L'invisibile e l'infinito

di
genere
etero

La vidi per la prima volta un sabato pomeriggio di marzo. L’ultimo freddo e i fiori appena spuntati delle magnolie giapponesi. Vidi è una parola grossa, perché sono cieco da sette anni, da quando mi è scoppiata davanti una granata. Ero in Afghanistan, dove ero andato tre anni prima per cercare di disinnescare la mia inquietudine in un’uniforme militare. Sono riuscito nell’intento ma mi è esplosa una bomba in faccia, e sono diventato cieco. Non del tutto: perché vedo delle ombre nere su uno sfondo nero, e perché ricordo come era il mondo e come erano gli uomini quando ancora c’era la luce. Costruisco su quelle ombre dei ricordi illuminati, quasi fossero teatri, e mi convinco che quei teatri siano il mondo che non riesco più a vedere.

Due sabati al mese vado per musei con Laura. Può sembrare assurdo che io, un cieco, vada a vedere dei quadri, delle sculture o delle fotografie. Ma voi non sapete che soddisfazioni può dare l’arte a un cieco. Laura è la mia guida e la mia vista. Mi racconta le opere, con i suoi occhi. E io me le immagino. Qualcuna me la ricordo dai tempi del liceo, o me la immagino come credo di ricordarla. Laura è un’insegnante di storia dell’arte amica storica di mia sorella. Con lei non c’è mai stato niente né ci sarà mai niente. è sposata, ha due bellissimi bambini e non è mai stata il mio tipo, fisicamente e spiritualmente parlando. Me la ricordo bene. Mia sorella cominciò a frequentarla che io ancora ci vedevo. non amavo le sue gambe grosse e la bocca troppo grande. Ha una risata contagiosa, capace di spaccare il mondo.

Quel sabato Laura non c’era. Doveva andare in Francia al capezzale di una vecchia zia. Quando me lo dice, al telefono, sentendomi contrariato, mi propone di sostituirla, per una volta, con una sua collega. Beatriz. Non sono così sicuro di questa decisione e così, per cercare di mantenere qualche punto fermo, accetto la sostituzione ma propongo a Beatriz di andare al museo di sempre. L’ho già visitato, con Laura, parecchie volte. Lo conosco da quando ero ragazzo. Lo conosco quasi fosse dentro di me.

La aspetto nell’atrio del museo, seduto su una panchina di marmo. Ovviamente è lei a individuarmi. Non potete immaginare come sia facile per un cieco essere visto dagli altri.
- Piacere, Beatriz
- Ciao, Roman. Grazie per essere venuta.

Ha una stretta ferma. La mano è grande ma magra, le dita lunghe. Una mano quasi maschile. Credo di averle sentito un anello, abbastanza grosso, certamente non una fede. Direi un gioiello dal taglio squadrato, geometrico. Senza la morbidezza dell’oro.
- Da dove vuoi cominciare?
- Cominciamo dal Cinquecento?

Sento il rumore del suo respiro, sembra tesa. Sento il rumore del suo incedere. Ha dei tacchi, probabilmente degli stivali alti, perché avverto il cigolio della forma rigida intorno ai polpacci. E un impermeabile che striscia lungo i fianchi. Credo sia magra, le mani dicono tanto. Ha un profumo lieve, che non nasconde completamente il resto del suo odore. Da quando ho perso la vista ho guadagnato negli altri sensi. Sento odori che prima nemmeno immaginavo. Se la gente sapesse quali odori percepisco, si imbarazzerebbe.
- È arrivata una nuova opera, da un altro museo. Rimarrà esposta qui per un mese. Si tratta della…
- No, per favore, non dirmelo. Raccontamela
Lei non sapeva esattamente quello che l’avrebbe attesa. Credo che Laura le abbia spiegato qualcosa. Ma non nei dettagli.
- Non preoccuparti. So che non è facile, almeno la prima volta – le dico, per rassicurarla – Raccontami quello che vedi, quello che senti. Non voglio una lezione di storia dell’arte. Voglio i due occhi che non ho più
Lei prende un respiro, e cede. Sento che si slaccia l’impermeabile. Lo toglie, se lo accomoda sul braccio. Nel fare quel gesto fa tintinnare una collana, o degli orecchini. E manda una vampata del suo profumo, del suo corpo.
- È una scena all’aperto, di notte – comincia - È buio, si intravedono delle case e dei colli, sullo sfondo, appena illuminati. Delle striature ocra nel cielo.
- C’è una donna seduta, con le gambe leggermente divaricate. Sta guardando verso l’alto, verso una piccola sfera bianca. Potrebbe essere la luna, o un altro pianeta. Potrebbe essere qualcosa uscito dalla sua immaginazione. Sembra la stia interrogando. Sembra che stia aspettando da quella sfera una qualche rivelazione.
- È una donna bella?
- È bella. È molto sensuale. Molto maschile. Ha un collo prominente, e due braccia forti. Anche le mani sono grandi, muscolose. Intrecciate in alto, all’altezza della spalla sinistra, in una posizione innaturale.
- E poi?
- Quello che le dà la femminilità è un velo, color panna, sulla testa. E quella che appare una tunica, e una gonna. Ma potrebbe essere anche altro.
- È da sola?
- No, c’è un uomo. Lui è steso, per terra, ai suoi piedi, su un telo bianco sporco. È magro, le costole pronunciate. Il ventre piatto, introflesso. Veste solo delle mutande, bianche. Il pube appena pronunciato, quasi femminile. Ha le spalle larghe, ma il resto è affusolato. Le dita delle mani lunghe. Le gambe magre, lunghe, bellissime. Ha due gambe meravigliose, come quelle di una bella donna
- Lei sembra un uomo, e lui sembra una donna
- Si. Sono entrambe le cose, potrebbero essere entrambe le cose
- E quell’uomo? Quell’uomo dorme?
- Forse. O forse è morto. La testa è appoggiata ad un basamento, il mento reclinato sul suo petto. È troppo buio, non si vede. Ma sicuramente è in pace. Molto più di lei.
- Sono amanti, secondo te?
- Credo si amino, o si siano molto amati
- Cosa ti fa sentire, questo quadro?
Lei sospira.
- Tante cose. Vedo la solitudine. Vedo la disperazione ma sublimata, ormai. Vedo il distacco. Vedo un corpo, da amare. Quel corpo steso è meraviglioso. Ti invita ad amarlo. Non riesco a staccare lo sguardo da quelle mani, affusolate. Dalle gambe meravigliose.
- E tu, ti senti sola?

