sono sempre dove stavo prima, in mezzo alla movida di piazza Cavour. Ma se volete capirci qualche cosa mi sa che è meglio se leggete il capitolo precedente.

Passano due froci in fila indiana, agghindati in total black leather, comprese le Converse. Quello di dietro, il più alto, è decisamente bello. Quello davanti, un tappo con la barba, invece ha una voce orribile e una pronuncia da burino da mille generazioni, ma si capisce da come parla e da come l’altro lo segue che tra i due è lui quello che prende le decisioni. Subito dopo di loro una ragazza trafelata in cerca di chissà cosa: ha la gonna corta e le cosce che sembrano due prosciutti, non esagero, che lei ha giustamente deciso di valorizzare con un paio di calze con i pois. Quando al termine di questa galleria degli orrori compare il coattello di prima – quello che senza nemmeno dirmi come si chiama mi ha detto “famo robba, piccolè? - mi dico “oh no”, ma almeno riconosco un essere umano.

Ha due Ceres in mano e me ne porge una. Senza un sorriso, senza una parola. Si limita a guardarmi, non stacca nemmeno per un istante i suoi occhi dai miei.

Poiché è mezz’ora che sto appoggiata a questa cazzo di macchina e non ho ancora visto nemmeno un bicchiere d’acqua minerale, accetto. Istantaneamente un pensiero mi trapassa il cervello e mi rende guardinga.

- Non è che c’hai messo qualcosa dentro sta birra? – gli chiedo.

Lui nemmeno mi risponde, mi fissa con un’espressione che vira sul “daje, famo contenta sta deficiente”. Mi prende la bottiglia dalla mano e ne beve un sorso, poi stappa l’altra con l’accendino e me la porge. Ci resto un po’ come una cretina, lo ammetto. E credo di fare anche un po’ la figura della stronza perché nemmeno gli dico “grazie”.

Lui mi chiede “te piace ‘a bira biondì?” e registro mentalmente che è passato senza colpo ferire dal “piccolè” al “biondì”, che del resto per me è un classico. Gli faccio una smorfia che dovrebbe comunicargli, senza troppo entusiasmo da parte mia, “se non mi piaceva mica la prendevo”, poi mi attacco alla bottiglia e me ne scolo più o meno la metà tutta d’un sorso. “Sì, te piace”, fa lui rimanendo impassibile.

- Come te chiami, biondì?

- Annalisa.

- Ber nome... io me chiamo Ridge.

- Scusa? – gli domando, perché so di avere sentito bene ma in fondo in fondo spero di no.

- A mi’ madre da piccola piaceva Biutifùl...

A tua madre da piccola piaceva Beautiful? E che cazzo c’entra? Io mio figlio mica lo chiamerei Winnie The Pooh!

- Be’ sempre mejo de Kevin o Ràian – aggiunge.

- O Sharon – dico io pensando a quella mignotta che due o tre volte si è fatta imbottire da Tommy. Almeno spero, due o tre volte. Perché in realtà ho sempre il retropensiero che dopo avergli fatto drizzare il cazzo con le mie zozzerie notturne quella gli sgusci sotto le lenzuola e se lo faccia infilare un po’ dappertutto. Che cazzo ne so che succede in quella casa per studenti a Bologna?

- No, a me invece Sharon piace – dice lui. E ti pareva, mai ‘na gioia...

Restiamo in silenzio per un po’ con le bottiglie in mano. Uno davanti all’altra, come due vecchi amici che non hanno bisogno di fare per forza conversazione o come due che nemmeno si sono accorti dell’altro e che proprio non si filano. E’ una specie di braccio di ferro che alla fine mi vede vincitrice. Il ragazzo qui non ha minimamente messo in conto che a me non me ne frega un cazzo né del silenzio né dell’imbarazzo, scusate la rima. E meno che meno di lui. Si sente in obbligo di riprendere la conversazione e questo lo considero un riconoscimento della mia primazia. Dice che gli dispiace di avermi offesa, che gli sembro una regolare, che non sono come le fregne di Roma Nord che c’hanno tutte ‘na fogna sotto il naso. Che lui in effetti è di Torre Maura, anche se gli dico che io non so nemmeno dove cazzo stia Torre Maura, e allora lui mi spiega che sta sulla Casilina, accanto a Giardinetti. Ah, faccio io fingendo di avere capito. E quando gli chiedo che cazzo ci faccia dall’altra parte della città un fregno di Roma Sud mi dice che è venuto con gli amici ma che poi quelli volevano annà a fà casino a Ponte Milvio e che a lui non gli andava di finire a botte o rincorso dai carabinieri. E che viene qui ogni tanto perché “ce sta ‘n sacco de fica”. Anche se, ammette, non se l’è mai inculato nessuna.

