La gladiatrice. 6. Trame e veleni. seconda parte
di
Yuko
genere
trio
Sotto la luce della fiamma la dace si slaccia la tunica e se la fa scivolare sul corpo; da sotto l'indumento scopre una spalla colore rosa chiaro, poi il lembo scivola e rimane appeso al suo seno e solo dopo una piccola scossa che fa tremare la morbida curva, il tessuto cade a terra.
La ragazza si mette in ginocchio, completamente nuda, senza alcuna protezione. Il pube sembra una rossa fiammella, prende vita, soffice e invitante, sopra le sue cosce appena disgiunte.
“Va avanti!” La incita il guardiano, mantenendo l'arma alta sul nostro capo.
Lei si alza in piedi di fronte a lui. Si sfiora i capezzoli con le dita e poi si scioglie le rosse trecce, scuotendo appena il capo liberando i capelli sulle sue spalle.
“Se dobbiamo morire, tanto vale prenderci un po' di piacere, per l'ultima volta, non trovi?”
“Non vi credo, razza di cagne. La paura di morire, e solamente questa, vi ha addolcite, ma voi cercherete di ammazzarmi per scappare appena possibile.” Risponde lui, ma il tono ha perduto l'ardore iniziale.
“E come potremmo fare, Marcius? Basta che tu consegni la tua spada a Tarquinio e che la cella sia chiusa alle tue spalle e noi non potremo fare nulla.” Aggiungo io, alzando il busto per rimettermi seduta. “Deciderai poi tu stesso se ucciderci stanotte stessa o prenderti la libertà di usare ancora dei nostri corpi per tutta la notte, finchè sorga il nuovo giorno.”
“Ora tutte le libertà sono mie e posso fare qualunque cosa dei vostri corpi, adesso o anche domani.” Ripete lui e intanto abbassa la spada.
“E allora approfittane!” Gli sibilo io con voce ferma e, portata una mano alla tunica, me la strappo di dosso esponendo il mio corpo nudo. “Vedremo se veramente sei capace di fare godere due donne insieme.”
Lui scoppia in una risata. “Ci puoi giurare, muso giallo! Vi posso sbattere per tutta la notte!”
Si allontana chiamando Tarquinio mentre io e Siret ci guardiamo scambiandoci un gesto di intesa.
Il comandante consegna la spada al suo secondo e sentiamo la porta della cella in fondo al corridoio chiudersi dietro alle sue spalle. Quando Marcius arriva nella nostra gabbia si è già spogliato dei suoi indumenti e si tocca la verga per prepararsi a montarci.
Siret gli si fa appresso e lui se la stringe al corpo con un braccio. La bacia sulle labbra infilandole una mano fra le cosce.
“Ecco, ora si che mi piace!” Sussurra la rossa mentre quello le bacia il collo spostandosi a succhiarle i capezzoli.
“Ti sei profumata con i fiori, razza di cagna, allora davvero speravi che sarei passato questa notte.” Continua lui, prendendole i seni tra le mani e unendoli per succhiarle i capezzoli insieme. “E allora godi!”
Io mi avvicino a lui prendendogli in mano l'asta e cominciando ad accarezzargliela.
Lui mi tira per i capelli facendomi inginocchiare davanti al suo pene.
Io glielo prendo in bocca leccandoglielo e succhiandolo, mentre lui mi manifesta la sua soddisfazione.
“Ora tu, dace!” Ingiunge alla compagna.
Io e lei, in ginocchio ai suoi piedi ci alterniamo a prenderlo in bocca e a succhiarlo, e ogni tanto ci scambiamo un bacio tra di noi.
Quando pensiamo di aver lavorato abbastanza la sua eccitazione, lo invitiamo a sdraiarsi.
Siret si mette a quattro zampe sporgendo il sedere verso di lui mentre quello mi prende per le tette e comincia a massaggiarmele avvicinando la sua bocca al mio viso per baciarmi.
“Aspetta”, dice rivolto alla rossa, “ti voglio più bagnata, devi grondare come una fontana!”
“E allora leccamela, romano, e sentirai che sapore hanno del donne della Dacia!”
