La gladiatrice. 2. Scontro all'anfiteatro Flavio
di
Yuko
genere
saffico
2. Scontro all'anfiteatro Flavio
L'odore della rena nel campo da combattimento è sempre uguale.
Ho lottato in molte parti dell'impero, ma quella sensazione di morte imminente al momento di entrare sulla scena non mi ha mai abbandonata, ormai indissolubilmente associata a questo olezzo di sangue fresco e sangue putrefatto, di piscio e sudore e sentore di bestie selvatiche se prima di noi si è svolta una pugna con animali feroci.
Dopo tanti successi e onori al circo Massimo, siamo dunque giunti all'anfiteatro Flavio.
La struttura, anche se più contenuta del circo, è imponente e dall'interno sembra ancora più grande.
Mai come ora, più di ogni altra volta, mi assale un pensiero non nuovo. Rivedrò ancora questo posto? Rivivrò ancora queste sensazioni che ci colgono sempre impreparati quando facciamo ingresso nell'arena del combattimento?
Chi ci sarà ancora la prossima volta e quanti di noi non ci saranno compagni al prossimo scontro?
E io? Sarà forse questo il mio ultimo duello?
Molti spettatori ci conoscono e ci hanno seguito nelle nostre vittoriose imprese al circo Massimo. Ci acclamano e sono ansiosi di vederci mentre ci misuriamo con gruppi di gladiatori ben più forti e preparati di quelli con cui ci siamo confrontati sino a ora.
All'anfiteatro accedono solo le migliori squadre, cui ora facciamo parte anche noi.
Il rischio di una sconfitta e di incontrare la nostra morte è oggi molto più concreto, ma questo è bilanciato dal fatto che forse assisterà ai ludi l'imperatore Traiano.
In questo scenario le possibilità di trovare l'affrancamento dalla nostra schiavitù sono più concrete, per intercessione dello stesso imperatore o di qualche nobile di corte, ma proporzionalmente sono anche più reali le possibilità di sconfitta e di morte.
Dovremo oggi affrontare proprio un gruppo in stanza al Flavio già da tempo, detentore di successi e mai sconfitto.
Attraverso un complesso sistema di sotterranei ci fanno entrare nell'arena.
Molti ci acclamano, il grido si alza forte e lo percepisco chiaro e definito.
“Keiko! Keiko!”
Sono l'unica reziaria, la sola a esporre il mio volto e questo ha portato a identificare il mio gruppo con la mia persona; i miei compagni hanno tutti il volto coperto dall'elmo.
Ma quando l'altro gruppo entra in scena al lato opposto dell'ovale, un boato di urla copre quelle che inneggiavano al mio nome.
Il frastuono è insopportabile e incute timore. Al circo Massimo i suoni sono dispersi in un'ampia area, mentre qui, racchiusi tra alte mura, il suono rimbomba ed è opprimente.
Affronteremo lo scontro in cinque per ogni gruppo. La regola prevede in questo caso scontri uno contro uno di gladiatori delle diverse squadre.
Ci guardiamo tra di noi con l'angoscia nel cuore mentre ci allarghiamo a occupare il nostro lato, di fronte a noi i nostri avversari ci vengono incontro sostenuti dalle urla degli spettatori.
Ne usciremo vivi? Questa volta la battaglia sarà molto più difficile.
Individuo tra i nemici un gladiatore equipaggiato da secutor, la figura progettata per opporsi a quelli del mio ruolo e di riflesso mi dirigo verso di lui per prepararmi al combattimento, ma un mirmillone si interpone; con una spinta sposta l'altro verso uno dei miei compagni e si pone in atteggiamento di battaglia verso di me.
Non riesco a capire questa mossa. Il secutor è fatto per scontrarsi col reziario e inoltre quel combattente mi sembrava il meno possente tra i nemici.
Ma non ho il tempo di ragionare perchè quello di fronte a me già mi incalza con la sua spada, cerca il combattimento stretto e mi assedia.
Mi allontano e quello mi segue, cerca di stringere le distanze per non subire il mio tridente e per impedirmi di usare la rete. Indietreggio incurante delle urla di disappunto del pubblico.
Alzo la rete e la roteo nell'aria e mi tengo lontana, ma l'altro mi pressa. Comincio a tormentarlo col forcone sferrandogli fendenti alle gambe. Quello però salta e non si stanca.
Ma nei suoi salti finisce per distrarsi e la mia rete cala sul suo elmo e vi si impiglia.
Tiro per farlo cadere, ma anche quello tira per trascinarmi sotto la sua spada. Molla lo scudo che gli impedisce i movimenti e cerca con la lama di tagliare la rete.
Senza scudo perde però la sua principale difesa; io giro la rete in basso e la impiglio anche sulla sua armatura. Lui mi dà uno strattone dall'altro capo della corda facendomi perdere l'equilibrio, ma roteo il tridente e lo colpisco alle gambe, mentre col pugio taglio il mio capo della rete.
Finalmente quello cade imbrigliandosi nella matassa, agita il gladio, ma col tridente lo colpisco al ventre. Il pubblico ora mi acclama mentre il mirmillone si contorce a terra.
Sento un boato alla mia destra: il secutor di prima sta finendo con la spada uno dei miei compagni.
Mi rivolgo verso il palco imperiale schiacciando a terra col piede il braccio armato del mio avversario, mentre dalle tribune urlano il mio nome.
E dopo il pollice verso, con la punta della mia arma elimino il casco del nemico.
Bruttissima emozione dover vedere e mostrare il volto di un uomo che sta per morire, ma per fortuna il dolore dura poco, sia il mio che il suo: col pugnale gli taglio la gola ed è uno di meno.
Recupero la mia rete e cerco un nuovo avversario, ma il secutor di prima mi si allontana di fronte. Non so perchè mi tema, ma, raggiunto un suo compagno, uno scissor, si scambiano tra di loro e mi ritrovo un nuovo contendente.