- Stavi a chattà col tuo ragazzo, biondì? – chiede a un tratto.

- No – gli rispondo guardando l’iPhone che ho ancora in mano e mettendolo nella borsa.

- Nun ce l’hai?

Meglio dirgli di sì, chiaramente. Che magari se ne fa una ragione e mi molla. E d’altronde non posso mica mettermi a spiegargli di Tommy, che scopiamo ma non stiamo insieme. E che siamo liberi di fare quello che cazzo ci pare senza che l’altro si ingelosisca, o così almeno a me piace credere. O che non lo amo e non lo considero il mio ragazzo, ma quando sto con lui c’è solo lui e potrei starmene anni a contemplare la vastità del cazzo che me ne frega di tutto il resto del mondo.

- Sì, ma sta a Bologna.

- A Bologna? E che ce fa a Bologna?

- Studia.

- E come cazzo fate?

- A fare cosa? – ribatto. Anche se un’idea ce l’ho di dove voglia andare a parare. E mi preparo al “fatte li cazzi tua”.

- A vedevve (vedervi, ndr), a stà ‘nsieme...

- Uh... non è molto che stiamo insieme, comunque ci sentiamo sempre, ogni tanto vado su io, ogni tanto viene giù lui...

La verità sarebbe che una e una sola volta è venuto giù lui e una e una sola volta sono andata su io. Ma non mi pare il caso di sottilizzare in questo momento, anche se tutto sommato mi ha fatto una domanda lecita e non indiscreta.

- E pe’ scopà come fate?

Ecco, appunto.

- Ma una confezione formato famiglia de cazzi tua? No? – gli dico dopo averlo guardato in silenzio per qualche secondo.

- Scusa biondì – fa lui senza nessun imbarazzo – è che io la mia ragazza sono abituata a vedella tutti i giorni, il pomeriggio stamo sempre ‘nsieme...

- E adesso sta pischella dove sta? – gli domando sperando che, hai visto mai, se lo venga a caricare e me lo porti via.

- A casa, i suoi naa fanno uscì ‘a sera, dice che a dodici anni è troppo piccola...

- La tua ragazza ha do-di-ci anni? – chiedo stupita.

- Sì – sorride – ma dovresti vedella, c’ha du’ zinne...

Poiché il topic “du’ zinne” mi penalizza sempre un po’, lascio cadere la cosa. Cioè, io lascio cadere la cosa, o almeno ci provo. Perché lui in realtà va avanti con una accurata descrizione di quanto gli piaccia “sentille che te riempiono le mani”.

- E quando vi vedete? – lo interrompo. Perché, ammetto, un po’ mi dà fastidio constatare che le mie tettine non riempiranno mai le mani di nessuno e che nessuno dirà mai di me una cosa del genere.

Intendiamoci, a me quelle due mele che ho sul davanti piacciono, le trovo raffinate. A volte però...

- Te l’ho detto – risponde – se vedemo er pomeriggio. Stamo in camera mia, sentimo ‘a musica, er compiuter, l’aiuto a fa i compiti... Poi l’accompagno a casa e magari se mettemo da quarche parte a paccà... Però ‘na vorta amo pure scopato...

Ho un sussulto, è una specie di sganassone.

- Ma che sei scemo? Te sei scopato una de dodici anni???

- ‘Mbè? Col preservativo, eh?

- Ah be’, allora...

- E poi mica era vergine...

Cioè, o mi sta prendendo per il culo oppure sono finita dentro uno di quei reality del cazzo della provincia americana dove si vedono bambini che mettono al mondo altri bambini e a tutti sembra una cosa normale. E ci sono donne di trentacinque anni e centocinquanta chili tutte contente di mettersi a fare le nonne.

