Fantasia
di
Dora
genere
sentimentali
L’inverno si spegneva, il sole aveva raccolto le sue energie e si affacciava sul mondo con più forza e più calore. Tuttavia il vento gelido di tramontana non si era rassegnato, soffiava con insistenza fin nelle ossa. Nonostante tutto avevo messo la mia gonna a quadretti, le calze di nylon nere, delle scomode ballerine che odiavo già. Mi stringevo nella sciarpa grigia di lana e nel cappotto.
Ero appena scesa dal treno, una vecchia ferraglia arrugginita che tutti odiavano tranne me, e avevo già freddo. La stazione era vuota, giornali e buste svolazzavano in giro, poi davanti alle scale ti ho visto, eri già arrivato. Avevi gli occhi limpidi come il cielo e mi sorridevi. Era come se mi avessi aspettato a quel binario per tutta la vita, senza stancarti, senza spazientirti. Era come tornare da un lungo viaggio e mangiare la pasta al forno di papà.
Ci siamo raggiunti e stretti forte, odoravi di caldo, di antica biblioteca, di conforto.
«Sei gelata», mi hai detto. Non ti ho risposto ma ti ho baciato forte, sulle tue labbra di miele.
Ci siamo incamminati per il viale della stazione, con gli alberi in prospettiva e l’edicola in fondo. Poi ci siamo fatti puntini tra i vicoli del centro storico, abbracciati in un abbraccio di case di pietra gialla.
«Ti porto in un posto che amerai», mi hai sussurrato all’orecchio. Un brivido mi ha fatto tremare, un brivido di freddo e d’aspettativa. Ci siamo avvinghiati ancor di più l’uno all’altra.
Camminando così, uniti e zoppicanti, siamo sbucati in un vicoletto tranquillo, davanti a noi si parava un vecchio palazzo. La pietra era un po’ consumata dalle intemperie, al primo piano un balconcino con la ringhiera in stile Liberty sfoggiava la ruggine insieme ai fiori nei vasi di terracotta. Hai preso dalla tasca dei jeans una chiave piccola piccola e hai aperto una porta di legno verde un po’ scrostata. Subito davanti a noi si è parata una di quelle scalinate ripide, dai gradini alti più del normale.
«Vai prima tu», mi hai detto con un sorriso sornione che ti avrei strappato a morsi. Inizio la mia scalata, superba, faccio finta che i tuoi occhi non mi stiano accarezzando. Ero quasi in cima, il pianerottolo a tre gradini di distanza, quando ho messo un piede in fallo. Mi hai acchiappato appena in tempo e siamo scoppiati a ridere. La nostra commedia d’indifferenza non ha retto un minuto di più, le lingue hanno sviluppato una loro conversazione autonoma, lì sulle scale. Le mani correvano sui vestiti e i corpi iniziavano a vibrare. Mano nella mano siamo corsi su, nell’appartamento, mi hai detto che era di una tua sconosciuta prozia. Nella stanza principale ci aspettava un vecchio divano e di fronte una portafinestra, sipario sullo spettacolo del centro storico.
Come bambini ci siamo tolti i cappotti a vicenda facendoli cadere per terra. Ci siamo studiati come statue venute fuori dalla sabbia. Mi hai accarezzato piano dalle guance alle cosce riscaldandomi profondamente, ti ho baciato umida lungo il collo. I nostri sospiri rimbombavano nella stanza semivuota. Altri vestiti sono caduti poco a poco e ci siamo mostrati per gli alberi spogli che eravamo.
Ti ho stretto, la nostra pelle si mescolava, le tue mani forti lodavano i miei fianchi, adoravano le mie rotondità. Ci toccavamo, sprezzanti del resto del mondo. Perché io ti volevo e tu mi volevi e ci bastava quello. Con la lingua tra le cosce illanguidivo per te, con le mani sul membro sospiravi roco per me.
Sul copridivano bianco ci siamo entrati dentro a vicenda. Nuda ricadevo sui tuoi quadricipiti possenti, le tue labbra sui capezzoli turgidi. Insieme ci siamo desiderati posseduti consumati. Siamo venuti in gemito catartico.
