A che serve l’estate - Andare a sbattere
di
Browserfast
genere
etero
Nel caso vi interessasse, l’esame è andato bene, grazie. Benissimo. Nel caso in cui non ve ne freghi un cazzo, ve lo dico lo stesso. Il racconto è mio e se mi becco la lode in Matlab avrò pure il diritto di scriverlo, no? Adesso un giorno di riposo e poi mi rimetto sotto con Analisi due, che mi manca solo qualcosa da perfezionare.
Intanto, stasera, pausa. No, niente palestra o jogging. Esco. Con uno che non conosco per nulla, è il primo appuntamento. Me l’ha strappato un po’ per disperazione, nel senso che l’ho tirata per le lunghe ma alla fine ho dovuto promettere ok, appena dato quest’esame ci andiamo a bere qualcosa.
Si chiama Carlo, ha due anni più di me e studia filosofia. In un certo senso ne ho già scritto in un precedente racconto, anche se era così marginale che nemmeno me ne ricordavo. E’ il ragazzo che mi chiese “oh, ma ti senti male?” mentre ero seduta sulla scalinata della facoltà a guardare, sotto la pioggia, il video con il quale quegli stronzi di Gabriele e Vittorio mi avevano sputtanata in chat con Davide, il mio ex. Offrendogli le immagini di loro due che mi facevano quel cazzo che gli pareva. E di me che me lo lasciavo fare, a essere onesta.
Dobbiamo avere orari uguali almeno due volte a settimana, perché lo incontro spesso quando esco da lezione. A meno che, ma non credo, mi faccia la posta. La prima volta che mi ha rivista mi ha semplicemente chiesto “tutto bene?”. Da allora solo qualche sorriso e qualche ciao quando ci incrociavamo. Poi un giorno mi ha fatto “vabbè, ma la prossima volta che passi ti chiedo come ti chiami”. Me l’ha chiesto davvero, eh?
Siamo andati a prendere un caffè qualche volta, sempre dentro la città universitaria, ci siamo scambiati i telefoni ma non è mai successo nulla. Sono passati mesi. Alla fine, una ventina di giorni fa, ha iniziato a chiedermi di uscire una sera o l’altra. Non è che mi andasse molto. Voglio dire, è carino, simpatico. Almeno così sembra. Ma a parte il fatto che cominciavo a darci davvero sotto con lo studio, era un momento un po’ così. Non mi andava molto. Che cazzo ne so perché, capiterà anche a voi, no?
Non è stato molto insistente, devo ammetterlo. Me l’ha chiesto una volta per WhatsApp, invitandomi a un concerto, e una volta un giorno che ci siamo incontrati come al solito davanti alle nostre due facoltà, che praticamente fanno angolo. Magari, quando mi ha detto “ahò, ma quando studi te sei una reclusa…”, non si aspettava che gli rispondessi un “sì” secco e gelido ben oltre le mie intenzioni. Forse proprio per quello gli ho promesso che, una volta dato l’esame, saremmo andati a bere una cosa. Ecco, l’esame l’ho dato e stasera, come dire, mi tocca. Ma sì.
Vi dicevo però, proprio in chiusura del capitolo precedente, che un paio di giorni fa c’è stato un episodio che un po’ mi aveva scombussolata. Ebbene, ve lo debbo raccontare, perché qualcosa c’entra con quello che è successo dopo.
Ero in un bar dietro casa mia, stavo studiando. Vi chiederete perché debba studiare in un bar, giusto. Stavo studiando in un bar perché, in un imprecisato appartamento del mio palazzo, stanno facendo dei lavori che richiedono l’uso di non so cazzo cosa. Un martello pneumatico o qualcosa del genere probabilmente. Non era possibile combinare nulla. Ho preso i libri e tutto il resto e me ne sono andata prima che cominciassero a usare la dinamite. In quel bar tanto ci vanno un sacco di ragazzi e di ragazze, a studiare. O almeno a fare finta, non so. Non era il mio caso. Anziché mettermi fuori all’afa (trenta-trentadue gradi alle dieci di mattina!) mi sono rintanata su un tavolo in un angolino, ho ordinato una Coca zero e mi sono messa all’opera.
Dopo quasi tre ore, era poco prima dell’ora di pranzo, mi si è avvicinato un tipo. Non so da dove venisse, dal bagno credo, dato che mi è spuntato alle spalle. Un bel tipo, eh? Anzi, diciamolo proprio, un gran figo. Giacca e cravatta nonostante il caldo di fuori, una quarantina d’anni, ben piazzato. Mi ha ricordato molto Giancarlo, un mio amico. Forse anche meglio di Giancarlo. Mi ha detto “gli stai proprio dando sotto! Da quanto è che non tiri su gli occhi dai libri?”. L’ho guardato un po’ interdetta, non so se ho fatto la figura di quella davvero concentrata o della scema. Però stavo proprio da un’altra parte, con la testa. Non tanto da un’altra parte, però, da non accorgermi che aveva gli occhi dentro la mia scollatura. Non ero conciata nulla di che, sia chiaro. Avevo preso la prima cosa che avevo trovato sulla sedia dalla sera precedente ed ero uscita di casa. Un vestito nero, lungo. Ampio e fresco, con le spalline sottili. Forse un po’ scollato, ma mica tanto. Se avessi un po’ più di seno lo riempirei di più e non sarebbe un problema, ma non si può proprio dire che andassi in giro con le tette di fuori. Magari, vista la mia posizione chinata sul libro e sul laptop, qualcosa avrà potuto vedere, ma ho preferito non sincerarmi di nulla e dire semplicemente “eh, sì, tra un paio di giorni ho un esame…” con la voce più neutra possibile. Che poi è la voce che mi è uscita naturalmente. Solo dopo ho pensato “però, ammazza che figo”. Ma così, come una notazione a margine. Tant’è vero che quando lui mi ha proposto una pausa per mangiare qualcosa insieme nel bar ho rifiutato. Con un sorriso, ma ho rifiutato. Dicendo che mi aspettavano a casa per pranzo.