Rispetto al suo compagno questo nemico è per me più pericoloso, più leggero di armamenti e con una lama molto tagliente proprio per affrontare la mia rete.
“Puttana dal muso giallo, scoperò il tuo cadavere!” mi provoca quello, ma non mi lascio impensierire da queste idiozie, non sono il tipo che si lascia turbare da poche stupide parole.
“Taci eunuco e combatti”, gli rispondo io, “il tuo cazzo finirà in tribuna mentre sarai ancora vivo per vederlo.”
La mia rete vola in alto, mentre quello mi si fa contro.
Gli giro la fuscina sulle gambe, ma la sua spada me la blocca. Ritiro l'arma sperando che si sia impigliata, ma ci ritroviamo come prima, uno di fronte all'altra.
Lui fa un balzo in avanti e mi coglie di sorpresa. La rete gli cala addosso, ma quello con un colpo della sua lama la fa a pezzi.
Per me si mette male, ma, imbracciato il tridente a due mani, mi butto su di lui.
Il nemico salta indietro, ma inciampa in un pezzo di rete e cade.
Si rialza di slancio, ma lo colpisco con le tre punte sul torace.
Cade di nuovo ed è in mio potere.
“Keiko! Keiko! Keiko!” Tuona tutto l'anfiteatro e con un nuovo colpo lo trafiggo alla manica armata della spada. Con un braccio mezzo amputato e la profonda ferita al torace, lo scissor deve arrendersi e sperare in una morte veloce.
Gli sono subito addosso, scoperchiandolo del suo elmo. Col pugio gli squarcio la tunica e, facendomi forza, sotto le urla assatanate degli astanti, lo eviro, mostrando alla platea il mio trofeo.
Mi ripugna questo ruolo, ma devo fare colpo sul pubblico, costruire la mia fama per sperare nella pietà di qualche patrizio che mi renda liberta.
“Keiko! Keiko! Keiko!” rimbomba sull'arena e nella mia testa.
Lancio il membro dell'avversario verso le tribune. I romani si allargano alla caduta in mezzo a loro della verga sanguinolenta e vengo sommersa da urla di trionfo.
Dal palco principale viene il verdetto e il mio tridente sfracella il cranio dell'avversario.
Mi guardo in giro, mentre cerco di riprendere un po' il fiato.
Di noi cinque siamo rimasti in tre, di cui uno ferito, ma loro sono solo in due. Possiamo ancora farcela.
Vado ad aiutare il mio compagno in difficoltà sostituendomi a lui contro il secutor che già due volte mi ha evitata.
“Grazie Keiko” mi dice, con la voce rotta dal dolore, mentre l'avversario, vedendoci in due, si allontana per riprendere fiato. Il mio sguardo si alza verso la tribuna d'onore giusto in tempo per vedere un uomo in toga che parla a un pretoriano e intanto mi indica con la mano.
“Chi è quel patrizio?” chiedo al mio compagno, mentre si fa da parte per mettersi in salvo.
“È Traiano, l'imperatore. Cerca di rimanere viva, donna, e di far bella figura.”
Una speranza si rinvigorisce nel mio cuore e mi sento esplodere di energia.
Alla mia destra l'ultimo dei nostri sta combattendo contro un mirmillone. I colpi delle loro armi sugli scudi sono violenti come pugni nello stomaco, frammisti alle loro urla di rabbia e disperazione.
Io senza rete mi trovo priva di una delle mie armi, ma col lungo tridente ho ancora un vantaggio contro il corto gladio del secutor.
Non devo perdere tempo. Sono stanca, ma lui lo è più di me, dovendo sostenere il pesante scudo e anche lui al suo terzo combattimento, e non devo farlo riposare.
Lo incalzo subito ruotando le mie punte per colpirlo al volto.
Lui alza lo scudo, ma la fatica gli rallenta i movimenti.
Il tridente gli si infrange contro, lui si ripara, ma lo colpisco ancora, gli corro ai fianchi e quello va in affanno tra l'armatura e le pesanti protezioni.
Un colpo dietro l'altro lo faccio arretrare mentre sento il mio nome risuonare.
Il forcone colpisce e il pubblico urla il mio nome. Adeguo i miei colpi al ritmo delle urla e questo esalta le folle che esplodono in delirio.
Un boato mi annuncia che l'altro combattimento sta per terminare e ancora non so se mi troverò un nuovo nemico oppure vittoriosa col mio gruppo.
Intensifico i colpi e intanto tengo lontano il nemico che col suo corto gladio non riesce a minacciarmi. Sento che le sue forze stanno cedendo.
Quand'ecco che quello getta lo scudo che gli impedisce di muoversi, mi afferra la punta del tridente e la tira a sé cercando di disarmarmi.
Mi colpisce con un fendente della spada e mi lacera la protezione in cuoio del mio petto, ma gli strappo il tridente dalle mani ferendolo con le punte.
L'attrezzo cade a terra e mi trovo costretta a lanciarmi in un corpo a corpo con l'avversario.
Ci buttiamo a terra nella sabbia, ci rotoliamo con rabbia nella polvere, tutti e due in un rantolo di angoscia per salvare la propria vita e riesco a strappargli il gladio. Col mio pugnale poi gli punto la gola immobilizzandolo.
Lui sa bene, ora, che se solo accenna a un movimento, la mia lama gli lacererà la gola e resta immobile col respiro affannoso.
È sconfitto.
Mi rialzo lentamente tra le ovazioni continuando la minaccia del mio pugio e con un calcio allontano il gladio nemico. Per il secutor ora c'è solo la speranza di una morte veloce.
L'altro scontro è terminato e il mio compagno ha vinto.
Contro le aspettative, il mio gruppo anche se decimato, ha vinto imponendosi contro gli avversari da tempo invitti in questa arena.
L'imperatore e la casta dei patrizi gira il pollice in basso. Io mi alzo e dilato il petto nudo in un respiro di orgoglio.
