Fantasa e realtà
di
Margie
genere
etero
È bastato uno sguardo. No, non una singola occhiata, magari un po' lunga e libidinosa. È stato il modo in cui mi ha guardata, come di sfuggita, ma... ecco! Con precisione. La precisione di chi coglie il punto giusto, l'aspetto focale, l'essenza. E quel che ho colto io, all'istante, per essere inchiodata. Un “sì” più impegnativo di quello delle nozze.
Alta velocità per Bologna. Sono seduta sola nel quadrato di sedili. Tailleur grigio scuro, camicia di seta azzurra, collana di perle, tacco sette; gambe accavallate, sinistra sopra la destra. Indosso persino il perizoma; piccolo sì, ma oramai è un'eccezione: di solito o nulla (preferibilmente) o mutandine qualsiasi. E caspita, sono al lavoro, mica ad esprimere me stessa! Non mi sento particolarmente vogliosa, oggi; soprattutto non ho voglia di esserlo. Il perizoma è un accessorio che mi nasconde tanto la voglia quanto la passera. Il mio umore è come la stagione: autunnale. Inizio d'autunno, per la verità. Sono distratta e non ho nessuna sensazione particolare. Non penso nemmeno alla giornata di lavoro che mi attende. Avrò abbastanza da mostrare, dopo, al lavoro: sorrisi, entusiasmi, affetti, passioni... Tutti fasulli, tutti sforzi, tutti che mi fanno rimpiangere l'età della pietra. Non che ci sia vissuta, eh, perfino i quaranta sono ancora davanti. Guardo la carrozza con pochi posti occupati, e quei pochi sono soprattutto nella parte centrale. Facce insignificanti, fotografie di nulla, essenze vuote.
Mi guarda un tizio elegante, mi vede un giovane studente, mi osserva una ragazza che sta al suo fianco. Passeggeri tutti diversi ed uguali nel loro vagabondare. Domande inespresse. Vuoto. Nessuno sguardo arriva a suscitare un pensiero o una sensazione. Non li cerco, è solo per descrivere il mio stato: piatto, indifferente.
Manca mezz'ora, anzi meno. Il dardo mi trafigge repentino, improvviso, inatteso. Non mi guarda: mi ha già vista. Mi ha misurata. Penso possa dire che numero di scarpa abbia. Conosce le mie misure al millimetro. Peso, statura, fianchi, vita, fors'anche i piercing... Glielo leggo sul viso inespressivo. Un viso che ha capito, ma sembra assente. Un viso che potrebbe essere addormentato o sveglio. Non cambierebbe nulla: è un viso che sa, dietro cui c'è una persona che sa. Adesso mi chiedo perché prima di partire abbia indossato il perizoma. Se invece non l'avessi e non avesse capito per conto suo che non lo indosso, gli mostrerei la passera nuda. Ma il perizoma, inutile, ingombrante, c'è e se non apro le gambe non si vede. Non si vede neanche il reggiseno. Ma questo non c'è; non lo uso, mai. Sono pronta a scommettere che ha capito anche questo. Ho i capezzoli tesi; cominciano a prudermi. Ho la passera in fermento. Continua a guardarmi? Lo guardo io e non saprei che dire. A lui è bastato uno sguardo e capisco che gli è chiaro e lampante tutto. Io lo osservo da minuti e lui mostra di non avvedersene. Ma lo so bene, com'è questa situazione: ci si accorge dello sguardo fissato sul nostro corpo. Me ne sono accorta mille volte e sovente (quasi sempre) mi sono eccitata, fino al punto di propormi io stessa. Lui non sembra, invece, accorgersi di nulla. Quasi quasi... Sì, ho deciso: vado alla toilette. Vediamo se mi segue. Mentre mi dirigo verso l'estremità della carrozza percepisco i suoi occhi che mi scrutano il sedere. Con questo abito non è evidenziato; pazienza! Non posso tenere il perizoma, decido mentre chiudo lo sportello. Lo metto nella borsa, mi lavo le mani, esco. Mi sento proprio pronta, adesso.
Non mi ha seguito. Mi sono tolta il perizoma e ho nutrito la mia voglia.
