Rimbalzando sull'oceano.
di
samas2
genere
etero
Era sdraiato, inzuppato del suo sudore, la cefalea con le sue branchie gli attanagliava il cervello che pareva in procinto di esplodere. Allungò il suo braccio destro e incontrò una massa di carne morbida e tremolante al suo tatto.
- Dio mio….
Gli occhi stentavano ad aprirsi e quando accadde lo fecero dolorosamente, lame di luce li ferirono. Prese faticosamente familiarità con gli oggetti, gli abiti sparsi in disordine. Che diavolo aveva combinato nella notte appena trascorsa?
…Rosy, la “balena bianca”, così la chiamavano. Doveva aver alzato troppo il gomito per finire nel suo talamo.
Lei lo guardò sorridendo e fissandolo trionfante coi suoi occhietti porcini annegati nel suo tondo faccione:
- Finalmente, John Satri sono riuscita a portarti a letto.
Nelle sua mente ora si formavano confuse immagini di lui immerso in quelle mammelle, smisurate montagne di carne gelatinosa che sembravano inghiottirlo; ricordò il suo cedere e abbandonarsi a quell’amplesso avvolgente.
Uscì ancora stordito. Era quasi mezzogiorno, faceva molto caldo; il cielo era di piombo nell’aria immota e carica d’umidità. Il quartiere di reietti come lui era sorto senza criterio, nel disordine e il degrado regnava incontrastato. Edifici dalle raffazzonate architetture coi muri sbrecciati, rigagnoli maleodoranti che scorrevano pigri, ma fra quello squallore fiori variopinti coltivati in barattoli arrugginiti urlavano un indomabile bisogno di bellezza, rivendicavano un’umanità comunque viva. Attraverso storte viuzze giunse sul ponte che solcava il maestoso fiume che aveva appena descritto un’ampia ansa. Indugiò a fissarne la corrente che nei rigiri, nei mulinelli, nei ritorni della corrente impigliava la luce in spirali luccicanti, in corone e raggi luminosi.
Pensò che, sotto la sua superficie limacciosa, forse nascondeva invisibili mostri tenebrosi come quelli della sua mente. Vissuto e sogni si impastavano, cancellando i confini spazio temporali fino a smarrire, nella confusione, il nesso con la realtà. Senza presente né futuro era inutile rifugiarsi nella memoria, perché essa era ormai solo rammarico. La sua professionalità, i suoi affetti distrutti da quel maledetto errore così imperdonabile. Era affondato sempre più incapace di chiedere aiuto costretto nel suo orgoglio disperante. Neppure la spaventosa necessità derivante dalla recente devastante epidemia l’aveva potuto rimettere in pista per un riscatto. Il suo passato era così impresentabile che l’aiuto disinteressato che aveva offerto era stato rifiutato. Avrebbe voluto tanto dare la sua vita eroicamente per redimersi, ma gli era stato riservata la sorte di rimanere ai margini, respinto e inutile a macerarsi nella sua disperazione, a scontare la sua pena vivendo. Rifiutato finanche dal terribile virus che imperversava cieco, sordo e indifferente alla grandezza, dignità, unicità delle vite che falciava.
Giunto alla baracca che che costituiva la sua dimora, si rassettò, si rase con l'aiuto di uno specchietto fissato all’esterno su uno spuntone di roccia. Poi rivestitosi con ciò di meglio che possedeva nel suo raccogliticcio guardaroba si diresse verso la città. Camminando lungo il tragitto dismesso della ferrovia su un terreno cosparso di rosticcio, rottami ed erbacce raggiunse il centro della città, territorio estraneo a lui. Vagò a lungo percorrendo vie che si incrociavano in quadrivi che parevano replicarsi in una noiosa sequenza.
Con l’ultimo denaro che gli restava entrò nel bar deciso concedersi qualcosa di meglio rispetto al piscio tossico che trangugiava nelle sordide bettole, abituale meta delle sue uscite.