Fine della storia? Beh, insomma. C’è da aggiungere qualche dettaglio.
Il primo è che, nonostante lui mi guardasse con una certa insistenza nella scollatura, non mi sono tirata su. Non so bene perché l’abbia fatto ma sono rimasta in quella posizione. Non c’era nulla di esplicito da parte mia, eh? Nessuna intenzionalità di mostrare chissà che. Che poi, che devo mostrare…?
Il secondo dettaglio è che, nonostante a casa a mangiare ci sia andata davvero, per strada mi sono anche detta “oh, ma non è mica normale non pensarci mai, cazzo, è poco sano”. Una stranezza, in effetti, è come se da qualche settimana a questa parte il sesso sia sparito dal mio orizzonte. E’ un periodo che, per dire, mi masturbo quasi meccanicamente, per rilassarmi a letto. Senza quasi pensare a niente e in ogni caso nulla di particolare. Io che, di solito, preferisco prima farmi dei film e poi cominciare a toccarmi. La verità è che non riesco a immaginarmi con nessuno, né con gli amanti passati né con un ipotetico scopatore occasionale. E nemmeno con uno con cui potrei avere una storia. E chi, poi? E quale storia?
Il terzo dettaglio, più che un dettaglio è una coincidenza a dir poco strepitosa, una di quelle che capovolgono le situazioni . Ok, il tipo del bar ci aveva provato con una che aveva la metà dei suoi anni, capita. Ma anche Giancarlo, per dire, ha il doppio dei miei anni.
E in quel momento telefona Giancarlo. Cioè, non è che non lo sento da qualche settimana, non lo sento da mesi! L’ultima volta è stata l’autunno scorso, quando mi ha fatto infilare un ovetto vibrante governato da un’app e mi ha fatto dare spettacolo dentro un ristorante. E mi telefona proprio ora: “Ciao zoccoletta, come stai?”. Non penso che mi abbia mai chiamata Annalisa. Le varianti sono tutte dei vezzeggiativi, ma del tipo “puttanella”, “troietta” o “sgualdrinella”, per capirci. Sarei curiosa di sapere come sono registrata sul suo telefono. Su quello di Sven lo sono come Slut, come se fosse il mio nome. Anche se lui mi chiama Sletje, che è troietta in olandese. Il bello di avere una reputazione è questo, in fondo.
Giancarlo mi ha invitata a cena. Gli ho risposto che ero sotto esame e gli ho controproposto un aperitivo, possibilmente dalle mie parti. Già questo dovrebbe farvi capire come mi gira in questo periodo. Tenete conto che la mia amica Stefania sostiene, e non completamente a torto, che appena Giancarlo mi chiama io accorro scodinzolando. E l’avrei fatto pure questa volta, probabilmente, se solo avesse insistito. Se lui avesse precisato una cosa tipo “ho detto a cena, puttanella” ci sarei andata di corsa a cena, lo ammetto. Invece è stato molto comprensivo e ci siamo dati appuntamento nel solito posto a due-trecento metri da casa mia, giusto per non farmi vedere che salgo sulla macchina elegante di un quarantenne.
Mi sono messa una gonna nemmeno tanto lunga e una maglietta. Come al solito, niente mutandine. Quando esco con lui è sempre così, come se fosse una tacita convenzione. Lo sappiamo entrambi, sin dalla prima sera, che con lui non ne indosso. Ma a parte un paio di ditalini e quella genialata dell’ovetto non ne ha mai approfittato. Nonostante gliel’abbia quasi chiesto in ginocchio. Non mi ha mai scopata. Nemmeno mai concesso di fargli un pompino. E l’altra sera meno che meno, come fossimo padre e figlia. Ero incazzatissima mentre ritornavo a casa, quasi non riuscivo a ricominciare a studiare, dopo cena, per l’incazzatura e la delusione.
Ho deciso che gli concedo un’altra chance, quando sarà (magari mai), ma poi basta. Non ne posso più di aspettare che lui mi faccia sua, anche se dice che sono sua lo stesso. Io per “essere sua” intendo un’altra cosa. Sapere come un uomo della sua età possa sbattermi e usarmi come la puttana che sono. E’ un anno e mezzo che aspetto quel momento. Se me l’avesse chiesto l’altra sera avrei mandato affanculo pure lo studio, vi assicuro.
E’ stato questo, unito all’episodio di quell’altro gran figo che mi scrutava le tette, che mi ha fatta andare un po’ su di giri. Un po’ parecchio. Studiare l’ultimo giorno è stato abbastanza un tormento. Anche se in effetti non c’è nulla di meglio che studiare per farsi passare il prurito, almeno per me.
Ed è per questo che stasera esco con Carlo con intenzioni ben diverse da quelle che avevo quando ho accettato il suo invito. Ho voglia. Non di quelle dirompenti, ma ho voglia. Per la precisione, ho deciso di avere voglia. Spero che Carlo sia carino e mi corteggi. Da parte mia sono pronta a mandargli tutti i segnali possibili, pur rimanendo dentro i confini della decenza. Non mi va che pensi “ammazza che zoccola”. E per dirla tutta, nonostante il desiderio di essere scopata mi sia ben presente, sono pronta a dominarmi e a non fare la figura di quella che gliela dà la prima sera. Stupiti, eh? Sapeste io… Mi piacerebbe che tornasse a casa e non ci dormisse la notte, pensando “beh, però, questa qui… magari possiamo provare a costruirci qualcosa”. Vabbè, forse corro troppo, vedremo. Oddio, se poi lui fosse proprio tanto bravo e irresistibile… Ma chi lo sa. Vabbè, dai, vedremo pure questo.
