Parigina d'Autunno
di
King David
genere
etero
RIPORTO QUI UN RACCONTO PUBBLICATO MESI FA, SOTTO ALTRO NOME. LO FACCIO PERCHE' A BREVE PUBBLICHERO' UN SEQUEL
“Non voglio più sentire parlare di uomini per almeno cinque mesi”.
Questa la sua promessa, al telefono.
Quella domenica piove. Concordiamo di andare a casa sua a vedere una serie. Lei è un’amica, ex compagna di università. Parigina fino al midollo.
“Va bene la serie. Mi addormenterò. Ieri sera ho dato troppo”
“Almeno ti ricordi come si chiamava?”
Forse Valentina, o forse Claire.
Diluvia quando le entro in casa. Saranno state le 11.30. Lei in tuta con una felpa sformata. Delle calze inguardabili. Caffè americano? Tempo da brunch. Hai della pancetta? Dello speck? Sono vegetariana, non ricordi? Ci conosciamo da 10 anni.
È chiusa in un mallo di castagna a settembre. Quando sono acerbi, verdi e spinosi.
“Che serie?” mi fa, e si butta sul divano
“Quello che vuoi. Mangerò e dormirò”
“Allora andrei per una cosa fintamente romantica, senza lieto fine. Possibilmente, una serie in cui lei alla fine manda lui sul lastrico”
Questo il programma. Nulla di romantico, grazie al cielo. Ed è così che inizia una domenica indimenticabile
*****
“Queste parigine me le hai regalate tu, dieci anni fa”
I due attori della serie sono dei cani nella recitazione, e questa frase le esce dalla bocca come se fosse l’impiegata delle poste che legge il numero di un conto corrente.
Io mi sono già addormentato prima, 15 minuti di sonno per smaltire i bagordi della sera precedente (inizio ad avere una certa età per tirare l’alba). Mi sveglio dal torpore per la fame. È una di quelle domeniche che mangerei in continuazione. Intanto fuori la pioggia ha aumentato di intensità. Mi alzo per andare a tavola. Poi vado in cucina, e mi prendo la libertà di aprire il suo frigorifero. Non trovo nulla se non cose dietetiche e biologiche con una manciata di calorie.
“Di porco. Non hai niente?”
“Quasi nulla”
“Nemmeno a cercarlo?”
“Ci deve essere un burro salato molto buono. Non l’ho nemmeno toccato”
Lo trovo. Lo assaggio ed è eccellente. Sa ancora di stalla, di qualche vaccheria normanna. Lo spalmo su due fette di pane nero abbrustolite.
“Ne vuoi uno?”
“Si – mi fa – e mi porti anche un bicchiere di vino”
Mi risiedo accanto a lei, che ha piegato le gambe all’indietro sotto il suo sedere. I due attori continuano a parlare della loro storia d’amore finita male. Sono due ex che si incontrano in un caffè di New York.
“Chissà perché si chiamano parigine”, mi chiede
Non ne ho idea, penso. Sono concentrato sul pane col burro che effettivamente con il Chateau di Beaucastel fanno una coppia da sballo. Entrambi mi entrano subito in circolazione rendendo il mio sangue più denso e pompandomi la pressione.
“Si chiamano parigine – abbozzo – per quelle come te, nelle giornate come oggi”
“In che senso?”
“Quelle come te che hanno sempre freddo ai piedi e caldo in mezzo alle cosce”.
O si mette a ridere oppure si incazza. Nessuna delle due cose. Non ride nemmeno. Non fa una smorfia. Minchia come è legnosa.
Intanto la prima puntata finisce. Fosse un’altra giornata me ne andrei, ma diluvia e non voglio lavarmi. Rimango, sperando che il secondo episodio sia meglio – al massimo farò il secondo tempo della mia pennica domenicale. Mentre c’è la sigla lei si alza.
“Vado a mettermi un maglione. È proprio arrivato l’autunno”.