Lui si mette col muso sotto al sedere di Siret e affonda la lingua nella sua vulva, mentre allunga le mani per afferrarle le tette. Quello lecca e in breve Siret simula un orgasmo, con urla e contorcimenti. Poi la guardia si rialza trattenendola nella posizione della pecora e comincia a penetrarla con la verga tenendola per i fianchi. Siret geme e mugola mentre Marcius rompe l'aria con boati di godimento.
Io mi porto di fianco a lui. “Leccami questi, ora, e sentirai i sapori dell'oriente!” Gli dico porgendoli i capezzoli.
Quello lecca, succhia e palpa. Mi stringe il sedere con una mano, cercando di infilarmi un dito da dietro, mi passa la lingua sulle tette e intanto affonda i lombi nel ventre di Siret.
“Aspetta, romano, a esplodere. Ne voglio anche per me.” Gli dico poco dopo, mettendomi in piedi di fianco a lui e infilandomi le dita nella fica. Lui si sfila da Siret e lei lo aiuta a stendersi.
A pancia in su, io mi adagio con la vulva sulla sua bocca e l'altra donna sul suo pene. Io e lei ci troviamo così di fronte.
“Quanto sei bagnata Keiko, sembra che ti sia pisciata addosso!” Dice lui e continua ad affondare la sua lingua nel mio organo di riproduzione.
“Tu lecca, guerriero! È qui che si combattono le vere battaglie!”
Io e Siret ci baciamo e ci tocchiamo i seni; lei sale e scende dalla verga che le entra dentro, mentre io sento la lingua del porco che mi scivola da ogni parte, e il godimento per un attimo sembra reale anche per noi. Io forzo un orgasmo e scarico il mio liquido sulla bocca della guardia mentre la mia compagna mi bacia e mi stringe.
Poi ci scambiamo di posto e finalmente anche Marcius esplode in una fontana di latte.
Lo lasciamo riposare mentre ci sdraiamo di fianco al suo corpo. Ancora, a turno, gli porgiamo i seni perchè ce li lecchi, ma presto quello cade mezzo addormento. Sarebbe facile ora ucciderlo, ma non abbiamo con noi alcuna arma e Tarquinio potrebbe sentirci.
Da sotto la panca recuperiamo altra poltiglia di oleandro e ce la passiamo sui seni e sulle vulve e appena finiamo svegliamo con delicatezza il nostro guardiano.
“Marcius, tutto qui quello che sai fare?” Lo incita Siret guardandolo dolcemente.
“Voi due, troie barbare, non sapete nemmeno con chi avete a che fare. Ho appena iniziato!”
“E allora facci godere, ancora!” E Siret gli si avventa addosso rimettendogli la fica in faccia, mentre io con la bocca riprendo la sua verga per stimolarla.
Ancora proseguiamo, io e lei, sul romano, facendoci leccare seni e fiche, facendoci toccare e montare, due, tre volte, e a ogni orgasmo ripetiamo le abluzioni col succo di oleandro.
Finchè quello si alza con i bruciori di stomaco, piegato in due dal dolore. Emette rochi urli cercando di trattenersi, ma un dolore come di pugnalata gli perfora il ventre.
“Che cosa mi avete dato, voi due, puttane?” Ringhia ora con voce sorda.
“I nostri corpi e il nostro sesso, Marcius. Solo questo. Non ne vuoi ancora?”
“Ho il fuoco nello stomaco, ho bevuto troppo vino.”
“Bevi quest'acqua fresca, allora.” E gli faccio bere due sorsi di succo di fiori.
Lui sembra stare meglio e si riaddormenta in preda a un forte sopore.
Poco tempo dopo il suo cuore si ferma.
Siret lo tocca con la punta del piede, ma quello non si sveglia.
Gli tasto i polsi, ma non sento segni di vita, e neanche il respiro alimenta più il suo petto.
È morto e per noi inizia il momento più pericoloso. Bisogna agire subito, ma non abbiamo più udito il suono della civetta, forse il segnale che qualcuno, fuori, ci stava aspettando per nasconderci.
“Presto, Siret, corri da Tarquinio, ma sii convincente! Da questo dipende la nostra vita.”