Lei non risponde. Sento che si sta con una mano contorcendo l’altra. Mi avvicino, le cingo la vita col braccio. Ha un sedere sodo, ma la vita è magra. Avvicino il mio volto alla sua guancia. La accarezzo sul collo. Ha un basco di feltro, i capelli credo corti. Appoggio delicatamente le mie labbra sul suo orecchio.
- Usciamo – mi dice – andiamo fuori

*****************

Scegliamo di andare a casa mia, per una semplice questione di orientamento. Conosco esattamente la disposizione dei vani e quella dei mobili e delle suppellettili. In case altrui rischierei di distruggere sempre qualcosa.
Non facciamo in tempo ad entrare che ci stiamo già baciando. Lei ha gettato l’impermeabile per terra, io l’ho afferrata forte attorno alla vita stretta. Sento i seni decisi verso di me. Lei ha appoggiato il pube sopra il mio, e io sono già eccitato. La dirigo verso la camera da letto.
- È buio – dice – non ci vedo
- Nemmeno io. Ma ti guido io
Ride anche lei. Entriamo in camera, ci buttiamo sul letto. Mi sfila il maglione, i pantaloni. Faccio per toglierle il vestito, ma si allontana.
- Faccio io – mi dice, è un po’ complicato
Si sfila quello che sembra, dal rumore e dalla consistenza, un lungo vestito di lana. Ora siamo in ginocchio, sul materasso, uno di fronte all’altro. Abbiamo un momento di pausa. Voglio sentirla con le mani. E lei fa lo stesso con me. Ha un visto ben definito, il naso lungo, la bocca carnosa ma piccola. Il collo lungo, le spalle larghe. Veste un reggiseno di cotone, di quelli non particolarmente ricamati. Non sostiene molto, ha un seno piccolo ma i capezzoli grandi, spuntano duri da sotto la stoffa. La pancia è piatta, scendo con le mani in mezzo alle cosce. La sento bagnata.

La sua mano grande scavalca l’elastico delle mie mutande. Sono duro ed eccitato. Le slaccio il reggiseno, lei si toglie le mutande, anche io mi tolgo le mie.
Con la mano mi spinge sul petto, indietro. Sono in ginocchio con le gambe leggermente aperte, la mia schiena è appoggiata a dei cuscini. E poi sento che me lo prende in bocca. Mi fa un pompino lento, caldo. La sua mano grande riesce a stringermelo con vigore, e intanto mi lecca il glande. È un pompino meraviglioso, avvolgente. Con le mani la cingo sul volto, le afferro i capelli, lei aumenta la frequenza. Sento che sto quasi per venire, ma non voglio.

- Vieni con la tua fica sopra di me. Voglio sentire anche io il tuo sapore
Ma a quella frase lei si ferma, quasi di sasso.
- No
- Perché no?
- Non voglio
- Non devi avere problemi, guarda se vuoi puoi anche andare in bagno prima, di là, ma ho voglia di amarti, di sentire il tuo odore e il tuo corpo… così come è
- Non è per quello
- E allora perché?
- Non voglio che mi vedi nuda
Non capisco. Lei è già nuda. Con la mano le ho sentito il sesso fradicio, le ho già stretto il sesso dal perineo fino alla vagina.
- Ma tu sei già nuda - dico
- No, non sono ancora nuda – mi dice
- E non hai voglia di spogliarti
- È tanto che non lo faccio. Mi ci vuole tempo
- Non hai voglia di fare l’amore con me
- Sto morendo. Mi hai sentito. Ma non so se posso fidarmi
- Da quando sono cieco, ho dovuto fidarmi