Io mi verso ancora un bicchiere di vino promettendomi che sarà l’ultimo. Cerco qualcosa di dolce. Trovo una pera ormai sfatta, ormai appassita da un lato. Sei proprio francese, penso. Se non avete i vermi in casa non siete contenti. Il piacere della decadenza.
Mangio la pera con il pane e il burro salato. Sarebbe meglio un formaggio stagionato, ma questo frigorifero è vuoto. Per darle un po’ di slancio trovo due acciughe e le metto sul pane con il burro. Mi aprono il naso manco fossi di fronte al mare bretone, in cima a una scogliera di calcare frustata dalla salsedine.
Lei arriva. Si è messa un maglione color mattone, a coste larghe. Un residuo degli anni settanta. È grande, almeno due taglie in più. Le casca sulle spalle e la copre fino a metà coscia. Si è tolta la felpa, e a giudicare dalla libertà che intuisco dietro la lana, anche il reggiseno. Ha alzato le maniche sopra il gomito, e si è infilata due guanti di velluto lunghi, stile anni venti, colore bordeaux.
Prende una sedia, la mette davanti alla TV, rivolta verso di me. Ci si siede. Noto che ha messo delle calze lunghe, fantasia tartan, di lana.
Poi apre le gambe.
“Ecco come le parigine indossano le parigine”, mi dice
Senza le mutande. La sua vulva nera e rossa diventa il centro dell’universo e della mia domenica.
“Me le hai regalate tu” mi dice “dieci anni fa”
La sua recitazione è molto più convincente di quella dell’attrice della televisione.
Si alza, mi viene in contro, si siede sopra di me. Prende dalla mia mano il panino abbrustolito con burro e acciughe, ne dà un morso importante. Poi beve un sorso di vino rosso, e poi inizia a baciarmi con la lingua calda, saporita di burro salato e Chateau de Beaucastel. Subito mi diventa duro come un martello.
Con le mani entro sotto il maglione, confermo l’assenza di reggiseno. Le afferro le pere puntute. Amo stringere le tette sotto i maglioni. Mi tengono le mani al caldo. I suoi capezzoli tirano decise. Le sue pere sono sode e non hanno nulla di quella pera che ho appena mangiato.
Lentamente scende, mi apre i pantaloni, e mi tira fuori il cazzo che è diventato duro. Senza nemmeno togliermi del tutto i jeans se lo infila dentro la fica, che è già fradicia.
“Mi piace averlo dentro. Mi piace sentire i bottoni dei jeans, e questo ruvido cotone che mi solleticano vicino all’ano” mi dice.
La faccio saltare un po’ sulle mie cosce, però la cosa che mi eccita di più di questa situazione sono questi sapori autunnali. Fuori piove come se anche il cielo si fosse messo a gocciolare da una grande fica.
Allora la prendo, la metto a sedere sul divano, con la sua faccia contro i cuscini, e la lecco nelle cosce aperte quasi dovessi mangiare il suo sesso. La sua fica è saporita, ha un gusto buono, deciso ed elegante. I suoi umori si mischiano con il burro salato, il vino rosso, le pere sfatte e le acciughe della cantabria.
“è il brunch migliore da dieci anni a questa parte” le dico.
Sono così dentro quella colazione, così convinto di quel pasto che lei se ne accorge e mi viene in bocca, ma tanto, davvero tanto, fino a bagnare anche le sue parigine. Parigi è bagnata e saporita.
Allora alzo la mia faccia dalla sua vulva, mi chino sopra di lei e le infilo la lingua in bocca. Lei me la lecca. Fa per girarsi, per leccarmi meglio, ma le dico di rimanere carponi. Allora piega la testa sul cuscino, per mostrarmi meglio il suo sesso da dietro. La prendo nella fica che è rossa e sembra stia per scoppiare. Nel frattempo anche io sono rimasto in maglione, e sotto nudo. La prendo con foga e faccio fatica a tenerglielo dentro tanto lei è bagnata. È stordita dal piacere, e viene ancora. Ha ormai perso il controllo, e emette anche dei fiati dagli sfinteri mentre la prendo da dietro.
