Io e Andrea. Capitolo sei

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Io e Andrea. Capitolo sei.
Dopo la serata in camporella accovacciati nei sedili del coupé all’ombra della luna, l’aia dei nonni di Andrea divenne il nostro punto fisso di incontri. Nei fine settimana finché durò la stagione estiva, eravamo diventati clienti abituali dell’albergo al mare che oramai riservava la stanza senza nemmeno prenotare. Avevamo pensato di utilizzarla anche nelle serate infrasettimanali, ma la distanza rendeva difficile il progetto e anche quando Andrea tornò in possesso della patente, preferivo raggiungerla per recarci in campagna. Appurata la scomodità della mia auto per stare insieme, una volta a casa sua, ripartivamo con la confortevole station di sua madre. Rovesciando il divano posteriore, ne ricavavamo uno spazioso letto matrimoniale e le nostre serate amorose risultarono sempre più soddisfacenti.
Dopo l’estate, qualche fine settimana la trascorremmo assieme a casa mia, dove mia madre non faceva domande e trovava “la mia amica” molto simpatica, anche se un po’ strana. Del resto, era una mia amica, (considerazione ovvia secondo lei). Sicuramente sospettava qualcosa, ma non faceva mai domande, era sempre dalla mia parte. Andrea però non si sentiva a suo agio a casa mia e comunque era tanta la distanza dal suo luogo di lavoro, per cui la cosa migliore risultava fare del pendolarismo. Andavo da lei da due a tre volte la settimana e durante il weekend studiavamo sempre soluzioni diverse, dal bed and breakfast all’alberghetto; l’importante era stare assieme, anche per fare sport.
La avviai a percorsi in mountain bike ed a lunghe pagaiate in kajak sul fiume. Andrea seguiva con entusiasmo e riusciva pure con prestazioni interessanti già nel breve periodo. Un discreto successo ha avuto anche il corso accelerato di equitazione e condividemmo molte passeggiate a cavallo con la monta all’inglese. Andavamo al maneggio che mi aveva visto cavalcare sin da adolescente. Nessuno si preoccupava se portavo ragazze nuove, erano tutte amiche diceva Rommi, sottolineando la battuta con un tono mostruosamente sarcastico, ma lo faceva con tutti gli uomini che presentavano molte donne e, per non fare differenze, per tutte le donne con molti uomini. Le coppie fisse erano peraltro poche al maneggio e comunque tutti ridevano di questa sua abitudine e, quando insisteva più del dovuto, qualcuno gli chiedeva dove fosse e cosa stesse facendo la moglie Pilar. Bastava questo per sentirlo soffocare una sequenza di bestemmie che menzionavano tutti i santi conosciuti più qualcuno di fantasia e subito cambiava registro.
Un bed and breakfast meta delle nostre frequenti vogate in kajak, si trovava nei pressi del grande fiume Po. Aveva a qualche centinaio di metri una zattera dove stavano ormeggiate poche imbarcazioni, perlopiù gusci di noce (li chiamavo io), utili per esercitare la pesca. Da lì mettevamo in acqua i nostri kajak e partivamo sempre controcorrente, perlopiù sottoriva per cercare di fare meno fatica possibile nel fronteggiare l’enorme energia del grande fiume. Era più facile vogare sull’Adige e meglio ancora, sulle acque placide del Sile. Ma tornando al tema, un pomeriggio, dopo aver pesantemente provato i muscoli nel pagaiare, siamo tornati per pranzo, nella piccola cabrio di Andrea e subito dopo siamo ripartiti alla scoperta dei paesaggi che si apprezzavano lungo gli argini.
Il grande fiume dall’alto evocava diverse emozioni. Ma è impressionante anche vedere come in passato, nelle aree alluvionali, per fortuna ora abbandonate vi fossero state costruite fattorie e abitazioni di ogni tipo. Case sparse e per soddisfarne le esigenze del culto, delle chiesette. Tutto questo stimolava terribilmente la mia curiosità. Andrea mi ascoltava silenziosa mentre le raccontavo come era in quelle zone la vita degli indigeni negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, all’epoca delle grandi alluvioni. Percorrendo la strada sugli argini, un perfetto nastro di asfalto che corre tra il verde delle terre adiacenti le zone golenali da una parte ed i campi che a tratti costituiscono degli invasi di sicurezza dall’altra, gli occhi si dilettano della bellezza dei campi nei colori dell’incipiente autunno in quella natura beneficata dal bene prezioso dell’acqua.