Lei corre fuori dalla cella, supera il primo cancello, lasciato aperto, verso il corridoio.
Oltre la seconda porta scorge in lontananza Tarquinio addormentato su uno scranno.
“Tarquinio, corri, presto! Marcius sta male!”
Lui si desta e si avvicina alla porta, brandendo una lancia: “Che succede?”, si perde a guardare il petto nudo della dace, “Non ne avete avuto abbastanza?
Siret si copre il seno con una mano. “Non c'è da scherzare! Marcius sta vomitando e sta male!”
“Avrà bevuto troppo vino, lo conosco. Poi gli passerà.”
“Ha detto lui di chiamarti, sbrigati, sta male!”
Lui si ferma e guarda con sospetto la gladiatrice, senza muoversi.
“Dai! Non senti che si lamenta?” Continua lei udendo dei gemiti dal fondo del corridoio che curva verso la nostra cella, invisibile da quel punto.
“Non mi fido di voi. Fammelo dire direttamente da lui.”
“Ma se è lui che mi ha mandato a svegliarti! Sbrigati, se non vieni subito, lui si arrabbierà e sai come diventa violento se non gli si ubbidisce!”
Lui tocca con una mano le chiavi che tiene appese alla cintura, ma non si decide.
Dalla nostra cella giunge un urlo strozzato. “Ti vuoi sbrigare? Non capisci che ha bisogno di te?”
Ma quello non si decide.
“Non mi fido di voi, schiave. Aprirò solo quando lo vedrò arrivare.” E di nuovo si allontana verso il suo giaciglio.
“Sei uno stupido, Tarquinio. Marcius si arrabbierà e ci andremo di mezzo tutti, noi e anche tu!”
Un altro urlo strozzato giunge dalla nostra cella.
Siret scappa verso la stanza, finge di armeggiare; qualche rumore viene creato artificialmente.
Poi ritorna di corsa alla porta.
“Sbrigati, Tarquinio, sta vomitando e sta minacciando di fartela pagare!” Insiste la donna rossa.
“Io non sento la sua voce. Cosa gli avete fatto, voi due? Non è riuscito a soddisfarvi?”
Siret si è appoggiata con una mano alle sbarre, ma i capezzoli del suo seno sporgono da sopra il braccio che tiene appoggiato sul seno e Tarquinio ci ha piantato il suo sguardo.
“Mica tanto.” Ammette la dace e si lascia sfuggire un lieve sorriso. “Forse ha bevuto troppo vino e ci ha lasciate a metà, poi ha iniziato a vomitare. Si addormenta, si sveglia tra i dolori di stomaco e vomita di nuovo.”
“Saprei io, e molto bene, come riuscire ad accontentare tutte e due.” Riprende la guardia, oltre il cancello.
“E come vorresti fare?” Risponde la donna, con un'espressione maliziosa, abbassando appena il braccio con cui copriva il seno. Solo pochi centimetri, ma a sufficienza per mostrare un po' del suo seno, sotto ai capezzoli. “Marcius è ancora lì da noi. Si lamenta dal male, ma non accetterà di vederti fare meglio di lui.”
Lui inizia a guardarla, spostando i suoi occhi dal suo viso al suo seno. Siret gli accenna un sorriso, mordendosi un labbro.
Un urlo strozzato arriva dall'altra parte del corridoio.
Siret accenna con un gesto del capo alla direzione verso la sua cella. Sorride ancora alla guardia, con i denti si morde il labbro inferiore e agita le dita che ha appoggiato alle sbarre di metallo, verso il guardiano; in tono ambiguo ancora gli sussurra: “Non senti che sta male, Tarquinio? Come pensi di fare per soddisfarci?”
Quello allunga una mano e tocca le sue dita. Con lo sguardo sfiora tutto il corpo della ragazza, dai suoi capelli rossi, sciolti sulle sue spalle pallide, ai suoi occhi del colore del cielo; contempla le sue labbra rosse come fragole, il collo lungo, il seno pieno e morbido fino al suo ventre dai contorni stretti. Siret con un semplice gesto scioglie il perizoma con cui si era ricoperta, lasciando l'altro a contemplarne i peli del pube, sopra le cosce appena discoste.