“Scusa” mi dice “ho perso … ahhhhh”
Scusa un bel niente. Quello che le esce dal culo non fa altro che impreziosire la pietanza, si sposa alla perfezione con quella colazione salata, con l’odore del sesso che pervade quella stanza. E mi ricorda che c’è il dessert. E penso che siamo a Parigi. E che ho davanti una donna nuda, vestita di solo maglione, con uno chignon tenuto a malapena da una matita rossa, e che se non lo faccio ora non lo faccio più.
Allora mi allontano, vado al tavolo, prendo il piattino con il burro salato, ci infilo dentro tre dita, e mi riavvicino a lei; le allargo il culo con l’altra mano, e le spalmo un dito di burro sull’ano, un altro sulla vagina e il terzo glielo infilo dentro lo sfintere. Poi lo ritraggo, glielo porto alla bocca, e lei lo lecca, e lo morde. Spalmo il mio pene di burro e glielo infilo. Entra che è una meraviglia.
Lei gode di piacere e intanto morde il divano. È un’estasi autunnale. Ma non voglio venire subito. E ci sono anche altri sapore da provare. Così butto dei cuscini per terra, la faccio appoggiare supina. Le chiedo di alzare le gambe, le sfilo le parigine – una di queste aveva un buco, di cui non mi ero ancora accorto, sul tallone sinistro, che lo lasciava visibile per intero.
Mi appoggio le sue gambe alle spalle, poi i suoi piedi sul mio petto. Le infilo un altro cuscino dietro l’osso sacro, le alzo per bene il sedere, e spalmo ancora del burro sul suo ano. Poi la penetro di nuovo.
“Così avrai freddo ai piedi” le dico
“Scaldameli” mi dice lei
Mentre vado e vengo nei suoi reni, comincio a infilarmi le sue dita dei piedi in bocca, e gliele lappo. I suoi piedi hanno la pianta nera di chi cammina scalza su un parquet pieno di polvere. Hanno un odore forte, quasi insopportabile, ma questa cosa mi eccita ancora di più. Non penso di avere mai avuto il cazzo così gonfio.
Giro lo sguardo a destra, il calice di vino è a portata di mano. Stacco la mia bocca dai suoi piedi e bevo un sorso di rosso. Lo deglutisco quasi tutto, ma non tutto. Mi riprendo i suoi piedi in bocca e il vino cola dalle mie labbra lungo i suoi polpacci e le sue cosce, fino ad arrivare al sesso ormai fradicio dal suo eiaculato e di burro giallo.
“Sto per venire, sto per esplodere” le dico
Allora lei si stacca, con mio grande dispiacere, ma me lo prende in bocca famelica. Le esplodo in bocca, tenendole i capelli, sporcandole di burro, o di chissà che cosa, quella meravigliosa nuca.
È come se mi avesse risucchiato e mi sento svuotare dai polmoni in giù. È come se si fosse ripresa tutto quello che le avevo mangiato, tutto quello che le avevo rubato dalla dispensa. Mi butto sul pavimento, spompato e annebbiato dal vino rosso e da quella sensazione straordinaria. Lei mi si accuccia accanto.
“Eri buona” le dico
“Anche tu eri buono”
“Di cosa sapevo?” le chiedo
“Il tuo pisello?” mi fa
“Si, il mio pisello” le dico
“Sapeva di burro, di sale, di vino rosso, di acciughe. Sapeva tanto del mio culo”
Si alza.
“vado a fare un bagno”
“Vengo anche io” le dico
“No, tu te ne vai. Vado a farmi un bagno da sola”
“Ma sono sporco… e ho fame”
“Non mi interessa. Esci e ti mangi un kebab”
Me ne devo andare. Mi saluta con un bacio. Mi rivesto e sono fradicio senza nemmeno essere uscito in strada.
“D’ora in avanti – mi dice – farò 5 mesi senza uomini”
“Sicura?”
“Penso di si. A parte le domeniche pomeriggio di brutto tempo. Li ti chiederò di venire qui a pranzo. Però diverso da oggi”
“In che senso”
“Deciderò io cosa mangiare, di te, e con cosa accompagnarlo. Ora tocca a me scoprire i tuoi sapori, anche quelli che non hai mai osato immaginare”.