Ad un certo punto, Andrea mi chiede di fermare la macchina indicando un campanile che sembra emergere in mezzo al nulla tra l’argine e un terrapieno che delimita uno dei tanti invasi. Si vede qualche tetto mezzo diroccato ed una stradina banca che a tratti scompariva per riemergere nuovamente e poi nascondersi tra alberi e cespugli. Andrea sembrava una bimbetta curiosa ed era chiaro come desiderasse andare in esplorazione. L’attirai con un abbraccio un po’ osteggiato dalla costrizione dei sedili infossati nello striminzito abitacolo. La station che sua madre le prestava per le nostre uscite serali era tutt’altra cosa.
Ci baciammo comunque e procedemmo alla ricerca della stradina che ci potesse portare a scoprire cosa ci fosse attorno a quel campanile che sbucava quasi giocando a nascondino in mezzo alla vegetazione. Trovammo la strada dopo poco più di un chilometro. Scendeva dall’argine e con una serie di curve e controcurve procedemmo la nostra ricerca. Dopo cinquecento metri incontrammo la prima casa e così alla stessa distanza una seconda e poi un piccolo gruppetto di costruzioni ad un piano attorno ad una piccola fattoria. La strada attraversava i cortili e proseguiva, sempre con curve e controcurve, nella piana. Dopo tre chilometri di percorso, arrivammo in una carreggiata coperta di erba falciata di fresco. Ad una cinquantina di metri c’era una chiesetta con accostato di fianco il campanile visto dall’argine.
Scendemmo ed Andrea si fiondò a curiosare attorno all’edificio poi, spingendo la porta appena accostata, entrammo. Si guardava attorno nell’unica stanza poco più di una ventina di metri quadrati, con l’altare alzato da tre gradini. Ancora c’erano alcuni banchi e seppur spoglio di ogni simbolo religioso, l’altare e gli stucchi ne evocavano le vestigia. Salì i gradini e mi chiamò. Quando le fui vicino mi attirò a se e con un baciò sembrò voler consacrare simbolicamente il nostro amore. Le dissi che la chiesa era sconsacrata e lei di rimando, con un sorriso disarmante mi fece notare come anche lei non fosse realmente una donna. Uscimmo nella solitudine dei campi e tolto un plaid dal baule, ci sedemmo all’ombra della chiesetta.
Non ci volle molto per sentire l’attrazione magnetica che ci impediva di rimanere staccati e nel giro di pochi minuti eravamo nudi, avvinghiati l’uno all’altra. Senza smettere di baciarci, le mani correvano alla ricerca del membro e anch’io volevo catturare il suo pistolotto. Oramai non cercava più di impedirmelo e qualche volta ero addirittura riuscito a farla sborrare sulla mia pancia mentre stava impalata sul pennone del piacere. Il profumo dell’erba appena falciata, così vicino al viso, aveva un che di afrodisiaco assieme al profumo della pelle di Andrea e per la prima volta non oppose resistenza quando mi girai per proporle un sessantanove.
Sentire il suo sapore mi sembrò naturale, anche se faticavo non poco a concentrarmi visto il lavoro che stava facendo su di me. Sembrava ogni volta diversa, riusciva a manipolare l’asta ed a strusciare non so come il glande, in un misto di lavoro con la lingua e la mano, fattostà che quasi mi faceva saltare dai brividi di piacere che a tratti diventavano veri e propri sussulti per la energia che riusciva a sprigionare. Allora mi limitavo a tenerle il membro in mano lappandone di tanto in tanto il glande e muovendo qualche colpo di sega.
Lentamente mi trovai supino e Andrea ne approfittò per stendersi sopra di me e coprirmi di baci scendendo dalla testa fino al membro che lubrificò bene per farlo lentamente scivolare dentro il suo corpicino. Seduta sul suo patibolo d’amore, muovendosi lentamente avanti e indietro, mi fece appoggiare una mano sul pancino per farmi percepire dove premeva il cappellotto. Tratteneva il respiro per farlo sentire meglio e suggellando la frase con un bacio sottolineava come la cosa la facesse godere tanto. Anch’io amore caro godo tanto di te e via con una selvaggia cavalcata che sembrava potesse distruggerla tanta era la foga.
Stare per terra non è come avere un materasso che attutisce i colpi, quando Andrea saltava mi sentivo schiacciato col bacino e al contempo il colpo sembrava squassarla. Era sudata e nonostante tutto continuava. Smise di colpo con una smorfia di dolore sbiancando in volto. Si sfilò dall’incomodo stendendosi sopra il mio corpo e ci baciammo per qualche minuto. A lei quindi riprendere l’iniziativa. Si stese prona invitandomi a coprirla. Pur approcciandomi con dolcezza, mi sembrava sempre di infrangere qualcosa di sacro quando mi appoggiavo su di lei o la possedevo immergendomi nel suo corpo.