Ma poi mi dico che forse scema sono io che sono rimasta fino a diciotto anni con la fica intonsa come me l’ha fatta la mamma. Io a dodici anni iniziavo appena a pensarci, ai maschi, toccandomi la sera. E a tredici mi facevo mettere le mani sotto la gonna plissettata della divisa della mia scuola di suore, avendo sempre una paura fottuta che credessero che mi fossi pisciata sotto e mi prendessero in giro, visto che da un certo punto in poi sono sempre stata una fontanella. I ragazzini allora li toccavo da sopra i pantaloni e per prendere il mio primo cazzo in mano ho dovuto aspettare l’anno dopo, al liceo. Strusciate a mano aperta, all’inizio, poi seghe, poi dopo nemmeno tanto tempo pompini. Per farmi sverginare ho dovuto aspettare Tommy e, soprattutto, il raptus erotico che mi ha fatto capire che il ragazzo giusto in assoluto non esiste. Che era lui, in quel momento, quello giusto.

- Senti ma... tu, da me, esattamente, che cazzo vuoi? – gli domando. Anche perché mi sa tanto che è ora di mettere un punto a tutto questo.

- Sei bella.

- Eeee... quindi? – insisto con un’espressione tipo “sì lo so grazie, me l’hanno detto un sacco di volte, ma che cazzo c’entra in questo momento?”.

- Niente. Sei bella, me piaci, c’hai sta frangetta bionda che me fa ‘mpazzì. Sei la cosa più bella che ho mai visto.

No, un attimo. Posso passare sopra allo stupro del congiuntivo ma a “cosa” no.

- Ahò, “cosa” lo dici a tua sorella! Sono una ragazza, mica una cosa...

- Cò sti capelli me sembri quell’attrice lì... Cosa, come se chiama...

- Sì, ok, Jennifer Lawrence, ce l’hai con questa Cosa...

- Brava, quella. E io? Come te sembro?

- Me sembri in piedi... – gli rispondo sorridendo, perché in fondo le sue parole mi hanno fatto piacere – ti presenti con questo cazzo di cappuccio in testa e mi chiedi pure come mi sembri? Mettiti pure una calzamaglia in faccia e facciamo prima...

- Me dai ‘n bacio? Hai du’ labbra e ‘na bocca che fanno paura da quanto so belle... – dice abbassandosi il cappuccio della felpa.

Ha i capelli neri neri, avevo visto giusto. Un po’ ricci, bellissimi. E davvero, se avesse il naso appena un po’ più piccolo e regolare sarebbe un dio.

Un po’ mi ricorda Ibra, il mio compagno di scuola nero davanti al quale mi ero inginocchiata l’estate scorsa. Un po’ perché era gentile con me, un po’ perché quegli altri stronzi dei miei compagni lo schizzavano. E sì, lo ammetto, anche perché un po’ ero curiosa di verificare sta storia che quelli di colore hanno un pisello grosso: ce l’aveva normale, detto tra noi ne ho visti di più grossi. Ma soprattutto l’avevo fatto per la voglia di cambiare almeno un po’ il suo orizzonte di vita, che certamente non contemplava l’eventualità che una ragazza di buona famiglia gli succhiasse il cazzo in mezzo alla strada alle due di notte e gli facesse toccare la sua fregna ancora vergine. Il fatto è che ho il cuore troppo tenero.

Ibra però era timido, riservato. Questo qui invece va avanti come un caterpillar, non si ferma davanti a nulla. L’unica sarebbe dirgli “mi hai rotto i coglioni”, alzare i tacchi e andarsene. Ma per qualche ragione non mi va di scappare. Voglio, stupidamente, lo so, dimostrargli la mia superiorità.

- Me dai ‘n bacio? – insiste.

- Ma sei scemo?

- Perché?

- E dai, ma ti pare che arrivi qui e agganci una chiedendole “famo robba?” e poi speri pure che ti dia un bacio? Così, ma perché?

- Nun te piaccio?

- Ma che cazzo c’entra? Non si fa così, punto. Ti credo che le ragazze non ti si inculano de pezza.

- Un bacio e me ne vado, davvero. Me piaci tanto biondì, ma tanto tanto... Sei...