“Non voglio più sentire parlare di uomini per almeno cinque mesi”.
Questa la sua promessa, al telefono.
Quella domenica piove. Concordiamo di andare a casa sua a vedere una serie. Lei è un’amica, ex compagna di università. Parigina fino al midollo.
“Va bene la serie. Mi addormenterò. Ieri sera ho dato troppo”
“Almeno ti ricordi come si chiamava?”
Forse Valentina, o forse Claire.
Diluvia quando le entro in casa. Saranno state le 11.30. Lei in tuta con una felpa sformata. Delle calze inguardabili. Caffè americano? Tempo da brunch. Hai della pancetta? Dello speck? Sono vegetariana, non ricordi? Ci conosciamo da 10 anni.
È chiusa in un mallo di castagna a settembre. Quando sono acerbi, verdi e spinosi.
“Che serie?” mi fa, e si butta sul divano
“Quello che vuoi. Mangerò e dormirò”
“Allora andrei per una cosa fintamente romantica, senza lieto fine. Possibilmente, una serie in cui lei alla fine manda lui sul lastrico”
Questo il programma. Nulla di romantico, grazie al cielo. Ed è così che inizia una domenica indimenticabile
*****
“Queste parigine me le hai regalate tu, dieci anni fa”
I due attori della serie sono dei cani nella recitazione, e questa frase le esce dalla bocca come se fosse l’impiegata delle poste che legge il numero di un conto corrente.
Io mi sono già addormentato prima, 15 minuti di sonno per smaltire i bagordi della sera precedente (inizio ad avere una certa età per tirare l’alba). Mi sveglio dal torpore per la fame. È una di quelle domeniche che mangerei in continuazione. Intanto fuori la pioggia ha aumentato di intensità. Mi alzo per andare a tavola. Poi vado in cucina, e mi prendo la libertà di aprire il suo frigorifero. Non trovo nulla se non cose dietetiche e biologiche con una manciata di calorie.
“Di porco. Non hai niente?”
“Quasi nulla”
“Nemmeno a cercarlo?”
“Ci deve essere un burro salato molto buono. Non l’ho nemmeno toccato”
Lo trovo. Lo assaggio ed è eccellente. Sa ancora di stalla, di qualche vaccheria normanna. Lo spalmo su due fette di pane nero abbrustolite.
“Ne vuoi uno?”
“Si – mi fa – e mi porti anche un bicchiere di vino”
Mi risiedo accanto a lei, che ha piegato le gambe all’indietro sotto il suo sedere. I due attori continuano a parlare della loro storia d’amore finita male. Sono due ex che si incontrano in un caffè di New York.
“Chissà perché si chiamano parigine”, mi chiede
Non ne ho idea, penso. Sono concentrato sul pane col burro che effettivamente con il Chateau di Beaucastel fanno una coppia da sballo. Entrambi mi entrano subito in circolazione rendendo il mio sangue più denso e pompandomi la pressione.
“Si chiamano parigine – abbozzo – per quelle come te, nelle giornate come oggi”
“In che senso?”
“Quelle come te che hanno sempre freddo ai piedi e caldo in mezzo alle cosce”.
O si mette a ridere oppure si incazza. Nessuna delle due cose. Non ride nemmeno. Non fa una smorfia. Minchia come è legnosa.
Intanto la prima puntata finisce. Fosse un’altra giornata me ne andrei, ma diluvia e non voglio lavarmi. Rimango, sperando che il secondo episodio sia meglio – al massimo farò il secondo tempo della mia pennica domenicale. Mentre c’è la sigla lei si alza.
“Vado a mettermi un maglione. È proprio arrivato l’autunno”.
Io mi verso ancora un bicchiere di vino promettendomi che sarà l’ultimo. Cerco qualcosa di dolce. Trovo una pera ormai sfatta, ormai appassita da un lato. Sei proprio francese, penso. Se non avete i vermi in casa non siete contenti. Il piacere della decadenza.