“Senti”, riprende il discorso il romano, “Prima sistemiamo Marcius e poi penserò a voi, che ne dici?”
“A me va bene, Tarquinio. Tu sei più giovane e più forte, e con te sono sicura che sarà più divertente. Sbrighiamoci, però. Marcius sta male davvero!”
“Spostati dalla porta, allora, allontanati!”
Siret si gira e scappa verso la cella. L'altro apre il cancello e la segue di corsa, ma appena arriva nella nostra stanza, un'ombra scura gli si avventa alle spalle, con un braccio gli stringe il collo e con la mano gli blocca la bocca.
Solo un gemito di spavento e girandogli di scatto la testa gli spacco l'osso del collo, buttandolo a terra sul suo compare.
Siret rimane a guardarlo spaventata. “Ma l'hai ammazzato!”
“E cosa ti aspettavi che facessi, stupida”, la rimprovero io, “legarlo e imbavagliarlo?”
Lei lo guarda e annuisce. “Hai ragione, scappiamo subito o saremo presto morte!”
Ci rivestiamo e corriamo silenziose lungo il corridoio, attraversando la porta lasciata aperta.
Subito oltre ci liberiamo della fiamma e procediamo nell'oscurità fino alla porta che dal Dacicus dà verso la città.
Corriamo, ma non sappiamo dove andare. Nessuno ci ha indicato la strada per le catacombe e ci allontaniamo senza una direzione.
Troviamo un ubriaco seduto contro un muro e cambiamo direzione per non farci riconoscere, ma quello sembra averci scorte.
“Hey voi due, dove scappate?”
Corriamo più forte che possiamo per far perdere le nostre tracce, ma quello si alza e sembra volerci seguire. Il dolore alla pancia riprende di colpo, forse nella corsa si è riaperta qualche ferita.
“Hey! Dove andate!” Ci urla quell'altro.
Non rispondiamo, ma Siret rallenta per aiutarmi mentre inizio a zoppicare. L'ubriaco guadagna spazio.
“Oh ragazze!” Ci dice in tono più contenuto e da questo intuiamo che è riuscito ad avvicinarsi. Ci giriamo a guardarlo e lo troviamo fermo, col busto chino e le mani a fare da portavoce intorno alla bocca.
“Discepoli di Paolo!” Pronuncia con un urlo strozzato; e noi ci fermiamo di colpo.
Mi piego in avanti, scossa dal respiro che mi agita il petto; il dolore alle mie ferite è aumentato, ma quello che quel tizio ci ha detto è come una parola d'ordine. Fermo Siret che accenna a riprendere la corsa e decido di fidarmi. Siamo due gladiatrici, abituate a lottare e se dovessimo trovarci in pericolo avremmo facilmente ragione di un semplice cittadino, oltretutto dalle gracili fattezze.
Quello si avvicina, molto lentamente, mentre noi siamo pronte a riprendere la fuga. Si guarda intorno per vedere che non ci sia nessuno in giro, ma a quest'ora della notte, solo un ubriaco potrebbe essersi ancora attardato.
Quando è a una decina di metri si ferma e cerca di guardarci meglio.
“Sono uno dei discepoli di Paolo.” Ripete, cercando di mascherare la voce, e capiamo che questa persona si trovava lì, fuori dal ludus, apposta per noi. Ma ancora non ci fidiamo. Possiamo avere solo nemici a Roma, soprattutto dopo aver assassinato due custodi della guarnigione.
“Keiko, Siret!” dice lui, ma questo non ci basta. I nostri nomi, o almeno il mio, è noto in buona parte della città, mentre quello di Siret, in effetti, non dovrebbe essere di appannaggio comune.
Quello si accorge che non ci fidiamo. Ci vede sole e impaurite e capisce che siamo noi, e non può non sapere che siamo due gladiatrici libere, in giro per le strade della capitale.
“Seguitemi!” Prende una decisione e si allontana di qualche passo.
“Tu vai avanti, noi ti seguiamo a distanza.” Gli dico.
Un uomo è già stato ucciso di spada, forse, fuori dalla nostra cella e non possiamo non pensare che la notizia del nostro tentativo non sia già stata resa pubblica. Chiunque potrebbe cercare di farci arrestare per riscuotere una possibile taglia.