Il problema, però, è che Carlo non ha pensato ad una uscita a due. E che cazzo. Cioè, per certi versi è perfetto, per altri speravo che saremmo usciti da soli. Ho risposto “ma figurati, va benissimo” quando lui mi ha chiesto “ti dispiace se andiamo in un posto dove ci sono dei miei amici?”. Ma un po’ ci sono rimasta male. E ci sono rimasta un po’ male anche quando hanno deciso di starsene all’aperto anziché andare dentro all’aria condizionata. Carlo a quel punto forse se ne accorge, perché comincia a essere molto più carino con me. Non che i suoi amici e le sue amiche non lo siano. Però dai, cazzo, sono mesi che mi chiedi di uscire insieme e poi mi coinvolgi in una cosa collettiva?
Che poi, diciamoci la verità, non è questo il punto. Voglio dire, è un bel ragazzo, intelligente e a modo, ma proprio non riesce ad agganciarmi il cervello. In fin dei conti, standogli accanto in macchina, ho scoperto che la cosa che più mi attrae di lui è il suo deodorante, davvero una figata, chissà cos’è. Per il resto, mah, insomma… Che devo fare? Devo essere un pochino più puttana? Non lo so. E poi Carlo non mi sembra proprio il tipo che ti fa salire dentro il fuoco della puttana.
Chi te lo fa salire dentro, invece, è proprio quel cazzo di cameriere lì, quello che prende le ordinazioni, parla con la gente e non serve ai tavoli. Strafigo dai capelli scuri e dallo sguardo da stronzo. Dovrebbero metterti fuori dall’ingresso, sai? Ad attirare le ragazze. La immagino, la scena: tutte con le mutandine bagnate prima ancora di ordinare il mojito. Non credo che dipenda da me e dalla mia voglia, è proprio una cosa sua. Perché, voglio dire, a parte la pelle abbronzata e i capelli lunghi racchiusi in un codino, a parte quel ghigno bianchissimo e irresistibile che, in modo distratto, si potrebbe anche definire sorriso, a parte l’uno e novanta-ma-più-probabilmente-novantacinque di altezza e le spalle come quelle di un pugile… beh, a parte tutto questo, deve proprio avere qualcosa di subliminale nello sguardo, nel modo di muoversi, che cazzo ne so? E ripeto, non sono solo io. No, no. Con due ragazze della compagnia di Carlo, dopo che è venuto a prendere le nostre ordinazioni, ci scambiamo uno sguardo che più eloquente non si può.
Detto questo però, come vi dicevo, Carlo si comporta in maniera davvero carina, da un certo momento in poi. Finalmente mi corteggia, vorrebbe perfino invitarmi a ballare visto che in un angolo del giardino c’è una piccola band che fa cover di tutti i generi. Ballare proprio no, visto il caldo e anche la musica. Però andare a vederli da più vicino magari sì. Me lo propone e io accetto. Perché è un modo per restare da soli. Offro volentieri il fianco nudo alla sua mano, anche se la sento bollente. Non mi sono messa in tiro. Mi sono vestita come una ragazzina qualsiasi, con la mini di jeans e un top che avrebbe potuto essere mooolto più striminzito. E non ho nemmeno messo i sandali con le zeppe, perché mi sa che sarei stata più alta di Carlo.
La sua mossa successiva è quella di pescare un divanetto che si è appena liberato e sederci lì, facendo finta di ascoltare la musica. Sa che quella volta che mi ha vista seduta sulla scalinata della facoltà sotto la pioggia stavo piangendo perché tra me e il mio fidanzato era finita in quel momento. Gliel’ho raccontato io, ovviamente senza entrare nei particolari. Ma non mi ha mai chiesto se l’avessi superata, quella botta. Me lo domanda ora e io gli dico che beh, insomma, sì, anche se non è stato facile. Mi dice che quella volta gli sono sembrata davvero un pulcino bagnato e che capisce anche tutte le mie titubanze ad uscire con lui. Non so cosa mi trattenga dal dirgli “no, guarda, hai capito male”. Forse i suoi modi dolci e partecipati nei miei confronti. Dolci un attimo prima di diventare zuccherosi. E nemmeno tanto timidi, visto che dopo che gli ho detto che adesso va meglio, mi fa “sono davvero contento” e mi schiocca un bacio sulla guancia. Non è un bacetto come quelli che ci si scambia quando ci si incontra o ci si saluta, eh? Sento proprio lo stampo delle labbra sulla guancia. Gli sorrido e gli dico “eh vabbè, dai, è una vita che non becco un bacio, s può fare di meglio”. Mi guarda sorpreso e, per un istante, credo che stia per gonfiarsi e fare la ruota come un pavone. Poi appoggia le sue labbra sulle mie. Tre, quattro rapidi bacetti quasi timidi prima di infilarmi la lingua in bocca. E anche in questo caso in modo nemmeno troppo prepotente.
Restiamo così, a limonare blandamente e a parlare per un po’. Finché alle sue spalle non appare il cameriere strafigo. Ora, io non penso di farci davvero qualcosa, né stasera né mai. Anche perché, dopo essere stata sbattuta da Carmine, quello del pub dove va Brenno, non è che posso farmi ripassare da tutti i camerieri di Roma. Già l’altr’anno di questi tempi me ne è capitato uno. Però mi piace, cazzo, mi piace. Lui sì che mi fa sesso e mi fa venire voglia di essere puttana.
Per un secondo mi guarda come, penso, guarderebbe qualsiasi ragazza carina. Io invece lo seguo proprio con gli occhi e lui se ne accorge, e ricambia lo sguardo. Dopo avere fatto finta di ridere a una battuta, afferro la faccia di Carlo tra le mani e gli do un bacio molto più appassionato di quelli di prima. Questa sì che è scuola di recitazione, cazzo. Sono certa, stracerta, di comunicargli con quel bacio una cosa come “sono una brava ragazza sfitta da troppo tempo e che non ha nessuna voglia di rimanere zitella, sei tu quello giusto? il mio cavaliere?”. Se avessi invece voluto comunicargli “portami da qualche parte e scopami”, state tranquilli che l’avrei baciato in modo diverso. Carlo, sorpreso, si irrigidisce un attimo poi si abbandona, mi bacia ricambiando la passione e mi stringe.