Mangio la pera con il pane e il burro salato. Sarebbe meglio un formaggio stagionato, ma questo frigorifero è vuoto. Per darle un po’ di slancio trovo due acciughe e le metto sul pane con il burro. Mi aprono il naso manco fossi di fronte al mare bretone, in cima a una scogliera di calcare frustata dalla salsedine.
Lei arriva. Si è messa un maglione color mattone, a coste larghe. Un residuo degli anni settanta. È grande, almeno due taglie in più. Le casca sulle spalle e la copre fino a metà coscia. Si è tolta la felpa, e a giudicare dalla libertà che intuisco dietro la lana, anche il reggiseno. Ha alzato le maniche sopra il gomito, e si è infilata due guanti di velluto lunghi, stile anni venti, colore bordeaux.
Prende una sedia, la mette davanti alla TV, rivolta verso di me. Ci si siede. Noto che ha messo delle calze lunghe, fantasia tartan, di lana.
Poi apre le gambe.
“Ecco come le parigine indossano le parigine”, mi dice
Senza le mutande. La sua vulva nera e rossa diventa il centro dell’universo e della mia domenica.
“Me le hai regalate tu” mi dice “dieci anni fa”
La sua recitazione è molto più convincente di quella dell’attrice della televisione.
Si alza, mi viene in contro, si siede sopra di me. Prende dalla mia mano il panino abbrustolito con burro e acciughe, ne dà un morso importante. Poi beve un sorso di vino rosso, e poi inizia a baciarmi con la lingua calda, saporita di burro salato e Chateau de Beaucastel. Subito mi diventa duro come un martello.
Con le mani entro sotto il maglione, confermo l’assenza di reggiseno. Le afferro le pere puntute. Amo stringere le tette sotto i maglioni. Mi tengono le mani al caldo. I suoi capezzoli tirano decise. Le sue pere sono sode e non hanno nulla di quella pera che ho appena mangiato.
Lentamente scende, mi apre i pantaloni, e mi tira fuori il cazzo che è diventato duro. Senza nemmeno togliermi del tutto i jeans se lo infila dentro la fica, che è già fradicia.
“Mi piace averlo dentro. Mi piace sentire i bottoni dei jeans, e questo ruvido cotone che mi solleticano vicino all’ano” mi dice.
La faccio saltare un po’ sulle mie cosce, però la cosa che mi eccita di più di questa situazione sono questi sapori autunnali. Fuori piove come se anche il cielo si fosse messo a gocciolare da una grande fica.
Allora la prendo, la metto a sedere sul divano, con la sua faccia contro i cuscini, e la lecco nelle cosce aperte quasi dovessi mangiare il suo sesso. La sua fica è saporita, ha un gusto buono, deciso ed elegante. I suoi umori si mischiano con il burro salato, il vino rosso, le pere sfatte e le acciughe della cantabria.
“è il brunch migliore da dieci anni a questa parte” le dico.
Sono così dentro quella colazione, così convinto di quel pasto che lei se ne accorge e mi viene in bocca, ma tanto, davvero tanto, fino a bagnare anche le sue parigine. Parigi è bagnata e saporita.
Allora alzo la mia faccia dalla sua vulva, mi chino sopra di lei e le infilo la lingua in bocca. Lei me la lecca. Fa per girarsi, per leccarmi meglio, ma le dico di rimanere carponi. Allora piega la testa sul cuscino, per mostrarmi meglio il suo sesso da dietro. La prendo nella fica che è rossa e sembra stia per scoppiare. Nel frattempo anche io sono rimasto in maglione, e sotto nudo. La prendo con foga e faccio fatica a tenerglielo dentro tanto lei è bagnata. È stordita dal piacere, e viene ancora. Ha ormai perso il controllo, e emette anche dei fiati dagli sfinteri mentre la prendo da dietro.