Lui però annuisce e si allontana. Inizia a camminare nelle strade buie; vediamo che evita le vie più larghe. Noi lo seguiamo a grande distanza, aspettando agli angoli delle strade. Ci mettiamo d'accordo che, in caso di qualche imboscata, ci divideremo dandoci appuntamento per la notte successiva ai boschi intorno al circo Massimo, zona che entrambe conosciamo bene.
Ma quello prosegue la sua marcia e nulla succede. Contrariamente a quanto temevamo, si sposta alla periferia dell'urbe e a un certo punto scompare dentro a una soglia socchiusa.
Ci avviciniamo, ma rimaniamo fuori a lungo, indecise se fidarci. Questo è il momento più pericoloso per noi.
“Siret”, dico alla mia compagna, “Vado avanti io, che tanto, con queste ferite, sono anche la più debole. Se non mi vedi uscire a chiamarti entro poco tempo, scappa più forte che puoi e non farti più vedere in tutta Roma!”
Lei sembra esitare, mi nega un assenso, ma io non insisto più e mi infilo dentro l'uscio sentendo l'ultimo suo gemito dietro alle spalle.
All'interno resto avvolta nel buio più profondo, ma dopo qualche attimo la vista mi si abitua e scorgo in lontananza una luce arancione. Non c'è alcun rumore intorno a me né scorgo anima viva. Seguo la luce e trovo una stretta entrata con un cunicolo in discesa. Procedo e lo spazio si allarga mostrandomi una galleria di sabbia arancione e terra tra basse pareti in cui si alternano lapidi e nicchie scavate nella roccia. In fondo trovo la persona che qui ci ha guidate, con una torcia di rami resinosi accesa.
Fa cenno di seguirmi e io avanzo di qualche metro, ma ancora non mi fido.
L'altro fa qualche passo verso di me e io mi arresto.
“Dovete fidarvi di me, gladiatrici!”
Io taccio e faccio qualche passo indietro.
“Io stesso e noi tutti siamo in pericolo. Noi più di voi, se ci scoprissero. Va a chiamare la tua amica, oppure allontanati e scappa e non tornare mai più qui!”
Io esito, ma quello si avvicina ancora.
Mi giro e fuggo fuori, raggiungo rapidissima l'entrata, ma fuori non trovo più Siret.
Mi maledico per avere troppo esitato. La mia compagna si è già allontanata ubbidendo al mio comando.
Vorrei stracciarmi le vesti e scoppiare a piangere, ma corro nella direzione da cui siamo giunte finchè il cuore e il petto non mi scoppiano per l'affanno. Della dace nessuna traccia.
Mi giro e torno indietro sulle mie tracce per provare un altro percorso prima di abbandonare le speranze ed eccola, la vedo laggiù, in un angolo, chinata a piangere. Non mi ha vista e io la raggiungo, ma appena sono vicina quella si alza e scappa.
“Siret!” La chiamo e lei si ferma, si gira, mi guarda e mi corre incontro buttandosi nelle mie braccia.
Poco dopo siamo insieme nelle basse gallerie delle dimore di questa setta religiosa, alle spalle di Simone, alla luce della sua torcia. Nessuna imboscata si è rivelata contro di noi e cominciamo a sentirci più al sicuro. Ci racconta che Quinto è morto, ma che già da qualche giorno erano d'accordo che se qualcosa fosse andato storto, uno di loro avrebbe continuato per un mese a presidiare di notte l'ingresso del ludus Dacicus nella speranza di una nostra fuga. Viceversa si sarebbero aspettati di vederci condannare a morte.
Sulla terra bagnata avanziamo senza far rumore in un labirinto scavato nella roccia nelle viscere della grande città. Ogni tanto una corrente fredda ci colpisce il volto e, guardando sopra le nostre teste, troviamo alti camini che ci portano l'aria esterna.