Orgoglio di donna, orgoglio per la vittoria.
Il mio nome rimbomba, risuona tra le mura, tra gli spalti e oltre le arcate.
Riprendo il tridente e mi avvicino allo sconfitto.
Solo ora vedo quando è gracile. La pelle chiara e glabra spunta sotto le protezioni delle gambe e le sue braccia sono sottili e fragili.
Infilo una punta del tridente in una delle fessure per gli occhi e gli scalzo l'elmo, ed è come se una pugnalata mi trafiggesse in pieno ventre.
Un ragazzo mi guarda con terrore.
Capelli rossi in corte trecce e due azzurri occhi colmi di terrore inquadrano la mia figura, forse l'ultima immagine di un essere della sua stessa razza.
Ora di colpo capisco perchè i suoi compagni volevano difenderlo, anche se poi, in combattimento, ha dimostrato il suo valore, ammazzando uno dei miei compagni.
Ma alla lunga le armi troppo pesanti ne hanno sfiancato la resistenza e questo è stato determinante per la mia vittoria.
“Fai in fretta, Keiko!” Mi implora lui con una voce stridula e piena di terrore.
Mi avvicino, in piedi di fianco al suo corpo prossimo al lungo viaggio nel regno dei morti.
“Come sai il mio nome?”
“Fai presto, ti dico. Poni fine alla mia schiavitù.” Continua quello.
Ma quel tono di voce, quel timbro...
Un'angoscia mi prende dentro al petto e sale al mio volto. Vorrei urlare e piangere, strapparmi i capelli o trafiggermi al ventre col mio stesso pugio.
Riguardo il suo volto imberbe, la forma delle labbra, il piccolo naso, i tratti gentili e le lunghe ciglia e un dubbio tremendo mi tormenta.
Scandaglio il suo corpo col forcone, infilo le punte nei fermagli della sua armatura e con un gesto brusco ne taglio i legacci.
Sotto una corta tunica un petto rigonfio si solleva in respiri di angoscia e di terrore.
Mi inginocchio sull'avversario e col pugnale ne lacero le vesti ed ecco, ho la terribile conferma.
Il seno di una donna mi si offre sotto gli occhi.
Esclamazioni di stupore si levano dalla folla, immersa in un silenzio diventato sepolcrale.
Il petto pieno e sodo di una giovane, i capezzoli rosa chiaro e la pelle pallida e senza peli, mi si impongono confondendomi e obnubilando i miei pensieri.
“Tu sei una donna!” ringhio alla mia nemica, incapace di accettare questo epilogo.
“Uccidimi, Keiko e fai veloce. Il verdetto è stato emesso. Abbi pietà e fai veloce!”
Mi alzo in piedi a interrogare con lo sguardo l'intero anfiteatro. Passo in rassegna i volti attoniti di dame, patrizi e senatori, mentre, prima lento e sommesso e poi sempre più forte e più distinto, prende energia e risuona il mio nome scandito col suono secco dei passi ritmati di un esercito in marcia.
“Keiko... Keiko... Keiko! Keiko! KEIKO! KEIKO!”
La platea mi incalza e corpi intunicati si trasformano in centinaia di pollici diretti verso il basso.
Sotto di me, nella sabbia sporca, la ragazza scoppia a piangere, impaurita dalle urla, terrorizzata per la morte imminente.
Vedo il suo seno sussultare tra i singhiozzi, le lacrime scintillano, trafitte da impietosi raggi di sole.
Io resto paralizzata, incapace di ogni agire.
La mente confusa mi suggerisce di scappare, urlare e contorcermi di fronte a tanto strazio.
Due donne nella rena dell'anfiteatro Flavio.
Un essere uguale a me, un petto come il mio e una natura simile tra le gambe ricoperte di sangue e di protezioni belliche.
E penso che mille e mille volte preferirei uccidermi davanti a questa platea urlante, piuttosto che privare della vita una donna come me, macchiandomi di un delitto che mi perseguiterebbe per tutta la mia esistenza privandomi della voglia di vivere.
Ma il pubblico incalza e so già che se non uccidessi io questa ragazza, entrerebbero i pretoriani finendo me e lei con un colpo di spada, vanificando le mie remore e i miei rigori etici.
I cori si intensificano eppure non riesco a decidermi, finché pianto il tridente, impugno il pugio e mi chino sulla mia vittima.
“Come ti chiami, ragazza?”
“Siret” risponde lei con un bisbiglio scossa tra i singulti del pianto e quegli occhi cerulei mi trapassano come due saette.
Mi alzo in piedi a fianco del suo corpo e sfido la platea con uno sguardo.
Sto giocando con la morte, la mia e quella di questa ragazza. In questo momento le nostre vite valgono meno di uno sputo nella sabbia.
Il popolo dei romani lentamente spegne le sue acclamazioni e gli astanti restano a guardare se oserò sfidare il volere imperiale.
E allora con lentezza mi sfilo i legacci in cuoio che restano della mia pettorina.
Raddrizzo la schiena e col mio seno provoco la folla sugli spalti.
La pelle nuda e sudata, le tracce di sangue lungo i seni, la sabbia che mi imbratta e il mio respiro che mi solleva le curve piano piano si impongono all'attenzione dei presenti.
Sciolgo la stringa di cuoio che mi lega i capelli e scuoto il capo per liberare il crine nero e lasciarlo riposare sulle spalle e lungo il petto.
Con movimenti posati mi sciolgo il perizoma esponendo il mio sesso e i peli neri del mio pube ai patrizi, alle donne, ai senatori, a quante e quanti mi hanno già vista e posseduta, a coloro che mi hanno desiderata senza ancora avermi, al Cesare, all'Augusto, ai pretoriani che ne difendono l'incolumità.
La platea tutta si arresta in un silenzio irreale.
Riprendo tra le mani il tridente, lo punto al ventre della ragazza dai capelli del fuoco mentre la tensione permea tutto l'ovale racchiuso tra le mura.