“Scusa” mi dice “ho perso … ahhhhh”
Scusa un bel niente. Quello che le esce dal culo non fa altro che impreziosire la pietanza, si sposa alla perfezione con quella colazione salata, con l’odore del sesso che pervade quella stanza. E mi ricorda che c’è il dessert. E penso che siamo a Parigi. E che ho davanti una donna nuda, vestita di solo maglione, con uno chignon tenuto a malapena da una matita rossa, e che se non lo faccio ora non lo faccio più.
Allora mi allontano, vado al tavolo, prendo il piattino con il burro salato, ci infilo dentro tre dita, e mi riavvicino a lei; le allargo il culo con l’altra mano, e le spalmo un dito di burro sull’ano, un altro sulla vagina e il terzo glielo infilo dentro lo sfintere. Poi lo ritraggo, glielo porto alla bocca, e lei lo lecca, e lo morde. Spalmo il mio pene di burro e glielo infilo. Entra che è una meraviglia.
Lei gode di piacere e intanto morde il divano. È un’estasi autunnale. Ma non voglio venire subito. E ci sono anche altri sapore da provare. Così butto dei cuscini per terra, la faccio appoggiare supina. Le chiedo di alzare le gambe, le sfilo le parigine – una di queste aveva un buco, di cui non mi ero ancora accorto, sul tallone sinistro, che lo lasciava visibile per intero.
Mi appoggio le sue gambe alle spalle, poi i suoi piedi sul mio petto. Le infilo un altro cuscino dietro l’osso sacro, le alzo per bene il sedere, e spalmo ancora del burro sul suo ano. Poi la penetro di nuovo.
“Così avrai freddo ai piedi” le dico
“Scaldameli” mi dice lei
Mentre vado e vengo nei suoi reni, comincio a infilarmi le sue dita dei piedi in bocca, e gliele lappo. I suoi piedi hanno la pianta nera di chi cammina scalza su un parquet pieno di polvere. Hanno un odore forte, quasi insopportabile, ma questa cosa mi eccita ancora di più. Non penso di avere mai avuto il cazzo così gonfio.
Giro lo sguardo a destra, il calice di vino è a portata di mano. Stacco la mia bocca dai suoi piedi e bevo un sorso di rosso. Lo deglutisco quasi tutto, ma non tutto. Mi riprendo i suoi piedi in bocca e il vino cola dalle mie labbra lungo i suoi polpacci e le sue cosce, fino ad arrivare al sesso ormai fradicio dal suo eiaculato e di burro giallo.
“Sto per venire, sto per esplodere” le dico
Allora lei si stacca, con mio grande dispiacere, ma me lo prende in bocca famelica. Le esplodo in bocca, tenendole i capelli, sporcandole di burro, o di chissà che cosa, quella meravigliosa nuca.
È come se mi avesse risucchiato e mi sento svuotare dai polmoni in giù. È come se si fosse ripresa tutto quello che le avevo mangiato, tutto quello che le avevo rubato dalla dispensa. Mi butto sul pavimento, spompato e annebbiato dal vino rosso e da quella sensazione straordinaria. Lei mi si accuccia accanto.
“Eri buona” le dico
“Anche tu eri buono”
“Di cosa sapevo?” le chiedo
“Il tuo pisello?” mi fa
“Si, il mio pisello” le dico
“Sapeva di burro, di sale, di vino rosso, di acciughe. Sapeva tanto del mio culo”
Si alza.
“vado a fare un bagno”
“Vengo anche io” le dico
“No, tu te ne vai. Vado a farmi un bagno da sola”
“Ma sono sporco… e ho fame”
“Non mi interessa. Esci e ti mangi un kebab”
Me ne devo andare. Mi saluta con un bacio. Mi rivesto e sono fradicio senza nemmeno essere uscito in strada.
“D’ora in avanti – mi dice – farò 5 mesi senza uomini”
“Sicura?”
“Penso di si. A parte le domeniche pomeriggio di brutto tempo. Li ti chiederò di venire qui a pranzo. Però diverso da oggi”
“In che senso”
“Deciderò io cosa mangiare, di te, e con cosa accompagnarlo. Ora tocca a me scoprire i tuoi sapori, anche quelli che non hai mai osato immaginare”.
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