In tutto ciò, io, tengo gli occhi bene aperti. A fissare il cameriere. E lui fa altrettanto.
Hai capito cosa significa, sì? Non mi dai l’aria di essere né un cretino né uno sprovveduto. Però guarda, se proprio avessi ancora qualche dubbio mi stendo un po’ sul divanetto e spalanco le cosce. Da lì non dovresti avere difficoltà a vedermi le mutandine, no? E chissenefrega se le vede anche qualcun altro. Lui le vede, sì che le vede. La direzione del suo sguardo porta lì. Poi rialza gli occhi e mi lancia un ghigno di intesa prima di allontanarsi. Io credo di essere già un po’ bagnata.
Carlo mi dice che sarebbe meglio ritornare dagli altri che si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto. Rispondo “ma se li andassi ad avvertire che restiamo un po’ io e te qui da soli? Magari mi porti anche la borsa e io vado a prendere un paio di birre, se ti va… ah no, cavolo, ho i soldi nella borsa…”.
Chiaramente, i soldi me li dà Carlo. Mi dirigo all’interno del locale per prendere le birre direttamente al bancone e, mentre cammino, penso che solo per questo meriterei la laurea ad honorem di troia. Ma non è che abbia particolari rimorsi. E nemmeno particolari motivi di soddisfazione. Lo constato, ecco tutto.
Ok, non c’è nessuna certezza che il tentativo mi riesca, ma lasciatemi almeno provare, no? E dato che tentar non nuoce, la fortuna aiuta gli audaci e tutte queste cazzate qui, mentre la ragazza al banco sta spillando la prima birra una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare: “Lascia, faccio io, vai ad aiutare Gigi”.
Lo guardo mentre cerca di evitare l’eccesso di schiuma nel bicchiere. Lo guardo senza dire una parola. Del resto tocca a lui.
– Ti piace provocare, eh?
Vorrei dirgli “sapessi cosa mi provoca la tua voce”. E’ profonda e sicura. Promette qualsiasi cosa.
– E a te piace guardare… – rispondo invece.
Ghigna, cazzo come ghigna. Mi dà della zoccoletta senza dirmelo, con un ghigno.
– Sei una ragazzina un po’ mattacchiona – mi dice.
– Scusa? Quanti anni mi dai?
– Sedici, diciassette… in teoria non dovrei nemmeno darti la birra, e neppure il gin tonic di prima… Giochi a fare la grande?
– Ho venti anni ad agosto, e tu?
– Ah però… Ventotto. Come ti chiami?
– Io Annalisa…
– Piacere, Annalisa, io sono Jean.
– Jean?
– Jean – mi dice come se fossi la solita cogliona che chiede spiegazioni sul nome straniero – mia madre è francese.
– Ciao, Jean – dico chiedendo implicitamente scusa con il tono di voce – lavori da molto qui?
– Qualche anno, tu che fai?
– Io studio matematica…
– Interessante…
– Parecchio, ma ci sono tante altre cose interessanti nella vita… – rispondo tornando a fare l’oca.
Sorride, sorride come se avesse capito tutto. Mi chiede “quello è il tuo ragazzo?”, mento e gli rispondo di sì. Dice “strano, era qui l’altra sera e tu non c’eri….”. Gli spiego che stavo preparando un esame e che comunque stiamo insieme da un anno. Tanto, che cazzo ne può sapere?
Pago, con il cuore a mille. E quando mi porta il resto mi sono già preparata la frase.
– Magari una sera ci vengo da sola… – dico impugnando i due bicchieri.
Mi volto e me ne vado. Imponendomi di non accentuare il mio sculettamento. Se ne accorgerebbe e poi non c’è bisogno di eccessi. Il suo “quando vuoi” mi raggiunge alle spalle e quasi mi sbrana viva. Mi sembra di avere due cuori, adesso. Uno dei quali batte in mezzo alle cosce.
Non so se sia normale che due parole – “quando vuoi” – possano farti questo effetto. Per quanto mi riguarda, è come se mi avessero gettata prona su un letto e stessero per penetrarmi. Chiudo gli occhi e immagino la scena. Se cercavo un protagonista dei miei film mentali e autoerotici beh, cazzo, l’ho trovato. Io e le mie gambe aperte, lui e la sua stanga dura. Massacro il mio sesso perché è così che mi ha detto di fare e c’è una macchia sulle lenzuola grigie. Sto colando una immensa e insostenibile voglia. Immediatamente dopo, sono la sua troia. Gli grido fottimi, sbattimi, ti sento tutto dentro. E sì, Jean, la mia allucinazione è esattamente questa. Mi stai montando e io ti accolgo tra le mie cosce e sento tutta la forza del tuo corpo che mi schiaccia. La tua mole che mi impedisce di respirare, Jean, l’odore della tua pelle, del tuo sudore, l’odore di maschio. Il profumo del tuo alito, la tua saliva che riempie la mia bocca la tua carne che sfrega sulla mia… Dio, in calore e con le gambe sollevate, le ginocchia piegate… e al centro c’è un fuoco. In mezzo a quel fuoco c’è la tua voglia ossessiva. E poi la mia offerta più indecente, mentre mi prendi a quattrozampe. “Inculami”. “Scusa?” . “Hai capito benissimo”. “Ripetilo”. “Inculami, mettimelo nel culo”. “Supplica, troia”. “Sfondami, non avere pietà…”.
Non lo so nemmeno io quanti metri faccio immaginando questa scena, con i bicchieri di birra in mano e lo sguardo sbarrato. Con la mia fica che si contrae e si apre, cola nelle mutandine al solo pensiero di essere completamente sua. So solo che sono quasi arrivata al divanetto dove mi aspetta Carlo.