Infilo una delle punte sotto la tunica già aperta sul pallido petto e con un gesto deciso la lacero completamente fino alla sua fine.
Mi chino ora tra le gambe della giovane e col pugnale strappo il perizoma.
Un delta di peli di colore dell'arancio e un vuoto dove le cosce si uniscono sotto l'inguine mi conferma una volta ancora la natura di donna della persona che giace di fronte a me.
“Sei impazzita, Keiko? Cosa vuoi fare?”
“Taci, Siret, non fare nulla!”
Pongo le mie mani sulle sue ginocchia, gliele sollevo allargandole e spostandole verso le sue spalle.
Le pieghe rosa chiaro del suo sesso si espongono all'aria fresca dell'arena e si aprono assecondando il movimento mentre la trattenengo per le cosce.
Mi chino sulla mia vittima e comincio a leccarla dove la pelle degli inguini lascia spazio alla fessura morbida e bagnata e alla scura entrata.
Sapore di donna che conosco, sapore di intimità che ho già provato nei letti delle mogli dei patrizi e che pure ora mi ammalia e mi attira.
Dolce sentore di fica eccitata, umore di giovane fertile, l'organo femminile ora mi seduce e mi confonde. E affondo la mia lingua in quegli anfratti, assaporo il nettare che ne fugge, mi inebrio di desiderio e di piacere, attirata per la prima volta dal corpo di una donna, dalle sue più nascoste e intime peculiarità.
Il dolce sapore plasma la mia passione e il suono di gemiti di piacere che sempre più forti percepisco mi rende ebbra di voglie e orchestra i miei assalti sessuali.
Affondo la mia lingua nel più profondo dei pertugi, ne esco filante del piacere della ragazza dal pelo rosso per poi sfiorarne il piccolo cuore pulsante che mi aspetta a guardia del vestibolo.
Sfioro il timido clitoride che vestito di rosa più intenso emerge a guardia delle profonde sfumature e mi sento sciogliere più in basso, nella mia natura al gemito soave e travolgente del piacere della giovane gladiatrice.
Il suono sommesso della platea riprende a cadenzare gli affondi della mia lingua tra le cosce della ragazza.
“Keiko, Keiko, Keiko!”
Infilo due dita dentro il ventre della schiava e con la lingua le tormento il bocciolo.
Lei si scuote, muove il ventre incontro alle mie dita, anticipa la mia mano e la mia lingua, mi si offre e spinge il suo ventre sul mio volto.
Le afferro una mammella e la strizzo tra le dita mentre la conduco al sommo del piacere.
Mi schizza un getto caldo sulla faccia per poi stringermi il capo tra le cosce e ancora scuotersi e spingere contro il mio volto imprigionato nella sua stretta.
E solo quando sento allentarsi la morsa, sollevo il capo lucido dei suoi secreti, il muso bagnato della mia saliva e del suo godimento, di fronte alla platea in adorante attesa.
Mi alzo in piedi e mi sposto ora verso il capo di Siret.
Mi inginocchio appoggiando la mia fica sul suo volto e con le mani mi allargo i petali offrendole le mie intimità scure e bagnate.
“Leccamela, Siret, fammi godere che stasera sarai con noi al ludus Dacicus! Sussurro alla mia vittima.”
Quella mi afferra con le mani sulla mia vita, mi pianta le unghie nella pelle e comincia a leccarmi come una leonessa fa con i suoi cuccioli.
Io ondeggio il mio intimo sulla sua bocca, la sento scegliere i miei punti più sensibili, penetrarmi nella fica e leccarmi sul clitoride.
Il mio liquido le cola sulla bocca, ne bagna la lingua mescolandosi con la sua saliva e nuove spinte e nuove carezze mi penetrano e mi impastano facendo crescere il godimento e spalancandomi le labbra.
Presto godo come una giovenca, gemo e mi contorco e il pubblico mi ammira e mi desidera.
I patrizi si toccano, alcune matrone fanno scomparire le mani sotto le loro tuniche e io mi prendo il mio piacere e la mia ricompensa.
Mi prendo in mano le tette e spingo il ventre contro la lingua che mi entra profonda dentro il corpo.
Siret mi tiene per i fianchi e mi sposta avanti e indietro sulla sua bocca, assecondando i movimenti del mio corpo.
Danzo nuda sulla bocca di una ragazza nuda che cerca il mio godimento, si insinua e si spinge dentro di me facendomi urlare dal piacere.
E anch'io esplodo nell'orgasmo, sotto gli occhi e la brama dei romani, con le mie urla, i miei capelli agitati dalle scosse del mio corpo, le mani che mi tormentano i seni e gli occhi chiusi nel mio più profondo piacere.
Poi mi rialzo, al termine dell'amplesso erotico.
Mi infilo le dita nella fica, le ritraggo viscide di muco e le apro mostrando il filante nettare agli occhi avidi dei patrizi.
Il mio nome è acclamato e scandito con un ritmo crescente.
Mi volgo verso Traiano che mi ricambia lo sguardo con un piccolo cenno di assenso della testa.
Poi mi piego sulla ragazza dai capelli arancioni e le corte trecce, la sollevo di peso e me la porto al petto, adagiandola col suo ventre sulla mia spalla; con un braccio le avvolgo le gambe tenendoma stretta.
Con il mio trofeo mi volgo a passare in rassegna tutto l'anfiteatro, in un lento movimento in cerchio. Il sedere della giovane sotto gli occhi di tutto il mondo romano, il mio corpo nudo sotto gli sguardi più penetranti.
“Da dove vieni, Siret?” Pronuncio verso la mia preda, serrandole la mano sotto le ginocchia per tenermela stretta al collo, sempre appoggiata sulla spalla.
“Dalla Dacia, mia salvatrice.”