- Sì lo so, la cosa più bella che hai mai visto. Pure meglio de Totti.

- Io so daa Lazio... Ti prego biondì, un bacio solo e me fai felice...

- Oddio che rompicoglioni, che devo fare con te?

Non risponde. Estrae dalla tasca dei jeans un pacchetto accartocciato di Camel morbide e ne tira fuori una tutta stortignaccola. Poi un’altra, me la porge. “Fumi?”. No, di solito no, una ogni morte di papa. Ma è anche vero che di solito non accetto una birra in bottiglia dal primo che incontro e ne raccolgo le confidenze sessuali. E’ una Camel gialla, di quelle forti, mi fa girare la testa, non ci sono abituata. L’effetto per qualche secondo è simile a quello di una canna.

Perdo per un momento il controllo della situazione e lui ne approfitta per avvicinare il suo viso al mio. Metto la sigaretta accesa a difesa del mio volto. Poi però vedo i suoi occhi neri, di un nero che non ho mai visto, e sento il profumo della sua pelle. Mi sorprendo a pensare, senza davvero una ragione al mondo, “ma in fondo perché no?”. Inconsapevolmente scosto la sigaretta di lato. Lui lo interpreta come un segnale e probabilmente lo è. Ma del tutto involontario. Si avvicina ancora e stampa le sue labbra sulle mie. Immediatamente la sua lingua me le forza, io me le lascio forzare.

Non posso dire di essere particolarmente eccitata, in questo momento, ma il bacio mi piace. Sa di fumo e di maschio. Ci distacchiamo un po’ ansimanti e ci guardiamo negli occhi per qualche secondo, poi lui si rifà sotto e stavolta anche io gli vado incontro. Le lingue tornano a intrecciarsi.

Non so se lo faccia apposta ma il suo corpo adesso aderisce al mio. Sopra il ventre avverto la pressione del suo pacco e mi sembra che non sia davvero niente male. Ora sì che il calore in mezzo alle gambe si fa sentire. Tra un po’ mi sentirò umida. E poi bagnata. Lo so.

Penso ancora, ma con più consapevolezza di qualche secondo fa, “perché no?”. No, ma davvero, perché no? Voglio dire, ho succhiato il cazzo a ragazzi cui a volte bastava quasi schioccare le dita, ero la Vergine Pompinara della scuola cui andava bene quasi chiunque (quasi, eh, non esageriamo). Perché lui no? Lui che in fondo mi dice che sono la cosa più bella che ha mai visto. Ok, vero, lo poteva dire meglio. Ma anche sticazzi, guardiamo alla sostanza delle cose...

Aderisco anche io al suo corpo, ora. Mi struscio. Perché non avrò “du’ zinne” come la sua ragazza ma le mie mele voglio fargliele sentire. E voglio godere dei miei capezzoli già induriti che strusciano dentro il reggiseno. Ansimiamo un po’ e mugoliamo lievemente. Lui mi mette le mani sul sedere per stringermi di più a sé. Ora il suo pacco lo sento proprio ed è bello grosso, mi piace, mi eccita sempre di più. E mi eccitano anche le sue mani sulle natiche e penso che se qui dove siamo, su questo lato della piazza in mezzo a tutta questa folla di ragazzi e ragazze, mi tirasse su la mini e mi afferrasse le chiappe nude e separate solo dal sottile tessuto del perizoma, be’ io non avrei proprio nulla da obiettare.

- Biondì, me fai ‘na pippa? – mi sussurra con le labbra che sfiorano le mie.

A me viene da ridere, anzi per essere onesti mi verrebbe proprio da sghignazzare, ma mi trattengo. Ma da dove cazzo sei uscito e dove cazzo siamo, in prima liceo? Gli passo un dito sul labbro, sorridendo. Negli occhi gli leggo, adesso sì, la foia che ho letto negli occhi di tanti altri. Chissà se i miei gli comunicano la stessa cosa.

Lo prendo per mano e gli dico “vieni”. Senza sapere nemmeno io bene dove. Attraversiamo la strada ma credo proprio che il bagno del locale davanti a noi sia fuori discussione. A parte il fatto che ci saranno centomila persone dentro quel buchetto, a giudicare da come limonano quattro o cinque coppie qui intorno e dagli sguardi delle ragazze ho il serio sospetto che ci sia una fila a parte per i pompini, con tanto di numeretti.