Ritorno al mio posto. Lo guardo. Mi chiedo se senta il mio sguardo percorrerlo con cura di studiosa. Mi guarda anche lui. Il suo, di sguardo, è uno sfioramento erotico che mi accende del tutto. Il treno rallenta. La voce dall'altoparlante nella galleria annuncia l'ingresso a Bologna. Mi avvio allo sportello. Ecco! Adesso mi segue. Stronzetto, non sarebbe stato più conveniente se m'avessi seguita prima? Ci sarebbe stato tutto il tempo, oltre al piacere... forse non è giusto usare il termine “stronzetto”, sarebbe più appropriato dire “imbecille”, ma si perderebbe il senso di giocare come il gatto col topo che attribuisco alla parola “stronzetto”.
Scende anche lui, qui a Bologna. Mi segue e mi raggiunge lungo il marciapiedi. Mi prende per un braccio e mi dà appuntamento per la sera, ore venti e trenta, davanti a san Petronio. “Sarai mia ospite gradita a cena! Poi il mio cazzo sarà tuo ospite invasivo a letto”. Più chiaro di così... più giusto di così! Senza nemmeno considerare la possibilità di un mio rifiuto. Ha capito proprio tutto. Mi sembra di scoppiare di voglia. Quel “cazzo”, così spontaneo, diretto, mi genera un sospiro, un brivido, una contrazione addominale. La mia risposta è un semplice cenno di capo. Un assenso estorto ma deciso. Dentro di me avevo già accettato, desiderato, prima: adesso parla, silenziosa, una chiarissima, inequivocabile implorazione. Aspetto stasera, già ora. L'attendo; vorrei saltare l'intera giornata ed essere nuda e palpitante a pecora sul letto. Una voglia esplicita, come la nudità della mia passera bruciante, dischiusa, grondante.
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Diciamo la verità: questo episodio non è finito esattamente così. Non c'è stato nessun appuntamento. Tutto vero, tranne la parte conclusiva. Il vero finale? Eccolo qui, semplice e sincero.
Passo accanto al suo sedile, disponibile e pronta. Mi trattiene un attimo durante il quale mi dice: “Perdoni l'ardire, signora: stia attenta a come cammina. Temo che il suo tacco sinistro stia per cedere!” La sua bocca esprime il dolore dell'impossibilità di un più efficace aiuto. Io ci resto secca. E lui è ripartito col treno. Il tacco s'è rotto verso la fine della giornata.
Alta velocità per Bologna. Sono seduta sola nel quadrato di sedili. Tailleur grigio scuro, camicia di seta azzurra, collana di perle, tacco sette; gambe accavallate, sinistra sopra la destra. Indosso persino il perizoma; piccolo sì, ma oramai è un'eccezione: di solito o nulla (preferibilmente) o mutandine qualsiasi. E caspita, sono al lavoro, mica ad esprimere me stessa! Non mi sento particolarmente vogliosa, oggi; soprattutto non ho voglia di esserlo. Il perizoma è un accessorio che mi nasconde tanto la voglia quanto la passera. Il mio umore è come la stagione: autunnale. Inizio d'autunno, per la verità. Sono distratta e non ho nessuna sensazione particolare. Non penso nemmeno alla giornata di lavoro che mi attende. Avrò abbastanza da mostrare, dopo, al lavoro: sorrisi, entusiasmi, affetti, passioni... Tutti fasulli, tutti sforzi, tutti che mi fanno rimpiangere l'età della pietra. Non che ci sia vissuta, eh, perfino i quaranta sono ancora davanti. Guardo la carrozza con pochi posti occupati, e quei pochi sono soprattutto nella parte centrale. Facce insignificanti, fotografie di nulla, essenze vuote.
Mi guarda un tizio elegante, mi vede un giovane studente, mi osserva una ragazza che sta al suo fianco. Passeggeri tutti diversi ed uguali nel loro vagabondare. Domande inespresse. Vuoto. Nessuno sguardo arriva a suscitare un pensiero o una sensazione. Non li cerco, è solo per descrivere il mio stato: piatto, indifferente.
