E il vento mi rispose
di
Yuko
genere
sentimentali
I talk to the wind.
Il flauto di Ian Mc Donald.
Suoni perduti nel tempo, parole evocative dei re di cremisi.
Sull'imbrunire della sera, nella baita di fronte alla distesa di larici, il rumore del torrente lontano si perde e viene assorbito dal dialogo degli alberi alle ultime luci del crepuscolo.
Il vento dà voce ai tronchi e, stupefatta, assisto a una accesa conversazione tra le fronde.
Il vento parla e interpreta i pensieri, i desideri e perfino le pretese degli alberi secolari.
Illuminata dalla Luna e ispirata da poteri sovrannaturali, le mie orecchie percepiscono il significato di suoni e dialoghi inaccessibili.
Un lento e sordo corteo di voci di dissenso, di decennali lamentele, si avvicina dal fondo valle, portata da Eolo sulle cime dei pini marittimi, fino al cospetto di un antico e patriarcale abete, che dai rami di verde scuro, scuote la testa paziente, per dirimere i diverbi e sedare gli animi, per riportare armonia nel bosco, spossato dopo le sferzate del sole di luglio.
Quando l'assemblea è al completo e le voci di discordia hanno smaltito ira e impazienza, tutto torna a tacere sotto gli ombrosi tronchi.
Uno stanco e profondo fruscio, grave e lento, cupo e ancestrale prende la platea.
L'antico abete interroga gli astanti, con pazienza e saggezza. Lui in quel bosco prima che il bosco fosse, lui che ha visto più di cento inverni e cento estati, senza mai perdere il verde dei suoi aghi.
Lui che quei larici li ha visti tutti nascere nell'ultimo secolo.
Lui che quegli aceri li ha visti crescere solo poco tempo fa, neanche quaranta o cinquanta anni addietro.
Il vento gli scivola attorno e i movimenti dei rami rilasciano la voce dal timbro di contrabbasso e legno resinoso invecchiato.
Al primo intervento del vecchio abete fanno coro i larici di fronte ai miei occhi.
Il loro è un fruscio più acuto, più leggero, di fronde più rade, nate da poche settimane dopo l'arrivo della primavera.
Un tremito disomogeneo e irruento, carico di sdegno e desiderio di rivendicazione.
Il vento scuote i rami dalle lunghe barbe, mentre gli ultimi scoiattoli si rifugiano nella loro tana.
I tronchi si piegano morbidi e flessibili per cercare di lusingare e convincere l'antico abete.
I larici reclamano la loro priorità nel bosco, una posizione di prestigio, rivalendosi contro i giovani aceri, gli ultimi arrivati e pieni di pretese.
Questione di nidi di picchio e di cuculo, spartizione dei ruscellamenti temporanei, esposizione al sole lungo i versanti meridionali del bosco, riparo dal gelo invernale.
Il vento corre di tronco in tronco per dare voce a tutte le fronde, a ogni ramo e a ogni cima.
Fremono gli aghi, in un fruscio argenteo, come di mille aghi di finissimo metallo.
Voci composte eppure fiere, rivendicano la paternità del bosco, il primitivo insediamento.
Il vecchio abete ascolta paziente fino all'ultima pigna, all'ultimo rametto di verde ancora tenero.
Ma sono le insolenti e impazienti foglie dei giovani aceri a interrompere il discorso, per il vero ormai alla fine.
Si risollevano indispettiti i larici, ma con un ritorno di vento, l'abete zittisce i resinosi rami.
Ora è un fine rotolio di foglie spesse e larghe, che si offrono al vento in un rumore scomposto come di migliaia di campanelli di carta.
Un mite ticchettio come di gocce sulle foglie secche, uno srotolarsi di palline di gusci.
La civetta con un lungo lamento si allontana verso il fondo valle, annoiata e infastidita da tante scempiaggini e argomenti di superficialità.
Gli aceri, giovani e superbi, con la loro crescita rapida, i loro rami frondosi di latifoglie, occupano gli spazi rubando ogni raggio di sole.
Erbe e felci vorrebbero intervenire, ma il vento le disdegna e restano al buio e senza voce.
Il sospiro ora armeggia tra i rami, avvolge le foglie palmate che esprimono opinioni e sentenze per la verità in modo un po' troppo perentorio e irriverente.
Solo una volta interviene l'abete, con uno stanco gesto di assenso, che è più un rimprovero per la tracotanza e l'eccessiva veemenza.
Un cupo suono, uniforme e basso, che è sufficiente per mettere in riga molte delle velleità dei giovani legni.
Una spolverata tra i radi rami dei larici, quasi una risatina di scherno, acuta e stridula, interrotta subito da un vortice di vento che, spiraleggiando nei pesanti rami del sempreverde, riporta calma e ordine.