Poi la botta, corpo contro corpo. Il risveglio. Mezza birra che da uno dei due bicchieri precipita per terra. Sono andata a sbattere contro qualcuno. “Scusa, scusa, non volevo!”.
La vista che ritorna, la sorpresa, il risveglio.
– Cosa cazzo ci fai, qui, TU?
CONTINUA
Intanto, stasera, pausa. No, niente palestra o jogging. Esco. Con uno che non conosco per nulla, è il primo appuntamento. Me l’ha strappato un po’ per disperazione, nel senso che l’ho tirata per le lunghe ma alla fine ho dovuto promettere ok, appena dato quest’esame ci andiamo a bere qualcosa.
Si chiama Carlo, ha due anni più di me e studia filosofia. In un certo senso ne ho già scritto in un precedente racconto, anche se era così marginale che nemmeno me ne ricordavo. E’ il ragazzo che mi chiese “oh, ma ti senti male?” mentre ero seduta sulla scalinata della facoltà a guardare, sotto la pioggia, il video con il quale quegli stronzi di Gabriele e Vittorio mi avevano sputtanata in chat con Davide, il mio ex. Offrendogli le immagini di loro due che mi facevano quel cazzo che gli pareva. E di me che me lo lasciavo fare, a essere onesta.
Dobbiamo avere orari uguali almeno due volte a settimana, perché lo incontro spesso quando esco da lezione. A meno che, ma non credo, mi faccia la posta. La prima volta che mi ha rivista mi ha semplicemente chiesto “tutto bene?”. Da allora solo qualche sorriso e qualche ciao quando ci incrociavamo. Poi un giorno mi ha fatto “vabbè, ma la prossima volta che passi ti chiedo come ti chiami”. Me l’ha chiesto davvero, eh?
Siamo andati a prendere un caffè qualche volta, sempre dentro la città universitaria, ci siamo scambiati i telefoni ma non è mai successo nulla. Sono passati mesi. Alla fine, una ventina di giorni fa, ha iniziato a chiedermi di uscire una sera o l’altra. Non è che mi andasse molto. Voglio dire, è carino, simpatico. Almeno così sembra. Ma a parte il fatto che cominciavo a darci davvero sotto con lo studio, era un momento un po’ così. Non mi andava molto. Che cazzo ne so perché, capiterà anche a voi, no?
Non è stato molto insistente, devo ammetterlo. Me l’ha chiesto una volta per WhatsApp, invitandomi a un concerto, e una volta un giorno che ci siamo incontrati come al solito davanti alle nostre due facoltà, che praticamente fanno angolo. Magari, quando mi ha detto “ahò, ma quando studi te sei una reclusa…”, non si aspettava che gli rispondessi un “sì” secco e gelido ben oltre le mie intenzioni. Forse proprio per quello gli ho promesso che, una volta dato l’esame, saremmo andati a bere una cosa. Ecco, l’esame l’ho dato e stasera, come dire, mi tocca. Ma sì.
Vi dicevo però, proprio in chiusura del capitolo precedente, che un paio di giorni fa c’è stato un episodio che un po’ mi aveva scombussolata. Ebbene, ve lo debbo raccontare, perché qualcosa c’entra con quello che è successo dopo.
Ero in un bar dietro casa mia, stavo studiando. Vi chiederete perché debba studiare in un bar, giusto. Stavo studiando in un bar perché, in un imprecisato appartamento del mio palazzo, stanno facendo dei lavori che richiedono l’uso di non so cazzo cosa. Un martello pneumatico o qualcosa del genere probabilmente. Non era possibile combinare nulla. Ho preso i libri e tutto il resto e me ne sono andata prima che cominciassero a usare la dinamite. In quel bar tanto ci vanno un sacco di ragazzi e di ragazze, a studiare. O almeno a fare finta, non so. Non era il mio caso. Anziché mettermi fuori all’afa (trenta-trentadue gradi alle dieci di mattina!) mi sono rintanata su un tavolo in un angolino, ho ordinato una Coca zero e mi sono messa all’opera.
Dopo quasi tre ore, era poco prima dell’ora di pranzo, mi si è avvicinato un tipo. Non so da dove venisse, dal bagno credo, dato che mi è spuntato alle spalle. Un bel tipo, eh? Anzi, diciamolo proprio, un gran figo. Giacca e cravatta nonostante il caldo di fuori, una quarantina d’anni, ben piazzato. Mi ha ricordato molto Giancarlo, un mio amico. Forse anche meglio di Giancarlo. Mi ha detto “gli stai proprio dando sotto! Da quanto è che non tiri su gli occhi dai libri?”. L’ho guardato un po’ interdetta, non so se ho fatto la figura di quella davvero concentrata o della scema. Però stavo proprio da un’altra parte, con la testa. Non tanto da un’altra parte, però, da non accorgermi che aveva gli occhi dentro la mia scollatura. Non ero conciata nulla di che, sia chiaro. Avevo preso la prima cosa che avevo trovato sulla sedia dalla sera precedente ed ero uscita di casa. Un vestito nero, lungo. Ampio e fresco, con le spalline sottili. Forse un po’ scollato, ma mica tanto. Se avessi un po’ più di seno lo riempirei di più e non sarebbe un problema, ma non si può proprio dire che andassi in giro con le tette di fuori. Magari, vista la mia posizione chinata sul libro e sul laptop, qualcosa avrà potuto vedere, ma ho preferito non sincerarmi di nulla e dire semplicemente “eh, sì, tra un paio di giorni ho un esame…” con la voce più neutra possibile. Che poi è la voce che mi è uscita naturalmente. Solo dopo ho pensato “però, ammazza che figo”. Ma così, come una notazione a margine. Tant’è vero che quando lui mi ha proposto una pausa per mangiare qualcosa insieme nel bar ho rifiutato. Con un sorriso, ma ho rifiutato. Dicendo che mi aspettavano a casa per pranzo.
Fine della storia? Beh, insomma. C’è da aggiungere qualche dettaglio.