La situazione mi appare un po’ bloccata, onestamente. Perché dando una rapida occhiata in giro, gli altri due o tre locali adatti a noi sono nelle stesse condizioni e le siepi al centro della piazza sono troppo piccole per celare agli sguardi altrui una ragazza che spompina un ragazzo. E comunque c'è troppa luce e le panchine tutte intorno sono stracariche più di un barcone di migranti diretto a Lampedusa. Ci sarebbe il multisala, è vero. Ma pagare due biglietti per fare un pompino mi sembra una cosa ridicola. E poi a quest'ora gli ultimi spettacoli sono già cominciati da un pezzo, non ci farebbero entrare. Vada per la sega, mi rassegno, che pippa sia. Accelero il passo sempre tenendolo per mano verso la convergenza di due strade che si dipartono da un angolo della piazza. Lui si lascia condurre docilmente. Inizio quasi a correre incitandolo "dai, vieni" e solo dieci metri dopo colgo il possibile doppio senso di quella mia esortazione e mi rendo conto di essere guidata in questo momento solo dall'inspiegabile e insopprimibile desiderio di far godere questo coattello con le mie manine.

E' praticamente da quando ho cominciato a succhiare cazzi che non porto una sega fino in fondo, ma non credo, perdonatemi il gioco di parole, di avere perso la mano. Me lo ricordo ancora il momento del passaggio, l'upgrade. Dove e con chi ero e quando. Villa Ada, ai tempi del primo liceo. Alex mi impose timidamente le mani sulle spalle per spingermi giù e io aprii la bocca, mettendoci tutta la mia inesperienza. Fu in quel momento che assaggiai il piacere di quella carne in bocca, di quella carne umidiccia e saporita, di quell'inebriante odore, di quella mano sulla testa. E infine di quell'esplosione pulsante del liquido denso, acido e salato insieme che fui costretta, per la verità con grande soddisfazione, a ingoiare. L'avevo già assaggiato, leccandolo dalle mie mani ricoperte di sperma dopo qualche sega. Ma sentirselo schizzare dentro in quel modo, a getti così rapidi da avere paura di restarne soffocata, avendo i conati e tossendo, fu tutta un'altra cosa. Fu allora che capii di non poterne più fare a meno. Naturalmente non fu questo a fare di me una pompinara seriale, quello avvenne solo all’ultimo anno di liceo. Ma in ogni caso, cambiando fidanzato dopo fidanzato (così mi piaceva chiamarli) le mie seghe si trasformarono via via in pompini sempre più raffinati, fatti a ragazzi sempre più stupiti e arrapati.

Ma torniamo a noi. Lo so, me l’avete rimproverato un sacco di volte ma lo sapete che mi piace divagare. Vi dicevo dell’incrocio delle due strade. Ecco, il problema è che arrivati a questo incrocio non so bene dove andare. Scelgo per istinto la più buia e meno frequentata, e poi una traversa ancora più buia e meno frequentata. Non che sia un posto tranquillo e riservato, eh? Tutt’altro. Siamo pur sempre in una delle zone più frequentate di Roma la sera.

Come se non bastasse, squilla il telefono. Dalle note dell’Inno alla gioia di Beethoven riconosco la suoneria associata al contatto di Trilli (lei è una patita di classica). E che cazzo, Tizià, proprio ora... Decido di lasciarlo squillare, poi ci ripenso. E’ capacissima di attaccarsi al telefono in modo compulsivo, la conosco. Afferro l’iPhone dalla borsa e stringo la mano del coattello che mi segue: “Dopo!”, le dico. “Dopo quando?”. “Dopo, chiamo io!”. Poiché anche lei conosce me, un’idea se la starà già facendo.