Riprende più rispettoso, il tono degli aceri in una rimostranza più composta.
Timbro vibrante di estese superfici di clorofilla che copre il rumore delle ondulazioni del rami e gli scricchiolii dei tronchi.
Vocette giovani e argomenti talvolta scarni di motivazioni.
Ma il vento non esprime giudizi e vaga di ramo in ramo per consentite a ogni appendice di esprimersi, mentre le diramazioni dell'abete oscillano pensose e silenziose.
Molto più in basso il giovane faggio oscilla le foglie tondeggianti in cerca di una voce che il vento non gli concede.
E io solo sono testimone del suo desiderio di far sentire la sua opinione.
Ma a neanche trent'anni, in questa assemblea di vecchi tronchi, anche io capisco che le tenere foglie ancora non possano accampar pretese.
Il vento passa di legno in fronda, da tronco a busto, da foglia ad ago, da barba a germoglio.
Gli alti larici sul lato orientale, quelli che per primi si espongono ai raggi del sole, quelli che si distendono verso il lago che profondo si disegna di blu cobalto sullo sfondo, laggiù verso Lecco, dalla loro altezza oscillano morbidi sospinti dal vento, nel sottile fruscio dei loro rami.
Ma già il vento ritorna al grosso tronco di aghi verde scuro, spessi e setolosi, groviglio di fitti rami in insondabile trama.
Con facilità riesco a distinguere la voce di ogni singolo albero e, con un po' di fatica, il tono della voce. Solo l'immaginazione mi sostiene per concepire le argomentazioni.
Si contorcono e si arrotolano le foglie degli aceri, quando il vento ridona loro la possibilità di esprimersi.
Tutto sommato, sebbene moderata dall'antico abete, la discussione si svolge composta e ordinata, in rispettosa sequenza di tesi e controtesi.
Se la ride il folto muschio della baita dal ripido tetto, nella radura tra tamerici e sambuchi, molto al di sotto delle fronde di aceri e larici, ma in stretta vicinanza col paziente abete.
Ora il tono degli aceri è come gaio e suadente, come se volessero tutti i latifoglie intenerire il vecchio abete, mentre il vento si dà un gran da fare per dare voce a tutti e solo a quelli.
Poi il vibrante ticchettio scema e si spegne.
Tutto ora giace in attesa del verdetto del vecchio albero, una timorosa attesa da parte degli aceri e uno sdegnoso e offeso tacere degli alti larici.
Ondeggia lievemente l'abete, i rami appesantiti dalle fronde oscillano come braccia dalle larghe maniche cadenti.
E il vento dà ancora voce a un sommesso sussurrare, a lente evocazioni di antiche regole, al richiamo all'ancestrale rispetto.
Eppure si percepisce un appello alla tolleranza, un suggerimento alla mediazione, così, con parole generiche, senza riferimenti espliciti.
Tutti gli alberi devono convivere nel bosco e il maestro abete deve dare spazio a tutti senza escludere nessuno.
Non un verdetto, non condanne o franche assoluzioni.
Dimentica di ragioni e di torti.
Cupo e verde scuro, piega il capo e muove i rami infeltriti, le impenetrabili trame di fitti aghi.
E il vento ne spilla suoni profondi, tonalità basse frammiste di subsuoni che non percepisco completamente.
Scappa un pipistrello in cerca degli ultimi insetti nel dedicarsi alla caccia notturna, e la palpitante Antares ammicca tra i rami più bassi.
La Luna filtra tra le spesse coltri dell'abete, smaterializzandosi in decine di diamanti luminosi tra gli aghi resinosi, e l'abete continua il suo discorso, profondo trombone, sax baritono e controtuba in frusciante melodia.
Non percepisco in pieno il senso del discorso conclusivo, ma sta di fatto che dopo l'abete, il vento passa in leggera rassegna le cime e i rami più alti dei larici, senza che nessun legno osi aggiungere altro. Poi scende alle larghe foglie degli aceri, ma ancora nessuno proferisce verbo o fruscio o fremito.
Il piccolo faggio agita le foglie, come se ognuna avesse vita, ma senza che il vento se ne degni, resta ancora senza voce, sotto il mio sguardo tollerante.
Poi, dopo un vortice di rispetto che avvolge l'abete dai rami più bassi, che sfiorano il terreno, fino all'aguzza erta, il vento abbandona il bosco, lasciando solo il lontano e monotono canto del ruscello in fondo valle.
Con rispetto, protetta da una spessa giacca a vento, osservo la consulta farsi muta e consegnarsi alla notte, mentre sempre più stelle strappano stralci di cielo alle tenebre.
