La gladiatrice. 5. Un leone contro due pantere

di
genere
dominazione

Ritorniamo a Roma su un umile carro trainato da buoi, ma il viaggio è piacevole e non abbiamo fretta. Al ludus Dacicus ci è concessa mezza giornata di riposo, prima di riprendere gli allenamenti al circo Massimo e quando entriamo nei bui corridoi verso la nostra cella emerge tutta la stanchezza della notte passata a far sesso per soddisfare i patrizi della villa di Domiziano.
“Voi due, vacche da monta!”
L'odiosa voce di Marcius ci colpisce come uno schiaffo a mano bagnata.
Mi volto appena e lo scorgo, esuberante della sua mascolinità e del potere che gli è concesso su di noi, schiave gladiatrici.
“Visto che siete diventate apprezzati strumenti da sesso, stanotte mi vorrei concedere un po' di sollazzo coi vostri corpi di giovani puttane!”
Il maiale ci tiene a insultarci e umiliarci, ma in realtà è il solo sopruso che gli sarebbe concesso dal suo ruolo.
“Non stancarci, Marcius. Lo sai bene che i patrizi non vogliono che tu abusi della loro merce.”
“Me ne frego dei patrizi e qui dentro faccio tutto quello che voglio. Non sai che ho diritto di vita e di morte su di voi?”
“Non è vero ciò che dici, non insistere. Voi sentirtelo dire da Quinto? O da qualche senatore?”
“Non contraddirmi, muso giallo, razza di scrofa. Ho voglia di carne per stanotte: la tua carne, per il mio godimento!” Insiste quello e mi viene incontro.
“Lascia perdere, Marcius, te l'ho già detto. E in più mi è venuto il ciclo mensile e al massimo dovresti accontentarti di una bistecca al sangue.”
Allontano Siret verso la nostra cella. Non so mai come può finire con Marcius e si potrebbe venire alle mani. Ma benchè più grosso, l'uomo è goffo e rozzo e io, allenata ai combattimenti, posso atterrarlo facilmente, anche se questo poi innescherebbe una serie di reazioni imprevedibili nelle buie dimore del Dacicus, prive di controlli esterni che non debbano sottostare a Marcius.
Ma quello scoppia in una sgangherata risata e si allontana. Fortunatamente l'ha presa sul ridere e così noi due possiamo ritirarci a riposare.
“Amabile come una pigna nel culo...” mi lascio scappare detto e questo provoca una allegra risata che Siret soffoca con la sua mano.
É bellissima quando ride, la donna dai capelli rossi; le sue trecce vengono scosse dai sussulti e i suoi occhi brillano di una luce radiosa. D'altra parte mi accorgo con lei che il mio linguaggio, a furia di vivere da sola in mezzo a uomini, è diventato rozzo e volgare. È tempo per me di recuperare un po' di dolcezza e femminilità, almeno nei suoi riguardi, anche se mi rendo conto che una inopportuna debolezza potrebbe aumentare enormemente il rischio per me di diventare più vulnerabile e non riuscire a proteggerla in questo ambiente e nei futuri combattimenti.
Nel pomeriggio siamo di nuovo al circo ad allenarci e lo stesso programma verrà rispettato per i giorni successivi. Dopo il combattimento e la notte di sesso al lago Albano, Quinto, il nostro allenatore, ci concede questo riposo premio, ma sappiamo che entro poco saremo di nuovo impegnate con il nostro gruppo in un nuovo spettacolo all'anfiteatro Flavio.
Il mio timore per Siret aumenta, e il mio umore si incupisce.
Marcius è diventato insopportabile da quando la gladiatrice venuta dalla Dacia è entrata nella nostra squadra.
Finchè ero io sola al Dacicus, riuscivo a controllarlo, ma si vede che la presenza di due donne nel ludus l'ha ulteriormente destabilizzato e il mio timore di un tentativo di violenza sessuale da parte sua diventa realtà poche sere dopo.
Torniamo stanche dopo un allenamento intensivo e, consegnate le nostre armature all'ingresso della dimora, non facciamo caso a Marcius che ci sta seguendo nei corridoi bui.