Vedo una rientranza con un portone pesante, di legno. Che è già qualcosa, perché almeno non saremo illuminati dalla luce dell’androne. L’altro vantaggio è che tra il portone e il marciapiede ci sarà una rientranza di un metro, forse di più. Non è un granché ma è abbastanza per consentire alla sottoscritta di appiattirsi contro un angolo e tirarlo a me, baciarlo. Stavolta sono io che cerco la sua lingua con la mia, che gli passo la mano tra i capelli, che me lo stringo addosso per aderirci e per strusciarmi. Il suo pacco mi si appoggia alla pancia e ho i brividi a sentirne la consistenza. Ma dura poco, per fortuna, perché lui si stacca un attimo per abbassarsi la zip e tirarselo fuori. Porto lo sguardo in basso e lo osservo. E’ buio, ma mi pare di vedere una sagoma lunga e massiccia. Abbasso una mano ma non per toccarlo. Vado più giù, a saggiare i coglioni, che soppeso sotto la tela consumata dei jeans. Lui si appiccica ancora una volta a me e stavolta me la sento perfettamente addosso, sulla pancia, la pressione dell’asta dura. Il mio unico pensiero in questo momento è: “Quanto deve essere grosso”.

Non che lui stia fermo, però. Mi infila la mano sotto la mini, dentro il perizoma e subito dopo un dito nella fica. Non fa per nulla piano, lo muove velocemente e in modo circolare. Se i miei punti del piacere lì dentro sono mille lui ne tocca duemila. Ho uno spasmo fortissimo e come un singhiozzo silenzioso. Lo guardo a bocca aperta e occhi spalancati, incapace di dire una parola. Mi stringo al suo corpo e al suo cazzo duro che svetta dai pantaloni.

- Quanto sei bagnata – fa lui con voce arrapata e sorpresa - daje biondì, prendimelo in mano...

Eseguo. Come una scema, un’idiota irresponsabile che potrebbe tranquillamente finire arrestata per atti osceni in luogo pubblico. Ma lo faccio lo stesso. Eseguo. E’ come se in questo momento non potessi fare nient’altro. E’ cambiato tutto, ora è lui che comanda.

Mentre il suo dito continua a muoversi dentro di me lo sfioro con i polpastrelli. E’ così grosso e teso per merito mio, penso, e oltre alla vagina mi va in pappa anche il cervello.

Miagolo un arrapatissimo “oddio!” dovuto non tanto al suo modo di perquisirmi brutalmente la fica, ma proprio al calore, alle dimensioni e alla consistenza di quel cazzo. Mi si scatena il delirio tra le cosce e sento che sto sicuramente iniziando a colare. Glielo stringo e squittisco come un’adolescente squagliata alle prese con i cazzi dei primi fidanzatini. Il suo dito mi sciacqua dentro, si sente anche il rumore.

E’ finita. Non so come spiegarvelo ma c’è un istante preciso in cui sento che perdo completamente la brocca e sono perfettamente consapevole che sto facendo una cazzata. Ma non posso fermarmi.

- Ce l’hai davvero il preservativo? – gli sussurro affannata stringendogli il pisello.

- Vuoi scopare? – chiede lui annuendo, tra lo stupefatto e l’impaurito – davvero?

- Tiralo fuori, cazzo – gli ansimo con tutta la voglio che ho addosso. Perché non è il momento delle spiegazioni, dei sì, dei no, dei “ma ti sembra il caso qui in mezzo alla strada”.

- Forse ce l’ho, ma è vecchio… - si affanna lui.

Mi stringe la fica e, credo per l’eccitazione, affonda il dito più dentro. Rantolo e mi cedono le ginocchia. Poi però mi molla per scartare il preservativo, che chissà da quanto tempo ce l’ha lì nel portafogli.

Ma ci mette troppo. E io sto lì con il suo stampafanciulle in mano e le pulsazioni che mi sconquassano, non ce la faccio più. Di colpo mi sento insopportabilmente vuota. Ho bisogno di qualcosa dentro, di essere riempita. Di cazzo e, mi rendo conto all’improvviso, anche di sperma. Mi porge quel pezzetto di lattice e io lo butto per terra, affanculo il preservativo. Riempimi di carne, riempimi di sborra. Allargo un po’ le gambe per condurmelo all’ingresso e tenere il perizoma scostato. Lui si piega un po’ sulle ginocchia per agevolarmi e ho una specie di scossa quando sento la sua cappella gonfia che si appoggia sulle mie labbra fradice. Mi sembra enorme. Lui ansima e mi guarda negli occhi, quasi spaurito. Io mi mordo il labbro e ricambio lo sguardo. Mi torna di colpo in mente quello che ho pensato stamattina, mentre guardavo il video che ho mandato a Tommy: voglio essere impalata, subito.