Il flauto di Ian Mc Donald.
Suoni perduti nel tempo, parole evocative dei re di cremisi.
Sull'imbrunire della sera, nella baita di fronte alla distesa di larici, il rumore del torrente lontano si perde e viene assorbito dal dialogo degli alberi alle ultime luci del crepuscolo.
Il vento dà voce ai tronchi e, stupefatta, assisto a una accesa conversazione tra le fronde.
Il vento parla e interpreta i pensieri, i desideri e perfino le pretese degli alberi secolari.
Illuminata dalla Luna e ispirata da poteri sovrannaturali, le mie orecchie percepiscono il significato di suoni e dialoghi inaccessibili.
Un lento e sordo corteo di voci di dissenso, di decennali lamentele, si avvicina dal fondo valle, portata da Eolo sulle cime dei pini marittimi, fino al cospetto di un antico e patriarcale abete, che dai rami di verde scuro, scuote la testa paziente, per dirimere i diverbi e sedare gli animi, per riportare armonia nel bosco, spossato dopo le sferzate del sole di luglio.
Quando l'assemblea è al completo e le voci di discordia hanno smaltito ira e impazienza, tutto torna a tacere sotto gli ombrosi tronchi.
Uno stanco e profondo fruscio, grave e lento, cupo e ancestrale prende la platea.
L'antico abete interroga gli astanti, con pazienza e saggezza. Lui in quel bosco prima che il bosco fosse, lui che ha visto più di cento inverni e cento estati, senza mai perdere il verde dei suoi aghi.
Lui che quei larici li ha visti tutti nascere nell'ultimo secolo.
Lui che quegli aceri li ha visti crescere solo poco tempo fa, neanche quaranta o cinquanta anni addietro.
Il vento gli scivola attorno e i movimenti dei rami rilasciano la voce dal timbro di contrabbasso e legno resinoso invecchiato.
Al primo intervento del vecchio abete fanno coro i larici di fronte ai miei occhi.
Il loro è un fruscio più acuto, più leggero, di fronde più rade, nate da poche settimane dopo l'arrivo della primavera.
Un tremito disomogeneo e irruento, carico di sdegno e desiderio di rivendicazione.
Il vento scuote i rami dalle lunghe barbe, mentre gli ultimi scoiattoli si rifugiano nella loro tana.
I tronchi si piegano morbidi e flessibili per cercare di lusingare e convincere l'antico abete.
I larici reclamano la loro priorità nel bosco, una posizione di prestigio, rivalendosi contro i giovani aceri, gli ultimi arrivati e pieni di pretese.
Questione di nidi di picchio e di cuculo, spartizione dei ruscellamenti temporanei, esposizione al sole lungo i versanti meridionali del bosco, riparo dal gelo invernale.
Il vento corre di tronco in tronco per dare voce a tutte le fronde, a ogni ramo e a ogni cima.
Fremono gli aghi, in un fruscio argenteo, come di mille aghi di finissimo metallo.
Voci composte eppure fiere, rivendicano la paternità del bosco, il primitivo insediamento.
Il vecchio abete ascolta paziente fino all'ultima pigna, all'ultimo rametto di verde ancora tenero.
Ma sono le insolenti e impazienti foglie dei giovani aceri a interrompere il discorso, per il vero ormai alla fine.
Si risollevano indispettiti i larici, ma con un ritorno di vento, l'abete zittisce i resinosi rami.
Ora è un fine rotolio di foglie spesse e larghe, che si offrono al vento in un rumore scomposto come di migliaia di campanelli di carta.
Un mite ticchettio come di gocce sulle foglie secche, uno srotolarsi di palline di gusci.
La civetta con un lungo lamento si allontana verso il fondo valle, annoiata e infastidita da tante scempiaggini e argomenti di superficialità.
Gli aceri, giovani e superbi, con la loro crescita rapida, i loro rami frondosi di latifoglie, occupano gli spazi rubando ogni raggio di sole.
Erbe e felci vorrebbero intervenire, ma il vento le disdegna e restano al buio e senza voce.
Il sospiro ora armeggia tra i rami, avvolge le foglie palmate che esprimono opinioni e sentenze per la verità in modo un po' troppo perentorio e irriverente.
Solo una volta interviene l'abete, con uno stanco gesto di assenso, che è più un rimprovero per la tracotanza e l'eccessiva veemenza.
Un cupo suono, uniforme e basso, che è sufficiente per mettere in riga molte delle velleità dei giovani legni.
Una spolverata tra i radi rami dei larici, quasi una risatina di scherno, acuta e stridula, interrotta subito da un vortice di vento che, spiraleggiando nei pesanti rami del sempreverde, riporta calma e ordine.