In un attimo l'uomo si avventa su Siret, rimasta indietro. La blocca tirandole le trecce e la sbatte contro il muro. Un urlo di spavento e di dolore mi avverte dell'attacco, e quando mi giro, il capo della guarnigione le ha già infilato una mano sotto la tunica piantandogliela in mezzo alle gambe.
“Lasciala stare, Marcius! Non ne hai il diritto!” Lo minaccio, ma quello se la ride. Con una mano si infila nella fica di Siret e con l'altra le straccia la veste, lasciandola con un seno nudo.
Mi avvicino alzando il pugno, ma quello mi ferma allungandomi una mano verso io collo.
“Vieni qui anche tu, razza di troia dagli occhi tirati; voglio scopare due donne insieme, stasera!”
Ma io non perdo tempo con inutili chiacchiere, gli scosto il braccio e l'afferro io per la gola, con una morsa che difficilmente potrebbe allentare con le sue forze e gli sferro una ginocchiata nei testicoli.
Quello urla di dolore e molla la presa sulla ragazza dace.
“Razza di una puttana, pagherai anche per questo!” Mi urla, piegato in due, con le mani sotto alla propria tunica.
“Taci, Marcius, domani con Quinto, faremo i conti con te, definitivamente!”
“Va a farti fottere Keiko! Domani tu e la schiava dalla Dacia sarete morte!” Ci urla dietro e se ne va zoppicando.
Non mi interesso più del depravato e mi occupo di Siret che mi guarda terrorizzata.
“Tranquilla, ragazza, non devi preoccuparti.” La consolo stringendola tra le mie braccia.
“Keiko, hai sentito cosa ha detto?” Mi risponde lei mentre le tremano le labbra, prossima al pianto.
“Lascialo parlare, fa sempre così.” Rispondo, e considero chiuso l'incidente.
Ma in serata ci raggiunge Quinto, con una inspiegata doppia razione di cibo.
Si siede tra noi a parlarci e il suo sguardo si perde nel pavimento; il nostro allenatore evita di incrociare i nostri occhi.
Dopo un'attesa carica di curiosità, inizia a esprimersi a fatica, come se le parole rimanessero gelate nella sua gola.
“Domani tu e Siret avrete un combattimento al mattino...”
Lo guardo senza capire. Questa cosa è molto insolita.
“Ma Quinto, al Flavius, al mattino, non ci sono i combattimenti tra animali feroci?” Gli chiedo e lui si volta dall'altra parte.
Non mi risponde, ma emette un lungo sospiro. Si mette una mano alla fronte, chinandosi su ragionamenti che non manifesta. Poi scuote il capo, come a scacciare un molesto pensiero.
Rimaniamo ammutolite di fronte al suo silenzio, ma alla fine lui si alza e ci guarda negli occhi, prima una poi l'altra.
“Mi dispiace.”
Mi alzo anch'io e gli metto una mano sulla spalla: “Ti dispiace di cosa?” Lo apostrofo, ma lui volge lo sguardo altrove.
Lui allora fissa i suoi occhi sui miei, senza dire più nulla. Poi guarda Siret, rimasta seduta a guardarci, senza capire, neppure lei.
Infine mi scosta la mano dalla sua spalla e a capo basso si avvia alla porta della nostra cella.
Si volta solo alla fine: “Non so se domani sera ci rivedremo.” Pronuncia in tono sommesso e se ne va senza più dirci nulla.
Noi due donne rimaniamo inebetite in un silenzio sepolcrale che nessuna osa infrangere.
Finiamo con fatica il cibo in più che ci è stato concesso, e, senza più scambiarci una parola, ci stendiamo sulla paglia a dormire, abbracciate.
Nella notte la mia compagna si sveglia più volte, piangendo sommessamente, ma non riesco a dirle nulla di rassicurante, trafitte entrambe da oscuri presagi. Me la stringo al seno e, senza farmi scorgere da lei, piango anch'io in silenzio.
Al mattino un servo della nostra prigione ci sveglia e ci accompagna a prendere le nostre armature.
Siret sarà equipaggiata da gladiatrice Trace, con uno scudo rettangolare più leggero e senza la pesante armatura, e questo le consentirà un bel vantaggio negli spostamenti, affaticandola di meno, anche se più vulnerabile. A protezione del suo corpo ha infatti solo dei gambali in metallo e fasce di cuoio al braccio destro, dove dovrà armeggiare con una corta spada ricurva. La cosa più caratteristica è il suo elmo, decorato con un grifone. Io vengo armata da reziario, il mio abituale ruolo, in cui sono diventata molto esperta.