Il primo è che, nonostante lui mi guardasse con una certa insistenza nella scollatura, non mi sono tirata su. Non so bene perché l’abbia fatto ma sono rimasta in quella posizione. Non c’era nulla di esplicito da parte mia, eh? Nessuna intenzionalità di mostrare chissà che. Che poi, che devo mostrare…?
Il secondo dettaglio è che, nonostante a casa a mangiare ci sia andata davvero, per strada mi sono anche detta “oh, ma non è mica normale non pensarci mai, cazzo, è poco sano”. Una stranezza, in effetti, è come se da qualche settimana a questa parte il sesso sia sparito dal mio orizzonte. E’ un periodo che, per dire, mi masturbo quasi meccanicamente, per rilassarmi a letto. Senza quasi pensare a niente e in ogni caso nulla di particolare. Io che, di solito, preferisco prima farmi dei film e poi cominciare a toccarmi. La verità è che non riesco a immaginarmi con nessuno, né con gli amanti passati né con un ipotetico scopatore occasionale. E nemmeno con uno con cui potrei avere una storia. E chi, poi? E quale storia?
Il terzo dettaglio, più che un dettaglio è una coincidenza a dir poco strepitosa, una di quelle che capovolgono le situazioni . Ok, il tipo del bar ci aveva provato con una che aveva la metà dei suoi anni, capita. Ma anche Giancarlo, per dire, ha il doppio dei miei anni.
E in quel momento telefona Giancarlo. Cioè, non è che non lo sento da qualche settimana, non lo sento da mesi! L’ultima volta è stata l’autunno scorso, quando mi ha fatto infilare un ovetto vibrante governato da un’app e mi ha fatto dare spettacolo dentro un ristorante. E mi telefona proprio ora: “Ciao zoccoletta, come stai?”. Non penso che mi abbia mai chiamata Annalisa. Le varianti sono tutte dei vezzeggiativi, ma del tipo “puttanella”, “troietta” o “sgualdrinella”, per capirci. Sarei curiosa di sapere come sono registrata sul suo telefono. Su quello di Sven lo sono come Slut, come se fosse il mio nome. Anche se lui mi chiama Sletje, che è troietta in olandese. Il bello di avere una reputazione è questo, in fondo.
Giancarlo mi ha invitata a cena. Gli ho risposto che ero sotto esame e gli ho controproposto un aperitivo, possibilmente dalle mie parti. Già questo dovrebbe farvi capire come mi gira in questo periodo. Tenete conto che la mia amica Stefania sostiene, e non completamente a torto, che appena Giancarlo mi chiama io accorro scodinzolando. E l’avrei fatto pure questa volta, probabilmente, se solo avesse insistito. Se lui avesse precisato una cosa tipo “ho detto a cena, puttanella” ci sarei andata di corsa a cena, lo ammetto. Invece è stato molto comprensivo e ci siamo dati appuntamento nel solito posto a due-trecento metri da casa mia, giusto per non farmi vedere che salgo sulla macchina elegante di un quarantenne.
Mi sono messa una gonna nemmeno tanto lunga e una maglietta. Come al solito, niente mutandine. Quando esco con lui è sempre così, come se fosse una tacita convenzione. Lo sappiamo entrambi, sin dalla prima sera, che con lui non ne indosso. Ma a parte un paio di ditalini e quella genialata dell’ovetto non ne ha mai approfittato. Nonostante gliel’abbia quasi chiesto in ginocchio. Non mi ha mai scopata. Nemmeno mai concesso di fargli un pompino. E l’altra sera meno che meno, come fossimo padre e figlia. Ero incazzatissima mentre ritornavo a casa, quasi non riuscivo a ricominciare a studiare, dopo cena, per l’incazzatura e la delusione.
Ho deciso che gli concedo un’altra chance, quando sarà (magari mai), ma poi basta. Non ne posso più di aspettare che lui mi faccia sua, anche se dice che sono sua lo stesso. Io per “essere sua” intendo un’altra cosa. Sapere come un uomo della sua età possa sbattermi e usarmi come la puttana che sono. E’ un anno e mezzo che aspetto quel momento. Se me l’avesse chiesto l’altra sera avrei mandato affanculo pure lo studio, vi assicuro.
E’ stato questo, unito all’episodio di quell’altro gran figo che mi scrutava le tette, che mi ha fatta andare un po’ su di giri. Un po’ parecchio. Studiare l’ultimo giorno è stato abbastanza un tormento. Anche se in effetti non c’è nulla di meglio che studiare per farsi passare il prurito, almeno per me.
Ed è per questo che stasera esco con Carlo con intenzioni ben diverse da quelle che avevo quando ho accettato il suo invito. Ho voglia. Non di quelle dirompenti, ma ho voglia. Per la precisione, ho deciso di avere voglia. Spero che Carlo sia carino e mi corteggi. Da parte mia sono pronta a mandargli tutti i segnali possibili, pur rimanendo dentro i confini della decenza. Non mi va che pensi “ammazza che zoccola”. E per dirla tutta, nonostante il desiderio di essere scopata mi sia ben presente, sono pronta a dominarmi e a non fare la figura di quella che gliela dà la prima sera. Stupiti, eh? Sapeste io… Mi piacerebbe che tornasse a casa e non ci dormisse la notte, pensando “beh, però, questa qui… magari possiamo provare a costruirci qualcosa”. Vabbè, forse corro troppo, vedremo. Oddio, se poi lui fosse proprio tanto bravo e irresistibile… Ma chi lo sa. Vabbè, dai, vedremo pure questo.
Il problema, però, è che Carlo non ha pensato ad una uscita a due. E che cazzo. Cioè, per certi versi è perfetto, per altri speravo che saremmo usciti da soli. Ho risposto “ma figurati, va benissimo” quando lui mi ha chiesto “ti dispiace se andiamo in un posto dove ci sono dei miei amici?”. Ma un po’ ci sono rimasta male. E ci sono rimasta un po’ male anche quando hanno deciso di starsene all’aperto anziché andare dentro all’aria condizionata. Carlo a quel punto forse se ne accorge, perché comincia a essere molto più carino con me. Non che i suoi amici e le sue amiche non lo siano. Però dai, cazzo, sono mesi che mi chiedi di uscire insieme e poi mi coinvolgi in una cosa collettiva?