Riprende più rispettoso, il tono degli aceri in una rimostranza più composta.
Timbro vibrante di estese superfici di clorofilla che copre il rumore delle ondulazioni del rami e gli scricchiolii dei tronchi.
Vocette giovani e argomenti talvolta scarni di motivazioni.
Ma il vento non esprime giudizi e vaga di ramo in ramo per consentite a ogni appendice di esprimersi, mentre le diramazioni dell'abete oscillano pensose e silenziose.
Molto più in basso il giovane faggio oscilla le foglie tondeggianti in cerca di una voce che il vento non gli concede.
E io solo sono testimone del suo desiderio di far sentire la sua opinione.
Ma a neanche trent'anni, in questa assemblea di vecchi tronchi, anche io capisco che le tenere foglie ancora non possano accampar pretese.
Il vento passa di legno in fronda, da tronco a busto, da foglia ad ago, da barba a germoglio.
Gli alti larici sul lato orientale, quelli che per primi si espongono ai raggi del sole, quelli che si distendono verso il lago che profondo si disegna di blu cobalto sullo sfondo, laggiù verso Lecco, dalla loro altezza oscillano morbidi sospinti dal vento, nel sottile fruscio dei loro rami.
Ma già il vento ritorna al grosso tronco di aghi verde scuro, spessi e setolosi, groviglio di fitti rami in insondabile trama.
Con facilità riesco a distinguere la voce di ogni singolo albero e, con un po' di fatica, il tono della voce. Solo l'immaginazione mi sostiene per concepire le argomentazioni.
Si contorcono e si arrotolano le foglie degli aceri, quando il vento ridona loro la possibilità di esprimersi.
Tutto sommato, sebbene moderata dall'antico abete, la discussione si svolge composta e ordinata, in rispettosa sequenza di tesi e controtesi.
Se la ride il folto muschio della baita dal ripido tetto, nella radura tra tamerici e sambuchi, molto al di sotto delle fronde di aceri e larici, ma in stretta vicinanza col paziente abete.
Ora il tono degli aceri è come gaio e suadente, come se volessero tutti i latifoglie intenerire il vecchio abete, mentre il vento si dà un gran da fare per dare voce a tutti e solo a quelli.
Poi il vibrante ticchettio scema e si spegne.
Tutto ora giace in attesa del verdetto del vecchio albero, una timorosa attesa da parte degli aceri e uno sdegnoso e offeso tacere degli alti larici.
Ondeggia lievemente l'abete, i rami appesantiti dalle fronde oscillano come braccia dalle larghe maniche cadenti.
E il vento dà ancora voce a un sommesso sussurrare, a lente evocazioni di antiche regole, al richiamo all'ancestrale rispetto.
Eppure si percepisce un appello alla tolleranza, un suggerimento alla mediazione, così, con parole generiche, senza riferimenti espliciti.
Tutti gli alberi devono convivere nel bosco e il maestro abete deve dare spazio a tutti senza escludere nessuno.
Non un verdetto, non condanne o franche assoluzioni.
Dimentica di ragioni e di torti.
Cupo e verde scuro, piega il capo e muove i rami infeltriti, le impenetrabili trame di fitti aghi.
E il vento ne spilla suoni profondi, tonalità basse frammiste di subsuoni che non percepisco completamente.
Scappa un pipistrello in cerca degli ultimi insetti nel dedicarsi alla caccia notturna, e la palpitante Antares ammicca tra i rami più bassi.
La Luna filtra tra le spesse coltri dell'abete, smaterializzandosi in decine di diamanti luminosi tra gli aghi resinosi, e l'abete continua il suo discorso, profondo trombone, sax baritono e controtuba in frusciante melodia.
Non percepisco in pieno il senso del discorso conclusivo, ma sta di fatto che dopo l'abete, il vento passa in leggera rassegna le cime e i rami più alti dei larici, senza che nessun legno osi aggiungere altro. Poi scende alle larghe foglie degli aceri, ma ancora nessuno proferisce verbo o fruscio o fremito.
Il piccolo faggio agita le foglie, come se ognuna avesse vita, ma senza che il vento se ne degni, resta ancora senza voce, sotto il mio sguardo tollerante.
Poi, dopo un vortice di rispetto che avvolge l'abete dai rami più bassi, che sfiorano il terreno, fino all'aguzza erta, il vento abbandona il bosco, lasciando solo il lontano e monotono canto del ruscello in fondo valle.
Con rispetto, protetta da una spessa giacca a vento, osservo la consulta farsi muta e consegnarsi alla notte, mentre sempre più stelle strappano stralci di cielo alle tenebre.
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