Mi piego a raccogliere il pugio e il tridente, raggiungo i miei due compagni superstiti e usciamo dall'arena tra le urla della folla.
L'odore della rena nel campo da combattimento è sempre uguale.
Ho lottato in molte parti dell'impero, ma quella sensazione di morte imminente al momento di entrare sulla scena non mi ha mai abbandonata, ormai indissolubilmente associata a questo olezzo di sangue fresco e sangue putrefatto, di piscio e sudore e sentore di bestie selvatiche se prima di noi si è svolta una pugna con animali feroci.
Dopo tanti successi e onori al circo Massimo, siamo dunque giunti all'anfiteatro Flavio.
La struttura, anche se più contenuta del circo, è imponente e dall'interno sembra ancora più grande.
Mai come ora, più di ogni altra volta, mi assale un pensiero non nuovo. Rivedrò ancora questo posto? Rivivrò ancora queste sensazioni che ci colgono sempre impreparati quando facciamo ingresso nell'arena del combattimento?
Chi ci sarà ancora la prossima volta e quanti di noi non ci saranno compagni al prossimo scontro?
E io? Sarà forse questo il mio ultimo duello?
Molti spettatori ci conoscono e ci hanno seguito nelle nostre vittoriose imprese al circo Massimo. Ci acclamano e sono ansiosi di vederci mentre ci misuriamo con gruppi di gladiatori ben più forti e preparati di quelli con cui ci siamo confrontati sino a ora.
All'anfiteatro accedono solo le migliori squadre, cui ora facciamo parte anche noi.
Il rischio di una sconfitta e di incontrare la nostra morte è oggi molto più concreto, ma questo è bilanciato dal fatto che forse assisterà ai ludi l'imperatore Traiano.
In questo scenario le possibilità di trovare l'affrancamento dalla nostra schiavitù sono più concrete, per intercessione dello stesso imperatore o di qualche nobile di corte, ma proporzionalmente sono anche più reali le possibilità di sconfitta e di morte.
Dovremo oggi affrontare proprio un gruppo in stanza al Flavio già da tempo, detentore di successi e mai sconfitto.
Attraverso un complesso sistema di sotterranei ci fanno entrare nell'arena.
Molti ci acclamano, il grido si alza forte e lo percepisco chiaro e definito.
“Keiko! Keiko!”
Sono l'unica reziaria, la sola a esporre il mio volto e questo ha portato a identificare il mio gruppo con la mia persona; i miei compagni hanno tutti il volto coperto dall'elmo.
Ma quando l'altro gruppo entra in scena al lato opposto dell'ovale, un boato di urla copre quelle che inneggiavano al mio nome.
Il frastuono è insopportabile e incute timore. Al circo Massimo i suoni sono dispersi in un'ampia area, mentre qui, racchiusi tra alte mura, il suono rimbomba ed è opprimente.
Affronteremo lo scontro in cinque per ogni gruppo. La regola prevede in questo caso scontri uno contro uno di gladiatori delle diverse squadre.
Ci guardiamo tra di noi con l'angoscia nel cuore mentre ci allarghiamo a occupare il nostro lato, di fronte a noi i nostri avversari ci vengono incontro sostenuti dalle urla degli spettatori.
Ne usciremo vivi? Questa volta la battaglia sarà molto più difficile.
Individuo tra i nemici un gladiatore equipaggiato da secutor, la figura progettata per opporsi a quelli del mio ruolo e di riflesso mi dirigo verso di lui per prepararmi al combattimento, ma un mirmillone si interpone; con una spinta sposta l'altro verso uno dei miei compagni e si pone in atteggiamento di battaglia verso di me.
Non riesco a capire questa mossa. Il secutor è fatto per scontrarsi col reziario e inoltre quel combattente mi sembrava il meno possente tra i nemici.
Ma non ho il tempo di ragionare perchè quello di fronte a me già mi incalza con la sua spada, cerca il combattimento stretto e mi assedia.
Mi allontano e quello mi segue, cerca di stringere le distanze per non subire il mio tridente e per impedirmi di usare la rete. Indietreggio incurante delle urla di disappunto del pubblico.
Alzo la rete e la roteo nell'aria e mi tengo lontana, ma l'altro mi pressa. Comincio a tormentarlo col forcone sferrandogli fendenti alle gambe. Quello però salta e non si stanca.
Ma nei suoi salti finisce per distrarsi e la mia rete cala sul suo elmo e vi si impiglia.
Tiro per farlo cadere, ma anche quello tira per trascinarmi sotto la sua spada. Molla lo scudo che gli impedisce i movimenti e cerca con la lama di tagliare la rete.
Senza scudo perde però la sua principale difesa; io giro la rete in basso e la impiglio anche sulla sua armatura. Lui mi dà uno strattone dall'altro capo della corda facendomi perdere l'equilibrio, ma roteo il tridente e lo colpisco alle gambe, mentre col pugio taglio il mio capo della rete.
Finalmente quello cade imbrigliandosi nella matassa, agita il gladio, ma col tridente lo colpisco al ventre. Il pubblico ora mi acclama mentre il mirmillone si contorce a terra.
Sento un boato alla mia destra: il secutor di prima sta finendo con la spada uno dei miei compagni.
Mi rivolgo verso il palco imperiale schiacciando a terra col piede il braccio armato del mio avversario, mentre dalle tribune urlano il mio nome.
E dopo il pollice verso, con la punta della mia arma elimino il casco del nemico.
Bruttissima emozione dover vedere e mostrare il volto di un uomo che sta per morire, ma per fortuna il dolore dura poco, sia il mio che il suo: col pugnale gli taglio la gola ed è uno di meno.
Recupero la mia rete e cerco un nuovo avversario, ma il secutor di prima mi si allontana di fronte. Non so perchè mi tema, ma, raggiunto un suo compagno, uno scissor, si scambiano tra di loro e mi ritrovo un nuovo contendente.