Ci siamo posati l’una sull’altro, come stanchi da una giornata di vita intesa.
Ci siamo amati giovani, di nascosto, in una vecchia stanza bianca.
Ero appena scesa dal treno, una vecchia ferraglia arrugginita che tutti odiavano tranne me, e avevo già freddo. La stazione era vuota, giornali e buste svolazzavano in giro, poi davanti alle scale ti ho visto, eri già arrivato. Avevi gli occhi limpidi come il cielo e mi sorridevi. Era come se mi avessi aspettato a quel binario per tutta la vita, senza stancarti, senza spazientirti. Era come tornare da un lungo viaggio e mangiare la pasta al forno di papà.
Ci siamo raggiunti e stretti forte, odoravi di caldo, di antica biblioteca, di conforto.
«Sei gelata», mi hai detto. Non ti ho risposto ma ti ho baciato forte, sulle tue labbra di miele.
Ci siamo incamminati per il viale della stazione, con gli alberi in prospettiva e l’edicola in fondo. Poi ci siamo fatti puntini tra i vicoli del centro storico, abbracciati in un abbraccio di case di pietra gialla.
«Ti porto in un posto che amerai», mi hai sussurrato all’orecchio. Un brivido mi ha fatto tremare, un brivido di freddo e d’aspettativa. Ci siamo avvinghiati ancor di più l’uno all’altra.
Camminando così, uniti e zoppicanti, siamo sbucati in un vicoletto tranquillo, davanti a noi si parava un vecchio palazzo. La pietra era un po’ consumata dalle intemperie, al primo piano un balconcino con la ringhiera in stile Liberty sfoggiava la ruggine insieme ai fiori nei vasi di terracotta. Hai preso dalla tasca dei jeans una chiave piccola piccola e hai aperto una porta di legno verde un po’ scrostata. Subito davanti a noi si è parata una di quelle scalinate ripide, dai gradini alti più del normale.
«Vai prima tu», mi hai detto con un sorriso sornione che ti avrei strappato a morsi. Inizio la mia scalata, superba, faccio finta che i tuoi occhi non mi stiano accarezzando. Ero quasi in cima, il pianerottolo a tre gradini di distanza, quando ho messo un piede in fallo. Mi hai acchiappato appena in tempo e siamo scoppiati a ridere. La nostra commedia d’indifferenza non ha retto un minuto di più, le lingue hanno sviluppato una loro conversazione autonoma, lì sulle scale. Le mani correvano sui vestiti e i corpi iniziavano a vibrare. Mano nella mano siamo corsi su, nell’appartamento, mi hai detto che era di una tua sconosciuta prozia. Nella stanza principale ci aspettava un vecchio divano e di fronte una portafinestra, sipario sullo spettacolo del centro storico.
Come bambini ci siamo tolti i cappotti a vicenda facendoli cadere per terra. Ci siamo studiati come statue venute fuori dalla sabbia. Mi hai accarezzato piano dalle guance alle cosce riscaldandomi profondamente, ti ho baciato umida lungo il collo. I nostri sospiri rimbombavano nella stanza semivuota. Altri vestiti sono caduti poco a poco e ci siamo mostrati per gli alberi spogli che eravamo.
Ti ho stretto, la nostra pelle si mescolava, le tue mani forti lodavano i miei fianchi, adoravano le mie rotondità. Ci toccavamo, sprezzanti del resto del mondo. Perché io ti volevo e tu mi volevi e ci bastava quello. Con la lingua tra le cosce illanguidivo per te, con le mani sul membro sospiravi roco per me.
Sul copridivano bianco ci siamo entrati dentro a vicenda. Nuda ricadevo sui tuoi quadricipiti possenti, le tue labbra sui capezzoli turgidi. Insieme ci siamo desiderati posseduti consumati. Siamo venuti in gemito catartico.
Ci siamo posati l’una sull’altro, come stanchi da una giornata di vita intesa.
Ci siamo amati giovani, di nascosto, in una vecchia stanza bianca.
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