E così, feci scivolare il membro nell’amata carne e lei lo accettò con un lungo lamento accompagnato dall’oramai classico: piano amore, piano, sai che sei tanto! Appoggiato sul corpo apparentemente fragile di Andrea, ne assaporavo il calore, riempivo le narici del suo profumo e mi muovevo piano rapito dal contatto. Riuscivo a percepire le pieghe del morbido pertugio nell’andirivieni del cappellotto che si faceva strada allargandone le pareti e mentre Andrea spingeva per alzarsi nell’assumere la posizione a pecora, aumentavo il ritmo e l’intensità della penetrazione.
In quella posizione con le mani agganciate ai fianchi e lo sguardo magnetizzato dalla vista del cazzo che entrava ed usciva, mi piaceva estrarlo tutto e osservare lo sfintere beante pulsare, quasi un richiamo ad essere nuovamente riempito. Andrea ruotava il culetto offrendolo ad ogni manovra, sottolineando l’invito ad essere totalmente mia, fino in fondo. Mi venne in quella posizione, la fantasia di infilarci dentro qualche dito e sputandomi sulla mano destra infilai nel pertugio implorante un paio di dita subito dopo aver affondato per una buona metà di cazzo.
Andrea rispose mugolando sonoramente. Così mi allarghi ancora di più disse, fa piano mi raccomando. Era comunque un invito alla mia fantasia, aggiunsi un terzo dito e insieme al mattarello eccitato allo spasimo per quella simbiosi, continuai la penetrazione godendo come un pazzo per le espressioni eccitanti dell’amata. Si sentiva spaccare e godeva all’inverosimile, lamentava dolore ma spingeva il bacino verso quell’insultante ingombro e portando una mano ad esplorare la situazione disse: è come se avessi un altro piccolo uccello oltre al tuo, mi sento tanto larga, tanto troia, la tua troia! Fammi tutto quello che vuoi.
Avrei voluto avere un cazzo grosso il doppio per soddisfarla bene le dissi. Mi sentii immediatamente inadeguato e lei comprese il mio sentimento. Estrassi immediatamente le dita. Comprese ciò che stavo provando e schiacciandosi contro di me, mi catturò prendendomi il bacino e con l’uccello tutto dentro, compresso nelle viscere, mi assicurò la sua piena soddisfazione, ma al contempo, amava anche il gioco di sentirsi allargare senza penetrazioni profonde ma solo per pochi minuti, e non vuole un cazzo diverso come dimensioni.
Ti voglio così come sei continuò a ribadire; non ho mai avuto un uomo come te. Tornai a giocare con un paio di dita nella posizione supina con le gambe sopra le mie spalle. Infilavo le dita oltre al cazzo, nella parte anteriore, accarezzando la prostata, o posteriormente, creando tensione nello sfintere, mentre continuavo a scoparla con un andirivieni ritmato che lei dimostrava di gradire sospirando profondamente. Dovremo prendere qualcosa di morbido suggerii, temo che le dita ti irritino. Fu subito d’accordo e continuammo il nostro amplesso con uno splendido spegni moccolo.
Amavo vederla con la schiena abbronzata e i piccoli glutei esposti alla vista mentre esibivano il lento saliscendi sul mio birillo. Si aiutava con le mani appoggiate alle mie ginocchia divaricate e saliva e scendeva offrendomi lo spettacolo della penetrazione, era morbida nella carezza della cappella che non faceva uscire per farsi massaggiare il canale mentre l’asta teneva allargata la tana e ben saldo il gioco di quel su e giù. Avrei voluto non si fermasse mai. Ogni tanto cambiavamo i ruoli, lei si fermava ed io pompavo. Cambiava il ritmo e la manovra gestita da me era sempre più forte, lei si sbatteva piano seppur l’affondo risultava pieno io affondavo il cazzo quasi con ferocia puntando a sentire il contatto del bacino con il rumore dello sbattimento, ripetendo il classico suono ciack ciack! Un loop che alimentava la libido di entrambi, spingendoci a darci di più esacerbando il piacere sottolineato pure dalle espressioni verbali sconnesse ma sintomatiche di un godimento sfrenato.