Seduto al tavolo in angolo ordinò del Lagavulin.
Osservò con attenzione meticolosa la barista: era molto bella, la sua camicetta bianca esaltava la pienezza dei seni, gli attillati pantaloni neri evidenziavano un culo perfetto, gambe tornite; le décolleté nere consentivano a John di osservare le sottili caviglie, il collo del piede sensuale e le radici delle dita lasciate scoperte dalle scarpe. La sua chioma castana esaltava la bellezza e luminosità del viso: cercò di penetrare oltre quella maschera professionale e gli parve di scorgere un cuore pieno di desiderio, sensuale, ma nondimeno malinconico.
Fu servito.
Beveva. Voleva ricacciare i ricordi ma, ciò che aveva un tempo amato si imponeva con la sua disperata assenza. Il locale venne invaso dalla penombra che si allargava come una marea grigiastra mentre i raggi, retroguardia di un sole morente, si infrangevano sui vetri in un’ esplosione di rosa e facevano risplendere soffusamente all'interno le superfici dei tavoli.
La quiete fu interrotta da una torma vociante di giovinastri che entrò chiassosa, dilagando nel locale.
Lazzi, trivialità gratuite che non scalfivano minimamente l’indifferente John Satri ma, quando le volgarità da parte del più sfrontato presero di mira la ragazza del bar, cominciò a scaldarsi e ritenendo fosse valicato il limite, si alzò in piedi e fece sentire la sua voce.
- Smetti ragazzo. Piantala zotico, e chiedi scusa immediatamente alla signora!
Quello non cercava altro.
- Ti sei cacciato nei guai, vecchio. Ti sei dimenticato di chiedermi “per favore”.
Mentre i suoi sodali lo incitavano e sghignazzavano il ragazzo avanzò e colpì con ferocia. John cercava di costringere il suo avversario nelle sue strette, ma questi fu rapido a svincolarsi e allentargli un gancio e un diretto alla bocca, che prese a sanguinare. Mise in atto qualche trucchetto, imparato nelle innumerevoli risse che l’avevano visto protagonista, per arginare quella furia, ma in realtà John lo faceva con poca convinzione, svogliatamente e passivo subiva, convinto di meritarsi quella punizione.
Udì alzarsi l’urlo della barista:
- Basta ti prego. Lo stai ammazzando.
Ma la furia dell’attacco aumentò d’intensità. Se la mente raziocinante di John aveva deciso di lasciarsi andare e soccombere, il suo istinto guerriero forgiato dai tanti scontri non era affatto propenso e, seppure fosse rimasto quieto, stava più che altro in agguato e improvvisamente divenne protagonista: il sinistro di Satri, inatteso, saettò come una scarica elettrica ed ebbe un effetto travolgente. Più che un pugno sembrò piuttosto il calcio di un mulo. Il ragazzo colpito al volto si afflosciò come una marionetta a cui fossero stati recisi di colpo i fili e, con frastuono, finì fra tavolini e le sedie.
La barista strillò.
Ora il locale, dove vettori di luce s’intersecavano nella penombra, era silenzioso e i ragazzi non ridevano più.
John si avvicinò al suo avversario che, stordito, gemeva e ne notò l’asimmetria del volto e la deviazione della bocca, amaro frutto dalla sua folgore. Andò a frugare fra le sue reminiscenze: “lussazione traumatica con deformazione dell’assetto della mandibola.“
Scostò con decisione gli astanti, si chinò, afferrò saldamente la mascella inferiore e la spinse dolcemente verso il basso e poi all'indietro, finché la testa mandibolare non scivolò al suo posto.
Il giovane urlò, si scosse, smise di lamentarsi e tastò la sua mandibola che non gli doleva più. Comparve un vago sorriso sulla sua faccia da schiaffi.
- Come va ragazzo?