Ci portano all'anfiteatro dove abbiamo la conferma di essere noi due sole, senza il resto della nostra squadra. Dovremo combattere una contro l'altra?
Percepiamo che qualcosa è cambiato nei nostri confronti. Sentiamo su di noi il peso di una oscura e indecifrabile minaccia e la sensazione, più forte del solito, della morte imminente.
Nell'inconsueto orario mattiniero veniamo scagliate nell'arena, sotto gli occhi di centinaia di spettatori, assiepati, muti, sugli spalti.
Cerco la tribuna d'onore, ma non vedo traccia di Traiano, l'imperatore presso cui pensavo di aver trovato consenso.
Ci guardiamo attorno, stranite. Non ci è stato spiegato nulla. Nè se dobbiamo combattere una contro l'altra, né se affronteremo altri avversari.
Ma una specie di sordo boato ci indirizza verso il lato posto dell'ellisse del Flavius.
Neanche il tempo di girarci che un roco ruggito copre il suono delle voci di innumerevoli spettatori.
Un grosso leone dalla criniera folta e possente, viene trascinato da quattro catene e otto schiavi verso il centro del campo da combattimento.
Il tridente mi cade di mano e resto a guardare la scena come se fossi spettatrice di un orrendo incubo.
Ora tutto ci è chiaro e il gemito strozzato di Siret mi conferma che da questo brutto sogno non potrò svegliarmi.
Qualcuno ha decretato la nostra morte, o almeno la morte di una delle due.
Siamo cadute in disgrazia agli occhi di qualche potente che forse non ha gradito il nostro rapporto saffico o la sopravvivenza della dace allo scorso combattimento.
O forse una delle amicizie che millantava Marcius è reale e il capo della guarnigione si è voluto vendicare di noi.
Sta di fatto che noi due da sole contro un leone vero, in carne e ossa, non abbiamo alcuna probabilità di uscire vive.
Mentre raccolgo il tridente e faccio su la rete nella mia mano sinistra, alzo lo sguardo verso Siret per cercare di capire se quello che sto provando è condiviso dalla donna che amo.
Lei si toglie l'elmo e scioglie i capelli, mostrando a tutti la sua figura femmina, e mi ricambia lo sguardo.
Ma al posto dell'espressione terrorizzata e prossima al pianto che mi aspettavo, leggo nel suo volto fierezza e determinazione.
Tra le labbra contratte la ragazza dalle trecce rosse mostra i denti stretti, gli occhi agguerriti e la voglia di combattere, di vendere cara la pelle, contro ogni prognostico e contro dei oscuri che sentiamo nemici. Solleva il petto in respiri pieni e affannosi, poi si rimette l'elmo grifonato e con la spada accenna alla belva che, spinta e trascinata, è stata trasportata dal nostro lato del campo.
Io rispondo con il mio gesto di assenso e parto verso il nemico, al centro dell'arena.
Non abbiamo alcuna esperienza di combattimento contro un leone, ma di istinto ci dividiamo una da una parte e l'altra in posizione opposta al nemico, per cercare di ottimizzare le nostre capacità di attacco.
È evidente che non abbiamo possibilità di fuga e possiamo solo attaccare, senza aspettare di essere attaccate. La forza e la velocità della belva ucciderebbe immediatamente una delle due, prima che l'altra riuscisse a intervenire.
Lancio un urlo nell'arena alzando il tridente verso il cielo. Voglia il dio Nettuno, di cui porto il simbolo, esserci di auspicio in questa lotta mortale.
Il pubblico comincia ad acclamare il mio nome, come il lento rumore ritmato dei passi di una legione pronta all'attacco del nemico.
“Keiko! Keiko! Keiko!”
Io e Siret pur senza accordarci giungiamo all'intesa di non lasciare iniziativa al leone; con roche urla e puntando le nostre armi ci avviciniamo al felino che oscilla il suo sguardo alternativamente tra me e la mia compagna.
