La gladiatrice. 1. Cercare di sopravvivere
di
Yuko
genere
dominazione
La gladiatrice.
1. Cercare di sopravvivere
“Mihi nomen est Shikitsuhiko. Ego sum bellatrix et ab extremis orientalibus partibus venio...”
Un antichissimo scritto rinvenuto in un anfratto di una catacomba di Roma, dove un cedimento strutturale di un diaframma in muratura ha portato alla luce un nuovo ambiente.
Gli archeologi attestano l'autenticità del manoscritto, riportato su impasti di vegetali dell'epoca; un documento ripiegato su sé stesso e conservatosi forse proprio per il fatto di essere stato isolato dall'ambiente esterno. La datazione potrebbe far risalire il reperto al primo o secondo secolo dopo Cristo, in piena età imperiale.
“Il mio nome è Shikitsuhiko. Sono una donna guerriera e vengo dall'estremo oriente. Nata nel Paese dei Wa, fuggita al popolo Han che di me voleva fare una concubina, sono stata addestrata al combattimento diventando una guerriera e spostandomi in campagne militari sempre più verso le terre occidentali. Ho poi prestato servizio come guardia al seguito di un gruppo di commercianti, finché non fummo attaccati e sconfitti da predoni. Io fui venduta come schiava ad altri commercianti ormai agli estremi confini orientali dell'impero romano.
Ho cambiato il mio nome adottando quello, più facile, di Keiko, tagliando i ponti e soffocando i ricordi della mia precedente vita nelle terre del Sol Levante.
Sono stata usata e venduta come oggetto di piacere. Le mie sembianze esotiche, le fattezze del mio corpo e i miei capelli corvini mi hanno valorizzata negli scambi tra mercanti e patrizi, ma grazie ad alleanze e tradimenti e alla conoscenza della composizione dei veleni, sono riuscita nuovamente a sfuggire a questo destino di merce sessuale cui già mi ero sottratta nelle terre in cui sono nata. Sono ritornata al mio ruolo di donna combattente, ma, nuovamente caduta in un'imboscata con la mia compagnia in viaggio tra Tracia e Macedonia, viste le mie doti nella pugna, sono stata venduta a un addestratore di gladiatori in viaggio per Roma.
Le donne gladiatrici sono merce rara e di richiamo, e le mie capacità in combattimento già avevano destato ammirazione.
La schiera di gladiatori di cui faccio parte si è mossa verso Roma attraverso l'Apulia, temprandosi e riscuotendo onori e prestigi in combattimenti in vari circhi e teatri, con l'intento di essere venduta per i prestigiosi giochi nella capitale dell'impero e riscuotere importante guadagno.
Sono considerata una buona lottatrice e un'abile combattente, fenomeno da esporre e donna attraente, sopravvissuta ormai a molti combattimenti.
Preceduta dalla fama, sono Keiko, la gladiatrice venuta dall'oriente.
Io coltivo l'ideale di divenire liberta o di fuggire.”
E finalmente siamo a Roma. Qui abbiamo dimora al ludus Dacicus.
La vita di un gladiatore è dura e senza speranza. Ancora peggio è quella di una gladiatrice, sempre ottenebrata da un futuro di morte in combattimento contro uomini più forti e più esperti.
Negli allenamenti sono forte e rispettata, ma nella vita al ludus devo lottare contro continui soprusi.
Molti hanno abusato di me.
Per far fronte alla mia forza non comune e alla mia agilità, molto superiore a quella maschile, sono stata attaccata da gruppi di uomini. E mentre uno mi bloccava per la gola e per le braccia e altri due mi allargavano le gambe, un quarto mi penetrava fino al suo completo piacimento. E poi a turno gli altri, fino a lasciarmi distrutta e in pianto, percossa, violata e umiliata.
Ma nella notte ho dato sfogo alle mie vendette e qualche volta ho lacerato gole col pugio che tengo nascosto, o più spesso col veleno. Ma mai in numero superiore a uno, per il timore di essere scoperta e condannata a crocefissione, consumando quindi solo una vendetta parziale.
E tanto è bastato per ottenere rispetto e considerazione.
Ma chi viola una donna schiava non tiene in rispetto i suoi cicli lunari e più di una volta mi sono dovuta avvelenare con infusi di prezzemolo per eliminare gravidanze inopportune ed espellere con contrazioni del mio ventre il frutto di altrui piacere.
Rare volte mi sono concessa con sentimento.
Nelle buie catapecchie mi sono fatta spogliare e sono stata nuda, fra le braccia e protetta da uomini che mi hanno amata e a cui ho concesso il mio corpo, ma che sono sopravvissuti solo per poco, uccisi nei ludi sull'arena nelle settimane successive.