- Umh…bene, cavolo mi hai risistemato la mandibola! Ma dimmi….chi sei? Che cos’hai in quel dannato pugno? Se lo avessi saputo prima, mica avrei attaccato briga, cazzo!
Satri lasciò una banconota, l’ultima, sul bancone e si diresse all’uscita, accompagnato dalle occhiate di rispetto e ammirazione dei ragazzi.
- Aspetta.
Si volse: Lena la bella barista gli veniva incontro e con un tovagliolo bagnato tamponò le ferite delle sue labbra sanguinanti. Il volto della ragazza era vicinissimo al suo mentre lei lo scrutava con i suoi occhi dolci e intensi e la cascata castana dei suoi capelli sfiorava piacevolmente la pelle di John. L’uomo inalò il profumo di Lena, il suo profumo di donna, profondamente.
Ho praticamente finito il mio turno. Mi accompagni a casa?
Un velo negli occhi di John - anche lui un tempo svolgeva un lavoro a turni - e una asciutta risposta:
- Sì certo.
La luce proveniente dalla via illuminava la stanza per il resto buia. I loro occhi brillavano, i volti erano vicini, il respiro caldo e l’appoggiarsi delle morbide labbra di Lena, erano balsamo sulle sue, ferite e dolenti. La spogliò senza fretta per gustare appieno quella nudità che si svelava meravigliosa. Le accarezzò il volto, il dorso, i seni tonici, il vellutato, piatto ventre e sotto le sue dita percepì il brivido da cui veniva scossa. John si ritrovò in ginocchio davanti al corpo nudo di Lena, il suo volto affondato fra le cosce di lei a gustare quel nettare che era come mangiare ricordi meravigliosi e dimenticati, mentre le sue forti mani stringevano le toniche natiche della ragazza, saldamente nel timore che quel regalo inaspettato potesse sfuggirgli.
Fra le lenzuola il gioco si protrasse piacevole, quando Lena improvvisamente si volse strusciandogli addosso il suo didietro e facendogli comprendere che gli offriva la sua pesca di solida carne. John un po’ sorpreso e timoroso di farle male, parve esitare. Lei se ne accorse.
- Vai prendimi ti prego, mi piace più di tutto.
- Non così in fretta.
John si controllò.
- Così va bene
Spinse, stantuffò sempre più eccitato mentre il corpo di Lena si inarcava.
Nella quiete che seguì l’estasi lei lo guardò radiosa.
- Grazie John, stupendo.
Bene, la serata era finita; bella, dolce, ma conclusa.
Si apprestò a uscire e aprì la porta. Mentre si trovava sull’uscio, leggera come un soffio una mano di Lena si appoggiò sul suo polso.
- John, se vuoi puoi venire a stabilirti qui, ti aspetto.
Un’oasi, un ristoro per la sua anima indurita, desertificata. Sarebbe stato bello, ma poteva durare? Ancora una promessa che si sarebbe prima o poi infranta? Poteva assumersi il rischio di una nuova rovinosa caduta?
L’epidemia era scomparsa con i suoi lutti, ma era ancora infisso in lui un virus altrettanto insidioso che tenacemente lo corrodeva dall’interno con le sue domande che non poteva evadere e le risposte mancanti. Il male di vivere e il sentirsi un perdente rendevano la sua vita un sasso che rimbalzava sull’oceano nella sola prospettiva di inabissarsi.
Venti spiravano ora freschi nella notte recanti salsi soffi di un oceano non distante, spazzando via con il vapore appiccicoso del meriggio anche l’opprimente cappa dei ricordi che lo schiacciava, in virtù di uno strano, misericordioso sortilegio. Guardò Lena con una tenerezza per lui desueta, negletta, che pensava aver smarrito per sempre nei labirinti del suo arido cuore disilluso.