Il mostro, affamato e forse drogato, non tarda a manifestare la sua ira, scuotendo la testa e mostrando i denti, lacerando l'aria con spaventosi ruggiti.
Ma non sa contro chi scagliarsi perchè noi due donne gli stiamo appresso a distanze uguali.
Si scuote verso di una, ma l'altra gli urla addosso e distoglie la sua attenzione. E intanto ci avviciniamo. Se dobbiamo morire, meglio accelerare i tempi. Tanto la bestia non può stancarsi prima di noi, mentre noi possiamo solo perdere forza e fiducia.
Il leone resta indeciso su chi attaccare per prima, si muove, accenna a finte e tira zampate nell'aria agitando la criniera, finchè arrivo a portata del mio lungo forcone.
Agito la rete davanti ai suoi occhi per distrarlo e far sì che Siret lo possa colpire, ma la spada della dace è troppo corta per consentirle di avvicinarsi.
Il leone tenta un attacco verso di me, ma il tridente gli è addosso. Lo sfioro soltanto, senza ferirlo, ma lui si ritrae e si volge verso Siret.
Fa qualche passo verso di lei, ma io ancora mi allungo e lo colpisco con le punte, sulla coscia. Questa volta l'arma riesce a penetrare nella pelliccia, ma senza nuocere alla forza del felino, che mi si rivolta contro con un ruggito e una zampata. Io arretro di qualche passo seguita dalla fiera e Siret con due salti di corsa lo raggiunge e lo colpisce di nuovo.
“Non così vicina!” Urlo alla mia compagna, ma già il leone si è girato e con una zampata le ha strappato la spada dalle mani; le si avventa addosso, ma Siret para l'unghiata con lo scudo, prima di cadere a terra.
Il leone le si lancia contro, ma io gli affondo il tridente in un fianco, profondamente. Siret gli butta una manciata di sabbia negli occhi, ma quello si rigira verso di me e mi attacca. Io arretro di due passi e gli scaglio la rete addosso riuscendo ad avvolgerlo. Però il mostro non si ferma e mi è sopra, io arretro ma inciampo e cado.
Il manico del tridente picchia per terra con le punte verso l'alto e il leone gli si butta contro lasciandosi trafiggere dalle punte fin dentro il petto.
Emette un tremendo ruggito e cerca di colpirmi con gli artigli attraverso la rete.
Io non ho più neanche il tempo di staccarmi dalla rete, il leone mi è sopra, i suoi artigli mi hanno colpita al ventre, ma la rete ne ha bloccato la potenza.
Cado per terra sotto il peso della belva, incapace di armeggiare il mio pugnale, la sola arma che mi rimane.
Le fauci del leone mi raggiungono, attraverso la rete, e mi serrano il capo; riesco a percepire il fiato schifoso della bestia e i suoi denti penetrarmi nel cranio. Uno scricchiolio sinistro accompagna un tremendo dolore e credo di perdere i sensi.
Ma un secondo dopo mi trovo quasi soffocata dal peso del corpo del leone e ancora riesco ad accorgermi del suo fiato fetido. Com'è che non sono morta?
I denti del leone sono fermi, sul mio volto, la stretta non si accentua.
Con fatica sposto una mano e riesco a liberarmi della morsa dei denti. Il leone è immobile, senza respiro, ma io sono ancora schiacciata dal suo corpo.
Cerco di sgusciarne fuori e appena riacquisto la luce scorgo Siret in piedi, senza scudo e senza spada, di fianco al corpo possente da cui sto cercando di divincolarmi. Lei mi aiuta spingendo la carcassa di lato e io ne balzo fuori.
Ma una fitta tremenda mi fa piegare in due. Dal mio ventre lacerato cola sangue in forma di fiumi.
Cado in ginocchio facendo in tempo a vedere la spada di Siret infilata di traverso nel collo del leone e il mio tridente impiantato fino al manico nel suo torace.
Urlo e piango dal dolore e solo adesso ricomincio a sentire le acclamazioni della platea, completamente cancellate dalla mia percezione durante il combattimento.
Siret grida e mi corre vicina.
Io mi rialzo, sorretta dalla mia compagna che mi ha salvato la vita, rendendomi il favore dell'ultimo combattimento che ci ha viste opposte. Il sangue mi cola dalle mani, ma non vedo le mie budella sparse sulla sabbia e lo interpreto come un buon segno.