Ci muoviamo in basse gallerie dalla foggia quadrata, sfondate da nicchie e bassi pertugi il cui pavimento è ricoperto di coperchi in pietra, spesso scolpiti con iscrizioni o, talvolta, semplici bassorilievi. Ancora qualche bivio e giungiamo in uno slargo dove alcune gallerie convergono. Qui la nostra guida si ferma, ci indica uno spazio in cui giacere, con acqua e cibo e alcuni indumenti di cui coprirci.
Nei giorni successivi conosceremo la comunità di discepoli di Paolo, come si fanno chiamare, ma in verità osservanti della nuova religione coltivata nel segreto di questi spazi nascosti.
Sostiamo in quel posto per qualche tempo. Ci dicono che debbono prima sopirsi le eco della nostra fuga e dell'omicidio che abbiamo commesso. In quei giorni scrivo la mia storia, finchè una notte, senza preavviso, ci fanno partire.
Salutiamo questi romani che ci hanno accolto e che ci hanno aiutato a scappare e ci prepariamo a partire.
“Vieni Siret, per noi inizia oggi una nuova vita. Ti porterò nella mia terra e là vivremo libere.”
“Io ti seguirò in tutto il mondo, Keiko.”
“Shikitsuhiko è il mio vero nome, donna venuta dalla Dacia, e vengo dal paese dei Wa.”
Ci donano un destriero, vesti e provviste e ci indicano la strada per allontanarci da Roma. Non sapremo più nulla di loro né loro più nulla di noi.
Leggende antiche fiorirono nel sud della Cina e lungo le coste dell'Indocina, lungo il mare che conduce all'arcipelago del Giappone.
Una donna dai lunghi capelli neri e dallo sguardo forte adorna di fiori di pesco la chioma di un'altra donna dalla pelle pallida e i capelli colore del fuoco. Il suo stesso volto è incorniciato di candidi fiori di ciliegio quasi intessuti nel suo crine colore delle tenebre. Nell'aria i profumi della primavera.
優子
- FINE
Note: Le sostanze descritte come utilizzate nella guarigione hanno reale potere terapeutico.
La corteccia di salice è nota sin dall'antichità per la sua capacità antidolorifica e per abbassare la febbre. In epoca modera il principio attivo è stato individuato nell'acido salicilico che, unito all'acido acetico compone l'acido acetilsalicilico, più comunemente noto come “aspirina”.
Le muffe delle arance producono invece un potentissimo antibiotico, la “penicillina”, scoperta in Europa da Fleming, e estremamente attiva contro un germe tipicamente coinvolto in ascessi che infettano ferite della pelle, lo Stafilococco aureo.
Le foglie del fiore digitale contengono una sostanza che porta lo stesso nome, la “digitale” poi purificata in “digossina”, un potente farmaco cardiotonico ancora in uso nella medicina moderna, mentre l'infuso di fiori di camomilla ha potere antinfiammatorio e lenitivo.
La ragazza si mette in ginocchio, completamente nuda, senza alcuna protezione. Il pube sembra una rossa fiammella, prende vita, soffice e invitante, sopra le sue cosce appena disgiunte.
“Va avanti!” La incita il guardiano, mantenendo l'arma alta sul nostro capo.
Lei si alza in piedi di fronte a lui. Si sfiora i capezzoli con le dita e poi si scioglie le rosse trecce, scuotendo appena il capo liberando i capelli sulle sue spalle.
“Se dobbiamo morire, tanto vale prenderci un po' di piacere, per l'ultima volta, non trovi?”
“Non vi credo, razza di cagne. La paura di morire, e solamente questa, vi ha addolcite, ma voi cercherete di ammazzarmi per scappare appena possibile.” Risponde lui, ma il tono ha perduto l'ardore iniziale.
“E come potremmo fare, Marcius? Basta che tu consegni la tua spada a Tarquinio e che la cella sia chiusa alle tue spalle e noi non potremo fare nulla.” Aggiungo io, alzando il busto per rimettermi seduta. “Deciderai poi tu stesso se ucciderci stanotte stessa o prenderti la libertà di usare ancora dei nostri corpi per tutta la notte, finchè sorga il nuovo giorno.”
“Ora tutte le libertà sono mie e posso fare qualunque cosa dei vostri corpi, adesso o anche domani.” Ripete lui e intanto abbassa la spada.