L’immenso spazio siderale boreale scintillava coi suoi occhi di stelle, apparentemente freddo e distante ma, in maniera gratuita e inattesa come sa fare a volte la realtà, evocava una speranza, ne convenne John con se stesso.
Confidente rispose:
- Ci penserò.
- Dio mio….
Gli occhi stentavano ad aprirsi e quando accadde lo fecero dolorosamente, lame di luce li ferirono. Prese faticosamente familiarità con gli oggetti, gli abiti sparsi in disordine. Che diavolo aveva combinato nella notte appena trascorsa?
…Rosy, la “balena bianca”, così la chiamavano. Doveva aver alzato troppo il gomito per finire nel suo talamo.
Lei lo guardò sorridendo e fissandolo trionfante coi suoi occhietti porcini annegati nel suo tondo faccione:
- Finalmente, John Satri sono riuscita a portarti a letto.
Nelle sua mente ora si formavano confuse immagini di lui immerso in quelle mammelle, smisurate montagne di carne gelatinosa che sembravano inghiottirlo; ricordò il suo cedere e abbandonarsi a quell’amplesso avvolgente.
Uscì ancora stordito. Era quasi mezzogiorno, faceva molto caldo; il cielo era di piombo nell’aria immota e carica d’umidità. Il quartiere di reietti come lui era sorto senza criterio, nel disordine e il degrado regnava incontrastato. Edifici dalle raffazzonate architetture coi muri sbrecciati, rigagnoli maleodoranti che scorrevano pigri, ma fra quello squallore fiori variopinti coltivati in barattoli arrugginiti urlavano un indomabile bisogno di bellezza, rivendicavano un’umanità comunque viva. Attraverso storte viuzze giunse sul ponte che solcava il maestoso fiume che aveva appena descritto un’ampia ansa. Indugiò a fissarne la corrente che nei rigiri, nei mulinelli, nei ritorni della corrente impigliava la luce in spirali luccicanti, in corone e raggi luminosi.
Pensò che, sotto la sua superficie limacciosa, forse nascondeva invisibili mostri tenebrosi come quelli della sua mente. Vissuto e sogni si impastavano, cancellando i confini spazio temporali fino a smarrire, nella confusione, il nesso con la realtà. Senza presente né futuro era inutile rifugiarsi nella memoria, perché essa era ormai solo rammarico. La sua professionalità, i suoi affetti distrutti da quel maledetto errore così imperdonabile. Era affondato sempre più incapace di chiedere aiuto costretto nel suo orgoglio disperante. Neppure la spaventosa necessità derivante dalla recente devastante epidemia l’aveva potuto rimettere in pista per un riscatto. Il suo passato era così impresentabile che l’aiuto disinteressato che aveva offerto era stato rifiutato. Avrebbe voluto tanto dare la sua vita eroicamente per redimersi, ma gli era stato riservata la sorte di rimanere ai margini, respinto e inutile a macerarsi nella sua disperazione, a scontare la sua pena vivendo. Rifiutato finanche dal terribile virus che imperversava cieco, sordo e indifferente alla grandezza, dignità, unicità delle vite che falciava.
Giunto alla baracca che che costituiva la sua dimora, si rassettò, si rase con l'aiuto di uno specchietto fissato all’esterno su uno spuntone di roccia. Poi rivestitosi con ciò di meglio che possedeva nel suo raccogliticcio guardaroba si diresse verso la città. Camminando lungo il tragitto dismesso della ferrovia su un terreno cosparso di rosticcio, rottami ed erbacce raggiunse il centro della città, territorio estraneo a lui. Vagò a lungo percorrendo vie che si incrociavano in quadrivi che parevano replicarsi in una noiosa sequenza.
Con l’ultimo denaro che gli restava entrò nel bar deciso concedersi qualcosa di meglio rispetto al piscio tossico che trangugiava nelle sordide bettole, abituale meta delle sue uscite.
Seduto al tavolo in angolo ordinò del Lagavulin.