Lei mi bacia, poi si allontana. Sento un rumore come di bottoni, poi un tonfo sordo, per terra. Si adagia sul letto.
- Amami, per favore – mi dice

Mi avvicino a lei, la bacio in bocca. È un po’ rigida e tremante. Cerco di scioglierla, con le mani e con i baci. Passo la bocca sul volto, le bacio le orecchie. Scendo sul collo, sul seno. Ha le tette abbastanza piccole ma i capezzoli grandi, decisi. Li prendo in bocca, sanno di sale. Lei sussulta. E con la mano forte mi afferra di nuovo il pene, e ricomincia a segarlo. Intanto scendo, sono sul pube. È pelosa, fradicia, meravigliosa. Le apro le labbra con le mani, sento la clitoride gonfia e pronta a spruzzare. Le lecco la clitoride, ed intanto con un dito la penetro. Lei inarca la schiena. È pronta per essere penetrata, ma non l’ho ancora vista tutta. Con la bocca scendo lungo le cosce. Scendo su quella destra, ha un quadricipite muscoloso, ben tornito, le ginocchia da sportiva. Le passo la lingua sul polpaccio, liscio di ceretta, arrivo alla caviglia, al piede affusolato. La bacio sul collo del piede, poi le dita, le metto in bocca. Lei geme. Risalgo con la bocca, ora è il turno dell’altra gamba. Scendo lungo la coscia, arrivo al ginocchio. Lei si irrigidisce. Mi stringe forte la mano. Dopo quel ginocchio non c’è più niente, se non un moncherino di muscoli e di ossa.

Anche io, lì per lì, rimango sorpreso. Mi aveva taciuto la cosa fino all’ultimo, e io non me ne ero accorto fino a quel momento. Ed è quasi venti minuti che facciamo l’amore. Forse lei si aspetta che a quel punto un uomo si alzi, e, disturbato, se ne vada. O forse è abituata che gli uomini se ne vanno prima, non appena vedono la protesi. Con me ha avuto un vantaggio dovuto alla mia cecità. Ma quella protesi, e quel moncherino, mi lasciano indifferente. Non solo perché in Afghanistan ne ho viste tante, di quelle protesi. Sui civili, anche bambini, donne, anziani. E sui miei commilitoni. Ma perché in quel momento ho voglia di amarla. Sento il mio pene ancora duro.

Allora mi richino su di lei e la bacio anche lì, dove non se lo aspetta.
- No, ti prego, lì no. Non baciarmi lì. Lasciami stare lì
- Fidati. Voglio amarti ovunque

Con l’altra mano la masturbo, lei riprende a godere e a gemere. E allora poi mi alzo, le divarico le gambe e la penetro. La stringo a me e spingo forte. Poi la giro, perché sento che ha un culo sodo e forte, e la voglio prendere da dietro. Senza una gamba fa un po’ fatica, ed è quasi stesa a pancia in giù, più che altro. Le sono seduto appena dietro il culo ed intanto la penetro. La sto accarezzando in viso, mi ha preso il dito e lo sta ciucciando. La sento godere forte, e anche io ora ci sto mettendo potenza, quasi rabbia, le apro con la mano per bene le natiche, spingo duro, voglio venirle dentro. Urlo – era tanto che non lo facevo – e sta urlando anche lei, penso di piacere e di non so cosa altro. Veniamo forte, ed era una cosa dovuta da tempo.

**********

- Scusa se non te l’ho detto, prima – mi dice
- Che cosa, della tua gamba?
- Si
- Perché uno dovrebbe dichiarare le sue generalità?
Ride. Sono steso, lei è appoggiata su di me. Con la mano mi accarezza il volto ispido. Io le stringo le natiche, la sento ancora bagnata del mio e del suo.
- Sentire un culo e una fica bagnata addosso è sempre la cosa migliore, dopo una scopata. Molto meglio di una sigaretta.
Ridiamo.
- Era un giovedì sera – mi dice – pioveva. Tornavo da un allenamento di pallavolo. Giocavo in serie B2. Sulla superstrada uno davanti a me frena di colpo. Io freno di conseguenza. La macchina perde il controllo sul bagnato. Io andavo forte. Faccio tre o quattro testacoda, poi la macchina si incastra nel guard-rail. La mia gamba con lei. Il resto l’hai visto. No, anzi, l’hai sentito.
Io le racconto di cosa è successo a me. Della granata. E del fatto che sono fortunato, perché i due commilitoni che erano con me sono morti.
- Stavo pensando una cosa – mi dice
- Che cosa
- Che siamo il non-visibile, e siamo il non-finito
- Noi due o anche gli altri?
- Forse anche gli altri

NDA: L’opera descritta da Beatriz al museo è la ‘Pietà’ di Sebastiano del Piombo (1516-1517 circa)
scritto il
2021-11-14
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