Che poi, diciamoci la verità, non è questo il punto. Voglio dire, è un bel ragazzo, intelligente e a modo, ma proprio non riesce ad agganciarmi il cervello. In fin dei conti, standogli accanto in macchina, ho scoperto che la cosa che più mi attrae di lui è il suo deodorante, davvero una figata, chissà cos’è. Per il resto, mah, insomma… Che devo fare? Devo essere un pochino più puttana? Non lo so. E poi Carlo non mi sembra proprio il tipo che ti fa salire dentro il fuoco della puttana.
Chi te lo fa salire dentro, invece, è proprio quel cazzo di cameriere lì, quello che prende le ordinazioni, parla con la gente e non serve ai tavoli. Strafigo dai capelli scuri e dallo sguardo da stronzo. Dovrebbero metterti fuori dall’ingresso, sai? Ad attirare le ragazze. La immagino, la scena: tutte con le mutandine bagnate prima ancora di ordinare il mojito. Non credo che dipenda da me e dalla mia voglia, è proprio una cosa sua. Perché, voglio dire, a parte la pelle abbronzata e i capelli lunghi racchiusi in un codino, a parte quel ghigno bianchissimo e irresistibile che, in modo distratto, si potrebbe anche definire sorriso, a parte l’uno e novanta-ma-più-probabilmente-novantacinque di altezza e le spalle come quelle di un pugile… beh, a parte tutto questo, deve proprio avere qualcosa di subliminale nello sguardo, nel modo di muoversi, che cazzo ne so? E ripeto, non sono solo io. No, no. Con due ragazze della compagnia di Carlo, dopo che è venuto a prendere le nostre ordinazioni, ci scambiamo uno sguardo che più eloquente non si può.
Detto questo però, come vi dicevo, Carlo si comporta in maniera davvero carina, da un certo momento in poi. Finalmente mi corteggia, vorrebbe perfino invitarmi a ballare visto che in un angolo del giardino c’è una piccola band che fa cover di tutti i generi. Ballare proprio no, visto il caldo e anche la musica. Però andare a vederli da più vicino magari sì. Me lo propone e io accetto. Perché è un modo per restare da soli. Offro volentieri il fianco nudo alla sua mano, anche se la sento bollente. Non mi sono messa in tiro. Mi sono vestita come una ragazzina qualsiasi, con la mini di jeans e un top che avrebbe potuto essere mooolto più striminzito. E non ho nemmeno messo i sandali con le zeppe, perché mi sa che sarei stata più alta di Carlo.
La sua mossa successiva è quella di pescare un divanetto che si è appena liberato e sederci lì, facendo finta di ascoltare la musica. Sa che quella volta che mi ha vista seduta sulla scalinata della facoltà sotto la pioggia stavo piangendo perché tra me e il mio fidanzato era finita in quel momento. Gliel’ho raccontato io, ovviamente senza entrare nei particolari. Ma non mi ha mai chiesto se l’avessi superata, quella botta. Me lo domanda ora e io gli dico che beh, insomma, sì, anche se non è stato facile. Mi dice che quella volta gli sono sembrata davvero un pulcino bagnato e che capisce anche tutte le mie titubanze ad uscire con lui. Non so cosa mi trattenga dal dirgli “no, guarda, hai capito male”. Forse i suoi modi dolci e partecipati nei miei confronti. Dolci un attimo prima di diventare zuccherosi. E nemmeno tanto timidi, visto che dopo che gli ho detto che adesso va meglio, mi fa “sono davvero contento” e mi schiocca un bacio sulla guancia. Non è un bacetto come quelli che ci si scambia quando ci si incontra o ci si saluta, eh? Sento proprio lo stampo delle labbra sulla guancia. Gli sorrido e gli dico “eh vabbè, dai, è una vita che non becco un bacio, s può fare di meglio”. Mi guarda sorpreso e, per un istante, credo che stia per gonfiarsi e fare la ruota come un pavone. Poi appoggia le sue labbra sulle mie. Tre, quattro rapidi bacetti quasi timidi prima di infilarmi la lingua in bocca. E anche in questo caso in modo nemmeno troppo prepotente.
Restiamo così, a limonare blandamente e a parlare per un po’. Finché alle sue spalle non appare il cameriere strafigo. Ora, io non penso di farci davvero qualcosa, né stasera né mai. Anche perché, dopo essere stata sbattuta da Carmine, quello del pub dove va Brenno, non è che posso farmi ripassare da tutti i camerieri di Roma. Già l’altr’anno di questi tempi me ne è capitato uno. Però mi piace, cazzo, mi piace. Lui sì che mi fa sesso e mi fa venire voglia di essere puttana.
Per un secondo mi guarda come, penso, guarderebbe qualsiasi ragazza carina. Io invece lo seguo proprio con gli occhi e lui se ne accorge, e ricambia lo sguardo. Dopo avere fatto finta di ridere a una battuta, afferro la faccia di Carlo tra le mani e gli do un bacio molto più appassionato di quelli di prima. Questa sì che è scuola di recitazione, cazzo. Sono certa, stracerta, di comunicargli con quel bacio una cosa come “sono una brava ragazza sfitta da troppo tempo e che non ha nessuna voglia di rimanere zitella, sei tu quello giusto? il mio cavaliere?”. Se avessi invece voluto comunicargli “portami da qualche parte e scopami”, state tranquilli che l’avrei baciato in modo diverso. Carlo, sorpreso, si irrigidisce un attimo poi si abbandona, mi bacia ricambiando la passione e mi stringe.
In tutto ciò, io, tengo gli occhi bene aperti. A fissare il cameriere. E lui fa altrettanto.