Osservò con attenzione meticolosa la barista: era molto bella, la sua camicetta bianca esaltava la pienezza dei seni, gli attillati pantaloni neri evidenziavano un culo perfetto, gambe tornite; le décolleté nere consentivano a John di osservare le sottili caviglie, il collo del piede sensuale e le radici delle dita lasciate scoperte dalle scarpe. La sua chioma castana esaltava la bellezza e luminosità del viso: cercò di penetrare oltre quella maschera professionale e gli parve di scorgere un cuore pieno di desiderio, sensuale, ma nondimeno malinconico.
Fu servito.
Beveva. Voleva ricacciare i ricordi ma, ciò che aveva un tempo amato si imponeva con la sua disperata assenza. Il locale venne invaso dalla penombra che si allargava come una marea grigiastra mentre i raggi, retroguardia di un sole morente, si infrangevano sui vetri in un’ esplosione di rosa e facevano risplendere soffusamente all'interno le superfici dei tavoli.
La quiete fu interrotta da una torma vociante di giovinastri che entrò chiassosa, dilagando nel locale.
Lazzi, trivialità gratuite che non scalfivano minimamente l’indifferente John Satri ma, quando le volgarità da parte del più sfrontato presero di mira la ragazza del bar, cominciò a scaldarsi e ritenendo fosse valicato il limite, si alzò in piedi e fece sentire la sua voce.
- Smetti ragazzo. Piantala zotico, e chiedi scusa immediatamente alla signora!
Quello non cercava altro.
- Ti sei cacciato nei guai, vecchio. Ti sei dimenticato di chiedermi “per favore”.
Mentre i suoi sodali lo incitavano e sghignazzavano il ragazzo avanzò e colpì con ferocia. John cercava di costringere il suo avversario nelle sue strette, ma questi fu rapido a svincolarsi e allentargli un gancio e un diretto alla bocca, che prese a sanguinare. Mise in atto qualche trucchetto, imparato nelle innumerevoli risse che l’avevano visto protagonista, per arginare quella furia, ma in realtà John lo faceva con poca convinzione, svogliatamente e passivo subiva, convinto di meritarsi quella punizione.
Udì alzarsi l’urlo della barista:
- Basta ti prego. Lo stai ammazzando.
Ma la furia dell’attacco aumentò d’intensità. Se la mente raziocinante di John aveva deciso di lasciarsi andare e soccombere, il suo istinto guerriero forgiato dai tanti scontri non era affatto propenso e, seppure fosse rimasto quieto, stava più che altro in agguato e improvvisamente divenne protagonista: il sinistro di Satri, inatteso, saettò come una scarica elettrica ed ebbe un effetto travolgente. Più che un pugno sembrò piuttosto il calcio di un mulo. Il ragazzo colpito al volto si afflosciò come una marionetta a cui fossero stati recisi di colpo i fili e, con frastuono, finì fra tavolini e le sedie.
La barista strillò.
Ora il locale, dove vettori di luce s’intersecavano nella penombra, era silenzioso e i ragazzi non ridevano più.
John si avvicinò al suo avversario che, stordito, gemeva e ne notò l’asimmetria del volto e la deviazione della bocca, amaro frutto dalla sua folgore. Andò a frugare fra le sue reminiscenze: “lussazione traumatica con deformazione dell’assetto della mandibola.“
Scostò con decisione gli astanti, si chinò, afferrò saldamente la mascella inferiore e la spinse dolcemente verso il basso e poi all'indietro, finché la testa mandibolare non scivolò al suo posto.
Il giovane urlò, si scosse, smise di lamentarsi e tastò la sua mandibola che non gli doleva più. Comparve un vago sorriso sulla sua faccia da schiaffi.
- Come va ragazzo?
- Umh…bene, cavolo mi hai risistemato la mandibola! Ma dimmi….chi sei? Che cos’hai in quel dannato pugno? Se lo avessi saputo prima, mica avrei attaccato briga, cazzo!