Rispetto al suo compagno questo nemico è per me più pericoloso, più leggero di armamenti e con una lama molto tagliente proprio per affrontare la mia rete.
“Puttana dal muso giallo, scoperò il tuo cadavere!” mi provoca quello, ma non mi lascio impensierire da queste idiozie, non sono il tipo che si lascia turbare da poche stupide parole.
“Taci eunuco e combatti”, gli rispondo io, “il tuo cazzo finirà in tribuna mentre sarai ancora vivo per vederlo.”
La mia rete vola in alto, mentre quello mi si fa contro.
Gli giro la fuscina sulle gambe, ma la sua spada me la blocca. Ritiro l'arma sperando che si sia impigliata, ma ci ritroviamo come prima, uno di fronte all'altra.
Lui fa un balzo in avanti e mi coglie di sorpresa. La rete gli cala addosso, ma quello con un colpo della sua lama la fa a pezzi.
Per me si mette male, ma, imbracciato il tridente a due mani, mi butto su di lui.
Il nemico salta indietro, ma inciampa in un pezzo di rete e cade.
Si rialza di slancio, ma lo colpisco con le tre punte sul torace.
Cade di nuovo ed è in mio potere.
“Keiko! Keiko! Keiko!” Tuona tutto l'anfiteatro e con un nuovo colpo lo trafiggo alla manica armata della spada. Con un braccio mezzo amputato e la profonda ferita al torace, lo scissor deve arrendersi e sperare in una morte veloce.
Gli sono subito addosso, scoperchiandolo del suo elmo. Col pugio gli squarcio la tunica e, facendomi forza, sotto le urla assatanate degli astanti, lo eviro, mostrando alla platea il mio trofeo.
Mi ripugna questo ruolo, ma devo fare colpo sul pubblico, costruire la mia fama per sperare nella pietà di qualche patrizio che mi renda liberta.
“Keiko! Keiko! Keiko!” rimbomba sull'arena e nella mia testa.
Lancio il membro dell'avversario verso le tribune. I romani si allargano alla caduta in mezzo a loro della verga sanguinolenta e vengo sommersa da urla di trionfo.
Dal palco principale viene il verdetto e il mio tridente sfracella il cranio dell'avversario.
Mi guardo in giro, mentre cerco di riprendere un po' il fiato.
Di noi cinque siamo rimasti in tre, di cui uno ferito, ma loro sono solo in due. Possiamo ancora farcela.
Vado ad aiutare il mio compagno in difficoltà sostituendomi a lui contro il secutor che già due volte mi ha evitata.
“Grazie Keiko” mi dice, con la voce rotta dal dolore, mentre l'avversario, vedendoci in due, si allontana per riprendere fiato. Il mio sguardo si alza verso la tribuna d'onore giusto in tempo per vedere un uomo in toga che parla a un pretoriano e intanto mi indica con la mano.
“Chi è quel patrizio?” chiedo al mio compagno, mentre si fa da parte per mettersi in salvo.
“È Traiano, l'imperatore. Cerca di rimanere viva, donna, e di far bella figura.”
Una speranza si rinvigorisce nel mio cuore e mi sento esplodere di energia.
Alla mia destra l'ultimo dei nostri sta combattendo contro un mirmillone. I colpi delle loro armi sugli scudi sono violenti come pugni nello stomaco, frammisti alle loro urla di rabbia e disperazione.
Io senza rete mi trovo priva di una delle mie armi, ma col lungo tridente ho ancora un vantaggio contro il corto gladio del secutor.
Non devo perdere tempo. Sono stanca, ma lui lo è più di me, dovendo sostenere il pesante scudo e anche lui al suo terzo combattimento, e non devo farlo riposare.
Lo incalzo subito ruotando le mie punte per colpirlo al volto.
Lui alza lo scudo, ma la fatica gli rallenta i movimenti.
Il tridente gli si infrange contro, lui si ripara, ma lo colpisco ancora, gli corro ai fianchi e quello va in affanno tra l'armatura e le pesanti protezioni.
Un colpo dietro l'altro lo faccio arretrare mentre sento il mio nome risuonare.
Il forcone colpisce e il pubblico urla il mio nome. Adeguo i miei colpi al ritmo delle urla e questo esalta le folle che esplodono in delirio.
Un boato mi annuncia che l'altro combattimento sta per terminare e ancora non so se mi troverò un nuovo nemico oppure vittoriosa col mio gruppo.
Intensifico i colpi e intanto tengo lontano il nemico che col suo corto gladio non riesce a minacciarmi. Sento che le sue forze stanno cedendo.
Quand'ecco che quello getta lo scudo che gli impedisce di muoversi, mi afferra la punta del tridente e la tira a sé cercando di disarmarmi.
Mi colpisce con un fendente della spada e mi lacera la protezione in cuoio del mio petto, ma gli strappo il tridente dalle mani ferendolo con le punte.
L'attrezzo cade a terra e mi trovo costretta a lanciarmi in un corpo a corpo con l'avversario.
Ci buttiamo a terra nella sabbia, ci rotoliamo con rabbia nella polvere, tutti e due in un rantolo di angoscia per salvare la propria vita e riesco a strappargli il gladio. Col mio pugnale poi gli punto la gola immobilizzandolo.
Lui sa bene, ora, che se solo accenna a un movimento, la mia lama gli lacererà la gola e resta immobile col respiro affannoso.
È sconfitto.
Mi rialzo lentamente tra le ovazioni continuando la minaccia del mio pugio e con un calcio allontano il gladio nemico. Per il secutor ora c'è solo la speranza di una morte veloce.
L'altro scontro è terminato e il mio compagno ha vinto.
Contro le aspettative, il mio gruppo anche se decimato, ha vinto imponendosi contro gli avversari da tempo invitti in questa arena.
L'imperatore e la casta dei patrizi gira il pollice in basso. Io mi alzo e dilato il petto nudo in un respiro di orgoglio.
Orgoglio di donna, orgoglio per la vittoria.