Il mio ruolo è quello di reziario, il più infimo tra i gladiatori, eppure questo incarico mi è valso la vita e il mio successo.
Combatto senza elmo e senza armatura pesante, perchè il pubblico intero possa rendersi conto delle mie fattezze di donna, eppure grazie all'armamento leggero, posso competere con agilità contro la forza maschile, soggetta a protezione di scudi e di lamiere che, appesantendoli, li rende goffi e lenti.
Con destrezza e leggerezza più volte il mio tridente ha trafitto chi è entrato in combattimento contro di me e questo, rispetto alle rare gladiatrici di cui mi fecero menzione, spiega la mia protratta sopravvivenza sull'arena dei ludi.
Vesto una tunica di lino, ma più spesso solo una protezione in cuoio che mi copre il petto e un succinto perizoma. A gambe nude e libera nei movimenti sono estremamente pericolosa, soprattutto per chi, non conoscendo la mia fama o perché inesperto, mi affronta sottovalutando le mie doti.
So usare le mie armi molto bene e solo di rado sono stata sconfitta.
Molti stupidi mi hanno attaccata vedendomi donna fragile e incapace.
Deridendomi e insultandomi mi hanno accostata coprendomi di ridicolo per poi finire sotto i colpi delle mie armi. Un colpo di tridente parato con lo scudo li esponeva al lancio della mia rete. Finivano a terra imbrigliati come pesci e il mio forcone ne trafiggeva le gambe.
Feriti e urlanti si dimenavano impotenti tra le mie briglie e il pollice verso ne decretava una rapida morte.
Se da principio ho vissuto come una condanna l'esser donna, mi sono abituata a trarne profitto.
Il mio corpo seminudo che combatte, uccide senza pietà chi mi si avvicina senza rispetto, l'espressione del mio volto che rivela rabbia o sofferenza, i capelli sciolti sul mio capo senza elmo sono tratti ormai noti a molti del pubblico.
La mia nudità che si espone quando, soggetta ai colpi di gladio, perdo la protezione del petto o fra le cosce, esalta il pubblico e nelle rare volte in cui cado sconfitta, il pollice del regnante è verso l'alto.
Priva della rete, del tridente e del pugio devo sottostare alla violenza sessuale del mio vincitore.
Restare sudata sulla rena sporca di sangue a braccia e gambe aperte e aspettare che il contendente si spogli e mi possegga, spesso dopo percosse di schiaffi e calci.
Il pubblico urla assetato di sesso e di violenza.
Il gladiatore che mi ha vinta mi strappa le vesti, si mena la verga e, sdraiandosi su di me, possiede la mia intimità e mi penetra provando piacere fino all'orgasmo, celebrato dalle urla degli spettatori.
Io subisco stringendo la sabbia fra le dita e aspettando che il vincitore e spesso i suoi compagni usino di me e del mio corpo sotto gli occhi di centinaia di perversi.
Guardo il cielo accecante del meridio e sogno i fiori di ciliegio della mia terra e della mia fanciullezza perduta finchè lo strazio non abbia avuto fine, per tornarmene poi, nuda, umiliata e derisa, al Dacicus, per progettare la mia vendetta al combattimento successivo.
Ma il più delle volte il pubblico acclama al mio combattimento. Sfuggo all'avversario che mi insegue e che si sfianca sotto il peso delle sue armi, fino a che mi giro di scatto e il tridente lo colpisce senza pietà. Continui colpi di fuscina lo costringono a difendersi col pesante scudo finché la forze del braccio viene meno. La mia rete vola alta per impigliarsi nella sua armatura e quando quello alza il gladio per lacerarla, io, pronta, la ritiro e la getto ai suoi piedi. Allora se non salta con rapidità, finisce presto per perdere l'equilibrio e ritrovarsi il mio tridente nella gola o attraverso il cranio.
Salta, sfugge, si abbassa, il mio avversario, mentre io, agile e leggera, lo tormento con le mie armi; in ogni suo movimento brucia le sue risorse.
Allora la mia rete sul suo elmo e il tridente che lo falcia ai piedi presto lo riducono nelle condizioni di un crostaceo imprigionato a terra o immobile nei miei lacci. Io mi strappo la pettorina e mostro il mio corpo di donna alla più alta carica che assiste ai giochi e al pubblico.
Schiaccio il mio piede nudo sul petto dello sconfitto e lo trafiggo col pugnale alla gola o col tridente.