Satri lasciò una banconota, l’ultima, sul bancone e si diresse all’uscita, accompagnato dalle occhiate di rispetto e ammirazione dei ragazzi.
- Aspetta.
Si volse: Lena la bella barista gli veniva incontro e con un tovagliolo bagnato tamponò le ferite delle sue labbra sanguinanti. Il volto della ragazza era vicinissimo al suo mentre lei lo scrutava con i suoi occhi dolci e intensi e la cascata castana dei suoi capelli sfiorava piacevolmente la pelle di John. L’uomo inalò il profumo di Lena, il suo profumo di donna, profondamente.
Ho praticamente finito il mio turno. Mi accompagni a casa?
Un velo negli occhi di John - anche lui un tempo svolgeva un lavoro a turni - e una asciutta risposta:
- Sì certo.
La luce proveniente dalla via illuminava la stanza per il resto buia. I loro occhi brillavano, i volti erano vicini, il respiro caldo e l’appoggiarsi delle morbide labbra di Lena, erano balsamo sulle sue, ferite e dolenti. La spogliò senza fretta per gustare appieno quella nudità che si svelava meravigliosa. Le accarezzò il volto, il dorso, i seni tonici, il vellutato, piatto ventre e sotto le sue dita percepì il brivido da cui veniva scossa. John si ritrovò in ginocchio davanti al corpo nudo di Lena, il suo volto affondato fra le cosce di lei a gustare quel nettare che era come mangiare ricordi meravigliosi e dimenticati, mentre le sue forti mani stringevano le toniche natiche della ragazza, saldamente nel timore che quel regalo inaspettato potesse sfuggirgli.
Fra le lenzuola il gioco si protrasse piacevole, quando Lena improvvisamente si volse strusciandogli addosso il suo didietro e facendogli comprendere che gli offriva la sua pesca di solida carne. John un po’ sorpreso e timoroso di farle male, parve esitare. Lei se ne accorse.
- Vai prendimi ti prego, mi piace più di tutto.
- Non così in fretta.
John si controllò.
- Così va bene
Spinse, stantuffò sempre più eccitato mentre il corpo di Lena si inarcava.
Nella quiete che seguì l’estasi lei lo guardò radiosa.
- Grazie John, stupendo.
Bene, la serata era finita; bella, dolce, ma conclusa.
Si apprestò a uscire e aprì la porta. Mentre si trovava sull’uscio, leggera come un soffio una mano di Lena si appoggiò sul suo polso.
- John, se vuoi puoi venire a stabilirti qui, ti aspetto.
Un’oasi, un ristoro per la sua anima indurita, desertificata. Sarebbe stato bello, ma poteva durare? Ancora una promessa che si sarebbe prima o poi infranta? Poteva assumersi il rischio di una nuova rovinosa caduta?
L’epidemia era scomparsa con i suoi lutti, ma era ancora infisso in lui un virus altrettanto insidioso che tenacemente lo corrodeva dall’interno con le sue domande che non poteva evadere e le risposte mancanti. Il male di vivere e il sentirsi un perdente rendevano la sua vita un sasso che rimbalzava sull’oceano nella sola prospettiva di inabissarsi.
Venti spiravano ora freschi nella notte recanti salsi soffi di un oceano non distante, spazzando via con il vapore appiccicoso del meriggio anche l’opprimente cappa dei ricordi che lo schiacciava, in virtù di uno strano, misericordioso sortilegio. Guardò Lena con una tenerezza per lui desueta, negletta, che pensava aver smarrito per sempre nei labirinti del suo arido cuore disilluso.
L’immenso spazio siderale boreale scintillava coi suoi occhi di stelle, apparentemente freddo e distante ma, in maniera gratuita e inattesa come sa fare a volte la realtà, evocava una speranza, ne convenne John con se stesso.
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