Il mio nome rimbomba, risuona tra le mura, tra gli spalti e oltre le arcate.
Riprendo il tridente e mi avvicino allo sconfitto.
Solo ora vedo quando è gracile. La pelle chiara e glabra spunta sotto le protezioni delle gambe e le sue braccia sono sottili e fragili.
Infilo una punta del tridente in una delle fessure per gli occhi e gli scalzo l'elmo, ed è come se una pugnalata mi trafiggesse in pieno ventre.
Un ragazzo mi guarda con terrore.
Capelli rossi in corte trecce e due azzurri occhi colmi di terrore inquadrano la mia figura, forse l'ultima immagine di un essere della sua stessa razza.
Ora di colpo capisco perchè i suoi compagni volevano difenderlo, anche se poi, in combattimento, ha dimostrato il suo valore, ammazzando uno dei miei compagni.
Ma alla lunga le armi troppo pesanti ne hanno sfiancato la resistenza e questo è stato determinante per la mia vittoria.
“Fai in fretta, Keiko!” Mi implora lui con una voce stridula e piena di terrore.
Mi avvicino, in piedi di fianco al suo corpo prossimo al lungo viaggio nel regno dei morti.
“Come sai il mio nome?”
“Fai presto, ti dico. Poni fine alla mia schiavitù.” Continua quello.
Ma quel tono di voce, quel timbro...
Un'angoscia mi prende dentro al petto e sale al mio volto. Vorrei urlare e piangere, strapparmi i capelli o trafiggermi al ventre col mio stesso pugio.
Riguardo il suo volto imberbe, la forma delle labbra, il piccolo naso, i tratti gentili e le lunghe ciglia e un dubbio tremendo mi tormenta.
Scandaglio il suo corpo col forcone, infilo le punte nei fermagli della sua armatura e con un gesto brusco ne taglio i legacci.
Sotto una corta tunica un petto rigonfio si solleva in respiri di angoscia e di terrore.
Mi inginocchio sull'avversario e col pugnale ne lacero le vesti ed ecco, ho la terribile conferma.
Il seno di una donna mi si offre sotto gli occhi.
Esclamazioni di stupore si levano dalla folla, immersa in un silenzio diventato sepolcrale.
Il petto pieno e sodo di una giovane, i capezzoli rosa chiaro e la pelle pallida e senza peli, mi si impongono confondendomi e obnubilando i miei pensieri.
“Tu sei una donna!” ringhio alla mia nemica, incapace di accettare questo epilogo.
“Uccidimi, Keiko e fai veloce. Il verdetto è stato emesso. Abbi pietà e fai veloce!”
Mi alzo in piedi a interrogare con lo sguardo l'intero anfiteatro. Passo in rassegna i volti attoniti di dame, patrizi e senatori, mentre, prima lento e sommesso e poi sempre più forte e più distinto, prende energia e risuona il mio nome scandito col suono secco dei passi ritmati di un esercito in marcia.
“Keiko... Keiko... Keiko! Keiko! KEIKO! KEIKO!”
La platea mi incalza e corpi intunicati si trasformano in centinaia di pollici diretti verso il basso.
Sotto di me, nella sabbia sporca, la ragazza scoppia a piangere, impaurita dalle urla, terrorizzata per la morte imminente.
Vedo il suo seno sussultare tra i singhiozzi, le lacrime scintillano, trafitte da impietosi raggi di sole.
Io resto paralizzata, incapace di ogni agire.
La mente confusa mi suggerisce di scappare, urlare e contorcermi di fronte a tanto strazio.
Due donne nella rena dell'anfiteatro Flavio.
Un essere uguale a me, un petto come il mio e una natura simile tra le gambe ricoperte di sangue e di protezioni belliche.
E penso che mille e mille volte preferirei uccidermi davanti a questa platea urlante, piuttosto che privare della vita una donna come me, macchiandomi di un delitto che mi perseguiterebbe per tutta la mia esistenza privandomi della voglia di vivere.
Ma il pubblico incalza e so già che se non uccidessi io questa ragazza, entrerebbero i pretoriani finendo me e lei con un colpo di spada, vanificando le mie remore e i miei rigori etici.
I cori si intensificano eppure non riesco a decidermi, finché pianto il tridente, impugno il pugio e mi chino sulla mia vittima.
“Come ti chiami, ragazza?”
“Siret” risponde lei con un bisbiglio scossa tra i singulti del pianto e quegli occhi cerulei mi trapassano come due saette.
Mi alzo in piedi a fianco del suo corpo e sfido la platea con uno sguardo.
Sto giocando con la morte, la mia e quella di questa ragazza. In questo momento le nostre vite valgono meno di uno sputo nella sabbia.
Il popolo dei romani lentamente spegne le sue acclamazioni e gli astanti restano a guardare se oserò sfidare il volere imperiale.
E allora con lentezza mi sfilo i legacci in cuoio che restano della mia pettorina.
Raddrizzo la schiena e col mio seno provoco la folla sugli spalti.
La pelle nuda e sudata, le tracce di sangue lungo i seni, la sabbia che mi imbratta e il mio respiro che mi solleva le curve piano piano si impongono all'attenzione dei presenti.
Sciolgo la stringa di cuoio che mi lega i capelli e scuoto il capo per liberare il crine nero e lasciarlo riposare sulle spalle e lungo il petto.
Con movimenti posati mi sciolgo il perizoma esponendo il mio sesso e i peli neri del mio pube ai patrizi, alle donne, ai senatori, a quante e quanti mi hanno già vista e posseduta, a coloro che mi hanno desiderata senza ancora avermi, al Cesare, all'Augusto, ai pretoriani che ne difendono l'incolumità.
La platea tutta si arresta in un silenzio irreale.
Riprendo tra le mani il tridente, lo punto al ventre della ragazza dai capelli del fuoco mentre la tensione permea tutto l'ovale racchiuso tra le mura.