Hai capito cosa significa, sì? Non mi dai l’aria di essere né un cretino né uno sprovveduto. Però guarda, se proprio avessi ancora qualche dubbio mi stendo un po’ sul divanetto e spalanco le cosce. Da lì non dovresti avere difficoltà a vedermi le mutandine, no? E chissenefrega se le vede anche qualcun altro. Lui le vede, sì che le vede. La direzione del suo sguardo porta lì. Poi rialza gli occhi e mi lancia un ghigno di intesa prima di allontanarsi. Io credo di essere già un po’ bagnata.
Carlo mi dice che sarebbe meglio ritornare dagli altri che si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto. Rispondo “ma se li andassi ad avvertire che restiamo un po’ io e te qui da soli? Magari mi porti anche la borsa e io vado a prendere un paio di birre, se ti va… ah no, cavolo, ho i soldi nella borsa…”.
Chiaramente, i soldi me li dà Carlo. Mi dirigo all’interno del locale per prendere le birre direttamente al bancone e, mentre cammino, penso che solo per questo meriterei la laurea ad honorem di troia. Ma non è che abbia particolari rimorsi. E nemmeno particolari motivi di soddisfazione. Lo constato, ecco tutto.
Ok, non c’è nessuna certezza che il tentativo mi riesca, ma lasciatemi almeno provare, no? E dato che tentar non nuoce, la fortuna aiuta gli audaci e tutte queste cazzate qui, mentre la ragazza al banco sta spillando la prima birra una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare: “Lascia, faccio io, vai ad aiutare Gigi”.
Lo guardo mentre cerca di evitare l’eccesso di schiuma nel bicchiere. Lo guardo senza dire una parola. Del resto tocca a lui.
– Ti piace provocare, eh?
Vorrei dirgli “sapessi cosa mi provoca la tua voce”. E’ profonda e sicura. Promette qualsiasi cosa.
– E a te piace guardare… – rispondo invece.
Ghigna, cazzo come ghigna. Mi dà della zoccoletta senza dirmelo, con un ghigno.
– Sei una ragazzina un po’ mattacchiona – mi dice.
– Scusa? Quanti anni mi dai?
– Sedici, diciassette… in teoria non dovrei nemmeno darti la birra, e neppure il gin tonic di prima… Giochi a fare la grande?
– Ho venti anni ad agosto, e tu?
– Ah però… Ventotto. Come ti chiami?
– Io Annalisa…
– Piacere, Annalisa, io sono Jean.
– Jean?
– Jean – mi dice come se fossi la solita cogliona che chiede spiegazioni sul nome straniero – mia madre è francese.
– Ciao, Jean – dico chiedendo implicitamente scusa con il tono di voce – lavori da molto qui?
– Qualche anno, tu che fai?
– Io studio matematica…
– Interessante…
– Parecchio, ma ci sono tante altre cose interessanti nella vita… – rispondo tornando a fare l’oca.
Sorride, sorride come se avesse capito tutto. Mi chiede “quello è il tuo ragazzo?”, mento e gli rispondo di sì. Dice “strano, era qui l’altra sera e tu non c’eri….”. Gli spiego che stavo preparando un esame e che comunque stiamo insieme da un anno. Tanto, che cazzo ne può sapere?
Pago, con il cuore a mille. E quando mi porta il resto mi sono già preparata la frase.
– Magari una sera ci vengo da sola… – dico impugnando i due bicchieri.
Mi volto e me ne vado. Imponendomi di non accentuare il mio sculettamento. Se ne accorgerebbe e poi non c’è bisogno di eccessi. Il suo “quando vuoi” mi raggiunge alle spalle e quasi mi sbrana viva. Mi sembra di avere due cuori, adesso. Uno dei quali batte in mezzo alle cosce.
Non so se sia normale che due parole – “quando vuoi” – possano farti questo effetto. Per quanto mi riguarda, è come se mi avessero gettata prona su un letto e stessero per penetrarmi. Chiudo gli occhi e immagino la scena. Se cercavo un protagonista dei miei film mentali e autoerotici beh, cazzo, l’ho trovato. Io e le mie gambe aperte, lui e la sua stanga dura. Massacro il mio sesso perché è così che mi ha detto di fare e c’è una macchia sulle lenzuola grigie. Sto colando una immensa e insostenibile voglia. Immediatamente dopo, sono la sua troia. Gli grido fottimi, sbattimi, ti sento tutto dentro. E sì, Jean, la mia allucinazione è esattamente questa. Mi stai montando e io ti accolgo tra le mie cosce e sento tutta la forza del tuo corpo che mi schiaccia. La tua mole che mi impedisce di respirare, Jean, l’odore della tua pelle, del tuo sudore, l’odore di maschio. Il profumo del tuo alito, la tua saliva che riempie la mia bocca la tua carne che sfrega sulla mia… Dio, in calore e con le gambe sollevate, le ginocchia piegate… e al centro c’è un fuoco. In mezzo a quel fuoco c’è la tua voglia ossessiva. E poi la mia offerta più indecente, mentre mi prendi a quattrozampe. “Inculami”. “Scusa?” . “Hai capito benissimo”. “Ripetilo”. “Inculami, mettimelo nel culo”. “Supplica, troia”. “Sfondami, non avere pietà…”.
Non lo so nemmeno io quanti metri faccio immaginando questa scena, con i bicchieri di birra in mano e lo sguardo sbarrato. Con la mia fica che si contrae e si apre, cola nelle mutandine al solo pensiero di essere completamente sua. So solo che sono quasi arrivata al divanetto dove mi aspetta Carlo.
Poi la botta, corpo contro corpo. Il risveglio. Mezza birra che da uno dei due bicchieri precipita per terra. Sono andata a sbattere contro qualcuno. “Scusa, scusa, non volevo!”.
La vista che ritorna, la sorpresa, il risveglio.
– Cosa cazzo ci fai, qui, TU?
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