Molte sono le donne che assistono al circo Massimo ai miei combattimenti e che parteggiano per me. Molti gli uomini che inneggiano al mio nome prima che la morte si abbatta sul mio avversario o quando, raramente, il mio corpo deve subire la violenta penetrazione e l'umiliazione del mio sesso in caso io sia sconfitta.
Ho riscosso popolarità e già più volte nobili patrizi e non di rado mogli di senatori e di uomini al potere, hanno richiesto la mia compagnia per notti di sesso e di amore.
Il mio volto dai tratti orientali, i miei occhi dalle linee straniere e i miei capelli neri hanno affascinato più di un uomo e non poche donne dell'impero.
Allora venivo prelevata al ludus Dacicus e trasportata in biga, vestita delle mie armi.
In ricche dimore venivo privata dei vestiti perché il mio corpo fosse lavato e profumato da schiave ossequiose.
Vestita di una leggera tunica mi trasportavano sul talamo dove venivo spogliata per giacere con uomini e con donne.
I capezzoli larghi e scuri, le sfumature gialle della mia pelle hanno potere eccitante su ambo i sessi.
Ho doti di amante e so come recare piacere a donne e maschi.
E se in passato più volte ho sfuggito un destino da concubina, ora lo subisco per sopravvivere e coltivare un sogno di libertà.
Ho amoreggiato con donne patrizie sotto gli occhi dei mariti e dei loro ospiti, portando all'orgasmo mogli e amanti e poi subire di essere a mia volta oggetto di sesso da parte delle stesse.
Tra le mie cosce ho accolto bocche di mogli e di mariti; lingue curiose e indiscrete mi hanno portata a esplodere in grida di passione e più e più volte, in modi sempre diversi.
Sono stata penetrata da verghe in ogni anfratto, dal davanti e di dietro e in bocca e fra le ascelle; mentre amavo donne venivo posseduta dai mariti, o con più uomini nello stesso istante, sotto gli occhi di altre donne e altri patrizi che poi prendevano parte all'orgia nel mio corpo.
E sempre ho soddisfatto chi ha cercato il mio corpo, riempiendo i miei buchi di carne e di altri oggetti.
Combattimento fu anche questo non meno amaro, ma almeno non mortale.
Nutrita di cibi ricercati e vestita di vesti nobili ho riposato il mio corpo e rinforzato le mie energie per ritornare sulla rena al combattimento successivo, più forte e ben nutrita, riposata e più agguerrita.
- Continua
1. Cercare di sopravvivere
“Mihi nomen est Shikitsuhiko. Ego sum bellatrix et ab extremis orientalibus partibus venio...”
Un antichissimo scritto rinvenuto in un anfratto di una catacomba di Roma, dove un cedimento strutturale di un diaframma in muratura ha portato alla luce un nuovo ambiente.
Gli archeologi attestano l'autenticità del manoscritto, riportato su impasti di vegetali dell'epoca; un documento ripiegato su sé stesso e conservatosi forse proprio per il fatto di essere stato isolato dall'ambiente esterno. La datazione potrebbe far risalire il reperto al primo o secondo secolo dopo Cristo, in piena età imperiale.
“Il mio nome è Shikitsuhiko. Sono una donna guerriera e vengo dall'estremo oriente. Nata nel Paese dei Wa, fuggita al popolo Han che di me voleva fare una concubina, sono stata addestrata al combattimento diventando una guerriera e spostandomi in campagne militari sempre più verso le terre occidentali. Ho poi prestato servizio come guardia al seguito di un gruppo di commercianti, finché non fummo attaccati e sconfitti da predoni. Io fui venduta come schiava ad altri commercianti ormai agli estremi confini orientali dell'impero romano.
Ho cambiato il mio nome adottando quello, più facile, di Keiko, tagliando i ponti e soffocando i ricordi della mia precedente vita nelle terre del Sol Levante.
Sono stata usata e venduta come oggetto di piacere. Le mie sembianze esotiche, le fattezze del mio corpo e i miei capelli corvini mi hanno valorizzata negli scambi tra mercanti e patrizi, ma grazie ad alleanze e tradimenti e alla conoscenza della composizione dei veleni, sono riuscita nuovamente a sfuggire a questo destino di merce sessuale cui già mi ero sottratta nelle terre in cui sono nata. Sono ritornata al mio ruolo di donna combattente, ma, nuovamente caduta in un'imboscata con la mia compagnia in viaggio tra Tracia e Macedonia, viste le mie doti nella pugna, sono stata venduta a un addestratore di gladiatori in viaggio per Roma.
Le donne gladiatrici sono merce rara e di richiamo, e le mie capacità in combattimento già avevano destato ammirazione.