Manca mezz'ora, anzi meno. Il dardo mi trafigge repentino, improvviso, inatteso. Non mi guarda: mi ha già vista. Mi ha misurata. Penso possa dire che numero di scarpa abbia. Conosce le mie misure al millimetro. Peso, statura, fianchi, vita, fors'anche i piercing... Glielo leggo sul viso inespressivo. Un viso che ha capito, ma sembra assente. Un viso che potrebbe essere addormentato o sveglio. Non cambierebbe nulla: è un viso che sa, dietro cui c'è una persona che sa. Adesso mi chiedo perché prima di partire abbia indossato il perizoma. Se invece non l'avessi e non avesse capito per conto suo che non lo indosso, gli mostrerei la passera nuda. Ma il perizoma, inutile, ingombrante, c'è e se non apro le gambe non si vede. Non si vede neanche il reggiseno. Ma questo non c'è; non lo uso, mai. Sono pronta a scommettere che ha capito anche questo. Ho i capezzoli tesi; cominciano a prudermi. Ho la passera in fermento. Continua a guardarmi? Lo guardo io e non saprei che dire. A lui è bastato uno sguardo e capisco che gli è chiaro e lampante tutto. Io lo osservo da minuti e lui mostra di non avvedersene. Ma lo so bene, com'è questa situazione: ci si accorge dello sguardo fissato sul nostro corpo. Me ne sono accorta mille volte e sovente (quasi sempre) mi sono eccitata, fino al punto di propormi io stessa. Lui non sembra, invece, accorgersi di nulla. Quasi quasi... Sì, ho deciso: vado alla toilette. Vediamo se mi segue. Mentre mi dirigo verso l'estremità della carrozza percepisco i suoi occhi che mi scrutano il sedere. Con questo abito non è evidenziato; pazienza! Non posso tenere il perizoma, decido mentre chiudo lo sportello. Lo metto nella borsa, mi lavo le mani, esco. Mi sento proprio pronta, adesso.
Non mi ha seguito. Mi sono tolta il perizoma e ho nutrito la mia voglia.
Ritorno al mio posto. Lo guardo. Mi chiedo se senta il mio sguardo percorrerlo con cura di studiosa. Mi guarda anche lui. Il suo, di sguardo, è uno sfioramento erotico che mi accende del tutto. Il treno rallenta. La voce dall'altoparlante nella galleria annuncia l'ingresso a Bologna. Mi avvio allo sportello. Ecco! Adesso mi segue. Stronzetto, non sarebbe stato più conveniente se m'avessi seguita prima? Ci sarebbe stato tutto il tempo, oltre al piacere... forse non è giusto usare il termine “stronzetto”, sarebbe più appropriato dire “imbecille”, ma si perderebbe il senso di giocare come il gatto col topo che attribuisco alla parola “stronzetto”.
Scende anche lui, qui a Bologna. Mi segue e mi raggiunge lungo il marciapiedi. Mi prende per un braccio e mi dà appuntamento per la sera, ore venti e trenta, davanti a san Petronio. “Sarai mia ospite gradita a cena! Poi il mio cazzo sarà tuo ospite invasivo a letto”. Più chiaro di così... più giusto di così! Senza nemmeno considerare la possibilità di un mio rifiuto. Ha capito proprio tutto. Mi sembra di scoppiare di voglia. Quel “cazzo”, così spontaneo, diretto, mi genera un sospiro, un brivido, una contrazione addominale. La mia risposta è un semplice cenno di capo. Un assenso estorto ma deciso. Dentro di me avevo già accettato, desiderato, prima: adesso parla, silenziosa, una chiarissima, inequivocabile implorazione. Aspetto stasera, già ora. L'attendo; vorrei saltare l'intera giornata ed essere nuda e palpitante a pecora sul letto. Una voglia esplicita, come la nudità della mia passera bruciante, dischiusa, grondante.
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Diciamo la verità: questo episodio non è finito esattamente così. Non c'è stato nessun appuntamento. Tutto vero, tranne la parte conclusiva. Il vero finale? Eccolo qui, semplice e sincero.
Passo accanto al suo sedile, disponibile e pronta. Mi trattiene un attimo durante il quale mi dice: “Perdoni l'ardire, signora: stia attenta a come cammina. Temo che il suo tacco sinistro stia per cedere!” La sua bocca esprime il dolore dell'impossibilità di un più efficace aiuto. Io ci resto secca. E lui è ripartito col treno. Il tacco s'è rotto verso la fine della giornata.
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