Mi bruciano gli occhi e quando faccio per strofinarmeli, mi accorgo che sto sanguinando anche dal volto.
Il pubblico ha ripreso ad acclamarci, incredulo più di noi stesse di vederci ancora vive.
Siret si strappa un pezzo di tunica e mi asciuga il sangue dal ventre: dopo una pulita riusciamo a farci l'idea che le artigliate non sono così profonde come sembrava.
Ci alziamo insieme sollevando le braccia e girando su noi stesse per onorare tutta la platea.
Il mio nome viene scandito in cori unanimi.
Sopravvissute per puro caso e immensa fortuna, ora, visto che non siamo moribonde, sappiamo che cosa l'arena si aspetta da noi.
Mi avvicino alla carcassa del leone ed estraggo il tridente e la spada, mostrandole al pubblico colanti di sangue, tra le urla e le incitazioni.
Poi do una spinta a Siret che si butta apposta a terra, a gambe aperte. Sa anche lei cosa fare e forse, di fronte alla vita incredibilmente rinnovata, questo potrebbe essere il miglior momento della giornata.
Con le punte del tridente le lacero la tunica, togliendole il perizoma.
La donna dalla pelle chiara resta nuda sotto gli occhi dei romani.
Il mio nome viene cadenzato, come in un rito satanico: “Keiko! Keiko! KEIKO!!!”
Mi strappo la protezione che mi riveste un braccio e mi libero della tunica, mostrando il seno e la ferita del mio ventre, molto più vistosa di quanto in realtà sia grave.
Appoggio il piede nudo sulla vulva della gladiatrice a terra e comincio a muoverlo sulle morbide pieghe. Sento sotto la pianta i soffici peli del suo pube e continuo a massaggiarla tra le crescenti urla di consenso del pubblico. Siret solleva le ginocchia e mi prende il piede, stringendoselo tra le cosce. Io mi rigiro il tridente tra me mani, puntando il manico verso la mia compagna.
Mi alzo a contemplare i patrizi che osannano al mio nome, incitandomi a proseguire nelle mie azioni di erotismo.
Resisto al dolore che mi squarcia il ventre e mi pulsa nella testa e infilo il manico del tridente tra le cosce di Siret.
Lei mi agevola con una mano e comincio a masturbarla nella vagina, col legno.
Lo infilo e lo sfilo, lo rigiro tenendolo a due mani, mentre la dace comincia a emettere gemiti e urla fasulle, ma convincenti sulla platea.
La masturbo a due mani e quella geme e si contorce finchè orchestra un sonoro orgasmo, condito di convulsioni e urla che fanno alzare tutto il pubblico in piedi.
E quando i suoi gemiti si sedano, sono io a strapparmi il perizoma ed esporre il mio sesso e i miei peli neri ai nobili e ai senatori.
Il mio nome acclamato e scandito, il mio nome che echeggia nell'anfiteatro mentre allargo le gambe e mi porto sopra il volto di Siret.
Mi inginocchio e le appoggio la fica sulla bocca. Lei mi afferra i fianchi e comincia a leccarmi nella mia più intima entrata.
Io mi prendo i capelli tra le mani e gemo, lei mi lecca e mi penetra con la sua lingua.
Inarco la schiena mentre le mie urla di godimento rimbombano nell'arena finchè un vero orgasmo non mi contrae il corpo e mi scuote le membra.
Siret mi stringe alla vita e mi tiene appiccicata alla sua bocca mentre mi contorco come un animale ferito, urlano il mio piacere più forte che posso, per poi cadere sulla sabbia e rimanere come svenuta.
É la dace che mi risolleva dopo un reale momento di obnubilamento, mi rialza e a braccia elevate, completamente nude, sporche di sangue e di sabbia, ci volgiamo agli spalti di fronte alle voci che urlano i nostri nomi. Poi alcuni schiavi entrano in scena per rimuovere il cadavere della belva e noi due, recuperati i nostri stracci e le nostre armi, ci allontaniamo tra cori e urla.
Questo pomeriggio Quinto sarà sorpreso di vederci tutte e due, vive e ancora insieme.

- Continua
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2022-12-10
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