- Fottimi – gli sussurro – sfondamela.

Un attimo dopo arriva l’invasione. Mi separa le labbra, mi divarica dentro, mi gonfia, mi struscia, mi sbatte sul fondo, sul collo dell’utero. Tutto in meno, molto meno, di mezzo secondo. La sua forza di maschio mi è entrata tutta dentro. Istantanea. Il colpo mi solleva quasi da terra e mi mozza il fiato. Devo avere gli occhi sbarrati perché oltre a una vaga sagoma e alla luce in lontananza non vedo nulla, emetto un altro rantolo come se mi stessero strozzando. Mi ha sfondata, come gli avevo chiesto. E’ stato un cozzo fortissimo, inatteso. Bellezza, dolore e sorpresa miscelati insieme, in modo inestricabile. Mi abbandono, ma forse sarebbe meglio dire mi accascio, contro il suo petto.

Alla seconda botta di cazzo invece ululo e mi metto a frignare un "pianooo" che ferisce il mio orgoglio ma che proprio non riesco a trattenere. L'implorazione di una classica, stupida troietta bionda di Roma Nord brutalizzata da un macho in erba dei quartieri popolari. Non era così che doveva finire?

Cerco di aggiustarmi meglio perché mi sembra che faccia fatica a andare avanti e indietro. Lui però prosegue imperterrito. Non credo che lo faccia perché non gliene frega niente di me ma perché, semplicemente, è così che fa, è così che sa fare. Tutto qui. Io invece sono costretta a soffocare il mio urlo affondandogli i denti nella clavicola. Urlerei già di mio per il piacere di essere sbattuta, ma a questo si aggiunge l’intollerabile costanza del suo affondare e ritrarsi. Affonda e torna indietro, affonda e torna indietro. E’ come avere un martello dentro. Mi sento come se mi avesse aperta tutta, ma ad ogni colpo mi apre di più. Sono stupefatta dalla sua capacità di resistere al mio morso. Ringhia e mi tira i capelli per distaccarmi da lui, senza riuscirci. Io resto con i denti conficcati nella sua felpa, nella sua maglia, nella sua carne. Accecata da mille sensazioni. Lui mi tira ancora i capelli, li strappa, ma non si ferma.

Fa avanti e indietro come una macchina. Con una cadenza veloce e regolare al tempo stesso. Mi sento letteralmente prigioniera del suo modo inesorabile di chiavarmi. Ansima sempre più furiosamente e il suo ansimare mi eccita. In me non c’è più un briciolo di dolore o di malessere, ora. Mi piace, Cristo santo quanto mi piace! Le mie grida soffocate sulla sua spalla sono mugolii sempre più acuti che io desidero che lui ascolti, perché voglio che sappia quanto sto godendo e quanto mi sento sua, sotto il suo comando.

Voglio che sappia quanto mi sento femmina, buco da riempire. Incommensurabilmente troia.

Andiamo avanti così per non so quanto tempo. E del resto, in questo momento, il tempo non conta nulla. Lo spazio non conta nulla, l’intero universo intorno a noi non conta nulla.

Ma il suo comando è solo fisico perché, nonostante le apparenze, si vede che ha paura. Lo capisco dal panico nella sua voce che dice “sto venendo biondì, cazzo, non voglio venirti dentro”. Tutto quello che riesco a dire, però, è “sborrami dentro, porco, schizzamela tutta dentro”.

Lui (non Ridge, LUI) si gonfia e pulsa, vibra, mi si conficca ancora più in fondo ed erutta. I suoi fiotti mi colpiscono, si infrangono nella mia piccola grotta calda, la allagano. So di essere lontana dall’orgasmo, ma chissenefrega dell’orgasmo. E’ fantastico anche così. Mi ha aperta, imbottita, sventrata e alla fine è esploso per me, mi si è scaricato dentro, sì è svuotato per me. E io sto godendo di questo in modo indescrivibile.

- Tutta… dammela tutta, ti prego – piagnucolo togliendo i denti dalla sua spalla e appoggiandomi a lui. Il suo cazzo continua a pulsarmi dentro, ho le gambe che mi cedono. Gli prendo la faccia tra le mani e lo bacio, ho bisogno di baciarlo.