La schiera di gladiatori di cui faccio parte si è mossa verso Roma attraverso l'Apulia, temprandosi e riscuotendo onori e prestigi in combattimenti in vari circhi e teatri, con l'intento di essere venduta per i prestigiosi giochi nella capitale dell'impero e riscuotere importante guadagno.
Sono considerata una buona lottatrice e un'abile combattente, fenomeno da esporre e donna attraente, sopravvissuta ormai a molti combattimenti.
Preceduta dalla fama, sono Keiko, la gladiatrice venuta dall'oriente.
Io coltivo l'ideale di divenire liberta o di fuggire.”
E finalmente siamo a Roma. Qui abbiamo dimora al ludus Dacicus.
La vita di un gladiatore è dura e senza speranza. Ancora peggio è quella di una gladiatrice, sempre ottenebrata da un futuro di morte in combattimento contro uomini più forti e più esperti.
Negli allenamenti sono forte e rispettata, ma nella vita al ludus devo lottare contro continui soprusi.
Molti hanno abusato di me.
Per far fronte alla mia forza non comune e alla mia agilità, molto superiore a quella maschile, sono stata attaccata da gruppi di uomini. E mentre uno mi bloccava per la gola e per le braccia e altri due mi allargavano le gambe, un quarto mi penetrava fino al suo completo piacimento. E poi a turno gli altri, fino a lasciarmi distrutta e in pianto, percossa, violata e umiliata.
Ma nella notte ho dato sfogo alle mie vendette e qualche volta ho lacerato gole col pugio che tengo nascosto, o più spesso col veleno. Ma mai in numero superiore a uno, per il timore di essere scoperta e condannata a crocefissione, consumando quindi solo una vendetta parziale.
E tanto è bastato per ottenere rispetto e considerazione.
Ma chi viola una donna schiava non tiene in rispetto i suoi cicli lunari e più di una volta mi sono dovuta avvelenare con infusi di prezzemolo per eliminare gravidanze inopportune ed espellere con contrazioni del mio ventre il frutto di altrui piacere.
Rare volte mi sono concessa con sentimento.
Nelle buie catapecchie mi sono fatta spogliare e sono stata nuda, fra le braccia e protetta da uomini che mi hanno amata e a cui ho concesso il mio corpo, ma che sono sopravvissuti solo per poco, uccisi nei ludi sull'arena nelle settimane successive.
Il mio ruolo è quello di reziario, il più infimo tra i gladiatori, eppure questo incarico mi è valso la vita e il mio successo.
Combatto senza elmo e senza armatura pesante, perchè il pubblico intero possa rendersi conto delle mie fattezze di donna, eppure grazie all'armamento leggero, posso competere con agilità contro la forza maschile, soggetta a protezione di scudi e di lamiere che, appesantendoli, li rende goffi e lenti.
Con destrezza e leggerezza più volte il mio tridente ha trafitto chi è entrato in combattimento contro di me e questo, rispetto alle rare gladiatrici di cui mi fecero menzione, spiega la mia protratta sopravvivenza sull'arena dei ludi.
Vesto una tunica di lino, ma più spesso solo una protezione in cuoio che mi copre il petto e un succinto perizoma. A gambe nude e libera nei movimenti sono estremamente pericolosa, soprattutto per chi, non conoscendo la mia fama o perché inesperto, mi affronta sottovalutando le mie doti.
So usare le mie armi molto bene e solo di rado sono stata sconfitta.
Molti stupidi mi hanno attaccata vedendomi donna fragile e incapace.
Deridendomi e insultandomi mi hanno accostata coprendomi di ridicolo per poi finire sotto i colpi delle mie armi. Un colpo di tridente parato con lo scudo li esponeva al lancio della mia rete. Finivano a terra imbrigliati come pesci e il mio forcone ne trafiggeva le gambe.
Feriti e urlanti si dimenavano impotenti tra le mie briglie e il pollice verso ne decretava una rapida morte.
Se da principio ho vissuto come una condanna l'esser donna, mi sono abituata a trarne profitto.
Il mio corpo seminudo che combatte, uccide senza pietà chi mi si avvicina senza rispetto, l'espressione del mio volto che rivela rabbia o sofferenza, i capelli sciolti sul mio capo senza elmo sono tratti ormai noti a molti del pubblico.
La mia nudità che si espone quando, soggetta ai colpi di gladio, perdo la protezione del petto o fra le cosce, esalta il pubblico e nelle rare volte in cui cado sconfitta, il pollice del regnante è verso l'alto.
Priva della rete, del tridente e del pugio devo sottostare alla violenza sessuale del mio vincitore.