Infilo una delle punte sotto la tunica già aperta sul pallido petto e con un gesto deciso la lacero completamente fino alla sua fine.
Mi chino ora tra le gambe della giovane e col pugnale strappo il perizoma.
Un delta di peli di colore dell'arancio e un vuoto dove le cosce si uniscono sotto l'inguine mi conferma una volta ancora la natura di donna della persona che giace di fronte a me.
“Sei impazzita, Keiko? Cosa vuoi fare?”
“Taci, Siret, non fare nulla!”
Pongo le mie mani sulle sue ginocchia, gliele sollevo allargandole e spostandole verso le sue spalle.
Le pieghe rosa chiaro del suo sesso si espongono all'aria fresca dell'arena e si aprono assecondando il movimento mentre la trattenengo per le cosce.
Mi chino sulla mia vittima e comincio a leccarla dove la pelle degli inguini lascia spazio alla fessura morbida e bagnata e alla scura entrata.
Sapore di donna che conosco, sapore di intimità che ho già provato nei letti delle mogli dei patrizi e che pure ora mi ammalia e mi attira.
Dolce sentore di fica eccitata, umore di giovane fertile, l'organo femminile ora mi seduce e mi confonde. E affondo la mia lingua in quegli anfratti, assaporo il nettare che ne fugge, mi inebrio di desiderio e di piacere, attirata per la prima volta dal corpo di una donna, dalle sue più nascoste e intime peculiarità.
Il dolce sapore plasma la mia passione e il suono di gemiti di piacere che sempre più forti percepisco mi rende ebbra di voglie e orchestra i miei assalti sessuali.
Affondo la mia lingua nel più profondo dei pertugi, ne esco filante del piacere della ragazza dal pelo rosso per poi sfiorarne il piccolo cuore pulsante che mi aspetta a guardia del vestibolo.
Sfioro il timido clitoride che vestito di rosa più intenso emerge a guardia delle profonde sfumature e mi sento sciogliere più in basso, nella mia natura al gemito soave e travolgente del piacere della giovane gladiatrice.
Il suono sommesso della platea riprende a cadenzare gli affondi della mia lingua tra le cosce della ragazza.
“Keiko, Keiko, Keiko!”
Infilo due dita dentro il ventre della schiava e con la lingua le tormento il bocciolo.
Lei si scuote, muove il ventre incontro alle mie dita, anticipa la mia mano e la mia lingua, mi si offre e spinge il suo ventre sul mio volto.
Le afferro una mammella e la strizzo tra le dita mentre la conduco al sommo del piacere.
Mi schizza un getto caldo sulla faccia per poi stringermi il capo tra le cosce e ancora scuotersi e spingere contro il mio volto imprigionato nella sua stretta.
E solo quando sento allentarsi la morsa, sollevo il capo lucido dei suoi secreti, il muso bagnato della mia saliva e del suo godimento, di fronte alla platea in adorante attesa.
Mi alzo in piedi e mi sposto ora verso il capo di Siret.
Mi inginocchio appoggiando la mia fica sul suo volto e con le mani mi allargo i petali offrendole le mie intimità scure e bagnate.
“Leccamela, Siret, fammi godere che stasera sarai con noi al ludus Dacicus! Sussurro alla mia vittima.”
Quella mi afferra con le mani sulla mia vita, mi pianta le unghie nella pelle e comincia a leccarmi come una leonessa fa con i suoi cuccioli.
Io ondeggio il mio intimo sulla sua bocca, la sento scegliere i miei punti più sensibili, penetrarmi nella fica e leccarmi sul clitoride.
Il mio liquido le cola sulla bocca, ne bagna la lingua mescolandosi con la sua saliva e nuove spinte e nuove carezze mi penetrano e mi impastano facendo crescere il godimento e spalancandomi le labbra.
Presto godo come una giovenca, gemo e mi contorco e il pubblico mi ammira e mi desidera.
I patrizi si toccano, alcune matrone fanno scomparire le mani sotto le loro tuniche e io mi prendo il mio piacere e la mia ricompensa.
Mi prendo in mano le tette e spingo il ventre contro la lingua che mi entra profonda dentro il corpo.
Siret mi tiene per i fianchi e mi sposta avanti e indietro sulla sua bocca, assecondando i movimenti del mio corpo.
Danzo nuda sulla bocca di una ragazza nuda che cerca il mio godimento, si insinua e si spinge dentro di me facendomi urlare dal piacere.
E anch'io esplodo nell'orgasmo, sotto gli occhi e la brama dei romani, con le mie urla, i miei capelli agitati dalle scosse del mio corpo, le mani che mi tormentano i seni e gli occhi chiusi nel mio più profondo piacere.
Poi mi rialzo, al termine dell'amplesso erotico.
Mi infilo le dita nella fica, le ritraggo viscide di muco e le apro mostrando il filante nettare agli occhi avidi dei patrizi.
Il mio nome è acclamato e scandito con un ritmo crescente.
Mi volgo verso Traiano che mi ricambia lo sguardo con un piccolo cenno di assenso della testa.
Poi mi piego sulla ragazza dai capelli arancioni e le corte trecce, la sollevo di peso e me la porto al petto, adagiandola col suo ventre sulla mia spalla; con un braccio le avvolgo le gambe tenendoma stretta.
Con il mio trofeo mi volgo a passare in rassegna tutto l'anfiteatro, in un lento movimento in cerchio. Il sedere della giovane sotto gli occhi di tutto il mondo romano, il mio corpo nudo sotto gli sguardi più penetranti.
“Da dove vieni, Siret?” Pronuncio verso la mia preda, serrandole la mano sotto le ginocchia per tenermela stretta al collo, sempre appoggiata sulla spalla.
“Dalla Dacia, mia salvatrice.”
Mi piego a raccogliere il pugio e il tridente, raggiungo i miei due compagni superstiti e usciamo dall'arena tra le urla della folla.
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