Restiamo ad ansimare così, l’una addosso all’altro, per diverso tempo. Quando torno a respirare in modo accettabile mi accuccio davanti al suo uccello e gli do la ripulita che merita. E che merito anche io. Non avrei mai pensato, fino a qualche mese fa, che una delle cose più belle del sesso sarebbe stata ripulire il cazzo che ti ha appena scopata. Forse è una cosa mia, forse è una di quelle cose che non si dicono. Strano, si sanno tanti particolari su come si chiava ma questo no. Non me l’hanno mai detto, non l’ho mai letto.

Non so se ve l’ho mai confidato, ma lo ritengo una specie di dovere, oltre che un piacere. Per meglio dire, il piacere è quello di avere il cazzo nella mia bocca (il suo si sta ammorbidendo molto lentamente, tra l’altro), di sentirne il sapore, il sapore del latte di maschio e del succo di femmina, il mio. Ma a questo si aggiunge il piacere di compiere quel piccolo dovere: ripulire, omaggiare, ringraziare quel cilindro di carne che mi ha dato piacere e che mi ha fatta sua. Un totem, praticamente.

Lui ha una specie di gemito da animaletto ferito, si tende tutto e mi ansima “che bello biondì, non me l’hanno mai fatto”. Me lo tolgo dalla bocca e lo impugno, guardo verso l’alto e gli sorrido: un po’ perché non ci posso credere che non gliene abbiano mai fatto uno, ma soprattutto perché sono davvero felice di essere la prima a regalargli questo piacere. Me lo rimetto in bocca e pompo. E’ un po’ morbido ma ancora bello grosso e me la riempie. Lui geme. Per qualche istante accarezzo l’idea di farglielo ritornare duro e sbocchinarlo lì, in mezzo al marciapiede. Qualcosa mi ferma e probabilmente è meglio così, abbiamo sfidato sin troppo la fortuna.

Anche se a malincuore glielo rinfilo nelle mutande e lui si chiude la zip mentre mi io rimetto in piedi. Ho fatto la cazzata di non aggiustarmi il perizoma e avverto distintamente la tracimazione dello sperma tra le mie cosce. Ho un brivido, nuove contrazioni al ventre e mugolo chiudendo gli occhi. E’ una sensazione che uaaaooo... Ci ho ripensato, sapete? Forse non è stata per nulla una cazzata non ricomporsi subito, forse è stata una buona idea. Lo scorrere di quei rivoli sulla mia pelle, ora, non lo cambierei con nulla al mondo.

Lui mi guarda sempre con quella sua espressione neutra, magari leggermente alterata ma non troppo.

- Dimme ‘na cosa, biondì…

- Dimmi… sospiro appoggiando le mani sulle sue braccia e la testa sulla sua spalla.

- Ma perché?

- Perché cosa?

- Cioè… che te devo da dì… perché sei stata così buona?

Prima ridacchio, poi comincio proprio a ridere di brutto perché una domanda così davvero non me la sarei mai aspettata. Ma lo abbraccio forte, per fargli capire che sto ridendo della sua curiosità, non di lui.

- Cioè, fammi capire – rispondo – prima mi chiedi se te la do e poi vuoi sapere perché te l’ho data?

- Eh… sì… Insomma, sì. Io non…

- Allora devi riformulare la domanda – gli dico.

- Che devo fà?

- Devi dire: perché ti sei fatta scopare in mezzo alla strada come ‘na troia?

- No biondì, non volevo dire questo…

Mi fa improvvisamente tenerezza. Ma allora altro che caterpillar, è timido! Si vede benissimo che si sta sforzando di mantenere un contegno da uomo. Un uomo però non è, è poco più di un ragazzino. Tutta la sua costruita sicurezza vacilla di fronte alla paura di avermi offesa.

- Dirai così ai tuoi amici, no? Che ti sei scopato una zoccoletta di Roma Nord… Sii sincero!

- Be’, che cazzo… - dice abbassando gli occhi e concedendosi una lunga pausa – ma non mi crederanno!

- No, è ovvio che non ti crederanno.
scritto il
2019-10-09
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