Eravamo oramai abbandonati ai suoni dei sii dai, ancora, sbattimi più forte ed io: ti sfondo, ti riempio di sborra! E lei; si aprimi tutta, dammi tutta la tua broda, anzi no, la voglio bere tutta. Con il senno di poi, misurando la dolcezza infinita che mi ispirava Andrea fuori del contesto coitale, mai avrei pensato di arrivare a tanto. Il sesso con lei però riusciva a liberare la mia anima bestiale e più andavamo avanti, più scoprivamo di non avere limiti. Le toglievo il cazzo che subito mi smanettava e le infilavo tutto il palmo della mano, strappandole lamenti di dolore/piacere e immediatamente tornavo a fotterla col cazzo mentre ascoltavo le sottolineature di piacere che mi esortavano a continuare.
Eravamo rapiti nell’amplesso che sembrava non avere fine, ma Andrea ad un certo punto iniziò a venir meno e a sentirsi mancare le forze. Mi disse; cerca di concludere caro, io non ce la faccio più! Voglio goderti in bocca e berla tutta! Tolsi il cazzo e mi permisi ancora una esplorazione manuale di quel morbido umido pertugio del piacere, era così dilatato che mi sembrava di poterci entrare con tutta la mano senza fatica da quanto pareva adattarsi alle mie richieste. Andrea mi prese la mano e gentilmente, ma con fermezza mi esortò a lasciar perdere. Mi fa male amore, scopami in bocca adesso! Era esplicita e non c’erano dubbi sulla volontà a continuare ma in un altro modo.
Mi chiese di stendermi ma preferii rimanere inginocchiato davanti a lei. Fece altrettanto e si impossessò dell’uccello a due mani e mentre con una muoveva veloci movimenti di sega, l’altra percorreva con una energica carezza, il perineo e lo scroto, mentre la bocca era impegnata in una pompa imperiale, con leccate avvolgenti della lingua al cappellotto e per quell’operazione usciva abbondantemente per rientrare subito dopo, risucchiato dalle labbra con voracità.
Le accarezzavo la schiena e cercavo di impossessarmi del suo salsicciotto per pastrugnarlo a mia volta. Ma non me lo concesse subito, ritraendosi ogni qualvolta riuscivo, contorcendomi per raggiungerlo. Continuammo nel gioco e mentre lei continuava la sua opera, le accarezzavo la schiena arrivando ai globi dei glutei, fino alla rosetta che si era chiusa reagendo ancora al tatto come se volesse baciarmi le dita. Mi concesse di toccarle il cazzo quando stavo per esplodere nell’orgasmo e con poche carezze maldestre sentii che stava sborrando. Mi spostò subito la mano mentre le contrazioni accompagnavano l’orgasmo. Andrea emise qualche lungo lamento ed incrementò il ritmo della prestazione. Le accompagnai la testa per darle il ritmo, ma voleva fare lei e mi svuotò come se fossi un bicchiere con un drink goloso da succhiare attraverso la cannuccia.
Si spostò repentinamente verso la mia bocca e ci scambiammo baciandoci, fino all’ultima goccia. Stesi sul plaid continuammo ad accarezzarci e baciarci. Le spalmai le poche gocce di sperma che erano rimaste sulle sue gambe e attorno al membro. Non volle saperne di farsi succhiare con lo sperma. Io mi sentivo pronto a farlo ma lei non voleva ancora e rispettai il suo sentimento. Il pomeriggio era ancora tiepido e piacevolmente attendemmo il momento di rivestirci. Aveva qualcosa da dirmi, lo sentivo anche se non sapevo come promuovere la conversazione. Era la prima volta che mi accadeva. Non si comportava come una donna e nemmeno come un uomo ma ero perso per lei quindi attesi. Dopo un lungo silenzio fatto di tanti dolci baci e tiepide carezze si limitò a dirmi che quello che provava per me le faceva paura, anche se sentiva di potersi fidare.
Non sapevo che rispondere! Io ci sono così come mi vedi, senza se e senza ma! Dimmi sempre tutto quello che senti ed io farò altrettanto ed il tempo farà il resto. Mi sorrise e indossati gli abiti volle fare un altro giro nella chiesetta, senza aggiungere una parola. Tornammo a fare l’amore in quel posto ogni volta che ci trovavamo da quelle parti. Andrea si era informata sul nome del santo cui era stata dedicata la chiesetta. E sempre veniva rispettato il rito della visita al luogo sconsacrato, appena arrivati e prima di andare via. Non la sentii mai bisbigliare una preghiera, ma si faceva il segno della croce. La trovavo adorabile qualsiasi cosa facesse.

scritto il
2022-04-03
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