Restare sudata sulla rena sporca di sangue a braccia e gambe aperte e aspettare che il contendente si spogli e mi possegga, spesso dopo percosse di schiaffi e calci.
Il pubblico urla assetato di sesso e di violenza.
Il gladiatore che mi ha vinta mi strappa le vesti, si mena la verga e, sdraiandosi su di me, possiede la mia intimità e mi penetra provando piacere fino all'orgasmo, celebrato dalle urla degli spettatori.
Io subisco stringendo la sabbia fra le dita e aspettando che il vincitore e spesso i suoi compagni usino di me e del mio corpo sotto gli occhi di centinaia di perversi.
Guardo il cielo accecante del meridio e sogno i fiori di ciliegio della mia terra e della mia fanciullezza perduta finchè lo strazio non abbia avuto fine, per tornarmene poi, nuda, umiliata e derisa, al Dacicus, per progettare la mia vendetta al combattimento successivo.
Ma il più delle volte il pubblico acclama al mio combattimento. Sfuggo all'avversario che mi insegue e che si sfianca sotto il peso delle sue armi, fino a che mi giro di scatto e il tridente lo colpisce senza pietà. Continui colpi di fuscina lo costringono a difendersi col pesante scudo finché la forze del braccio viene meno. La mia rete vola alta per impigliarsi nella sua armatura e quando quello alza il gladio per lacerarla, io, pronta, la ritiro e la getto ai suoi piedi. Allora se non salta con rapidità, finisce presto per perdere l'equilibrio e ritrovarsi il mio tridente nella gola o attraverso il cranio.
Salta, sfugge, si abbassa, il mio avversario, mentre io, agile e leggera, lo tormento con le mie armi; in ogni suo movimento brucia le sue risorse.
Allora la mia rete sul suo elmo e il tridente che lo falcia ai piedi presto lo riducono nelle condizioni di un crostaceo imprigionato a terra o immobile nei miei lacci. Io mi strappo la pettorina e mostro il mio corpo di donna alla più alta carica che assiste ai giochi e al pubblico.
Schiaccio il mio piede nudo sul petto dello sconfitto e lo trafiggo col pugnale alla gola o col tridente.
Molte sono le donne che assistono al circo Massimo ai miei combattimenti e che parteggiano per me. Molti gli uomini che inneggiano al mio nome prima che la morte si abbatta sul mio avversario o quando, raramente, il mio corpo deve subire la violenta penetrazione e l'umiliazione del mio sesso in caso io sia sconfitta.
Ho riscosso popolarità e già più volte nobili patrizi e non di rado mogli di senatori e di uomini al potere, hanno richiesto la mia compagnia per notti di sesso e di amore.
Il mio volto dai tratti orientali, i miei occhi dalle linee straniere e i miei capelli neri hanno affascinato più di un uomo e non poche donne dell'impero.
Allora venivo prelevata al ludus Dacicus e trasportata in biga, vestita delle mie armi.
In ricche dimore venivo privata dei vestiti perché il mio corpo fosse lavato e profumato da schiave ossequiose.
Vestita di una leggera tunica mi trasportavano sul talamo dove venivo spogliata per giacere con uomini e con donne.
I capezzoli larghi e scuri, le sfumature gialle della mia pelle hanno potere eccitante su ambo i sessi.
Ho doti di amante e so come recare piacere a donne e maschi.
E se in passato più volte ho sfuggito un destino da concubina, ora lo subisco per sopravvivere e coltivare un sogno di libertà.
Ho amoreggiato con donne patrizie sotto gli occhi dei mariti e dei loro ospiti, portando all'orgasmo mogli e amanti e poi subire di essere a mia volta oggetto di sesso da parte delle stesse.
Tra le mie cosce ho accolto bocche di mogli e di mariti; lingue curiose e indiscrete mi hanno portata a esplodere in grida di passione e più e più volte, in modi sempre diversi.
Sono stata penetrata da verghe in ogni anfratto, dal davanti e di dietro e in bocca e fra le ascelle; mentre amavo donne venivo posseduta dai mariti, o con più uomini nello stesso istante, sotto gli occhi di altre donne e altri patrizi che poi prendevano parte all'orgia nel mio corpo.
E sempre ho soddisfatto chi ha cercato il mio corpo, riempiendo i miei buchi di carne e di altri oggetti.
Combattimento fu anche questo non meno amaro, ma almeno non mortale.
Nutrita di cibi ricercati e vestita di vesti nobili ho riposato il mio corpo e rinforzato le mie energie per ritornare sulla rena al combattimento successivo, più forte e ben nutrita, riposata e più agguerrita.
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