“E allora approfittane!” Gli sibilo io con voce ferma e, portata una mano alla tunica, me la strappo di dosso esponendo il mio corpo nudo. “Vedremo se veramente sei capace di fare godere due donne insieme.”
Lui scoppia in una risata. “Ci puoi giurare, muso giallo! Vi posso sbattere per tutta la notte!”
Si allontana chiamando Tarquinio mentre io e Siret ci guardiamo scambiandoci un gesto di intesa.
Il comandante consegna la spada al suo secondo e sentiamo la porta della cella in fondo al corridoio chiudersi dietro alle sue spalle. Quando Marcius arriva nella nostra gabbia si è già spogliato dei suoi indumenti e si tocca la verga per prepararsi a montarci.
Siret gli si fa appresso e lui se la stringe al corpo con un braccio. La bacia sulle labbra infilandole una mano fra le cosce.
“Ecco, ora si che mi piace!” Sussurra la rossa mentre quello le bacia il collo spostandosi a succhiarle i capezzoli.
“Ti sei profumata con i fiori, razza di cagna, allora davvero speravi che sarei passato questa notte.” Continua lui, prendendole i seni tra le mani e unendoli per succhiarle i capezzoli insieme. “E allora godi!”
Io mi avvicino a lui prendendogli in mano l'asta e cominciando ad accarezzargliela.
Lui mi tira per i capelli facendomi inginocchiare davanti al suo pene.
Io glielo prendo in bocca leccandoglielo e succhiandolo, mentre lui mi manifesta la sua soddisfazione.
“Ora tu, dace!” Ingiunge alla compagna.
Io e lei, in ginocchio ai suoi piedi ci alterniamo a prenderlo in bocca e a succhiarlo, e ogni tanto ci scambiamo un bacio tra di noi.
Quando pensiamo di aver lavorato abbastanza la sua eccitazione, lo invitiamo a sdraiarsi.
Siret si mette a quattro zampe sporgendo il sedere verso di lui mentre quello mi prende per le tette e comincia a massaggiarmele avvicinando la sua bocca al mio viso per baciarmi.
“Aspetta”, dice rivolto alla rossa, “ti voglio più bagnata, devi grondare come una fontana!”
“E allora leccamela, romano, e sentirai che sapore hanno del donne della Dacia!”
Lui si mette col muso sotto al sedere di Siret e affonda la lingua nella sua vulva, mentre allunga le mani per afferrarle le tette. Quello lecca e in breve Siret simula un orgasmo, con urla e contorcimenti. Poi la guardia si rialza trattenendola nella posizione della pecora e comincia a penetrarla con la verga tenendola per i fianchi. Siret geme e mugola mentre Marcius rompe l'aria con boati di godimento.
Io mi porto di fianco a lui. “Leccami questi, ora, e sentirai i sapori dell'oriente!” Gli dico porgendoli i capezzoli.
Quello lecca, succhia e palpa. Mi stringe il sedere con una mano, cercando di infilarmi un dito da dietro, mi passa la lingua sulle tette e intanto affonda i lombi nel ventre di Siret.
“Aspetta, romano, a esplodere. Ne voglio anche per me.” Gli dico poco dopo, mettendomi in piedi di fianco a lui e infilandomi le dita nella fica. Lui si sfila da Siret e lei lo aiuta a stendersi.
A pancia in su, io mi adagio con la vulva sulla sua bocca e l'altra donna sul suo pene. Io e lei ci troviamo così di fronte.
“Quanto sei bagnata Keiko, sembra che ti sia pisciata addosso!” Dice lui e continua ad affondare la sua lingua nel mio organo di riproduzione.
“Tu lecca, guerriero! È qui che si combattono le vere battaglie!”
Io e Siret ci baciamo e ci tocchiamo i seni; lei sale e scende dalla verga che le entra dentro, mentre io sento la lingua del porco che mi scivola da ogni parte, e il godimento per un attimo sembra reale anche per noi. Io forzo un orgasmo e scarico il mio liquido sulla bocca della guardia mentre la mia compagna mi bacia e mi stringe.
Poi ci scambiamo di posto e finalmente anche Marcius esplode in una fontana di latte.
Lo lasciamo riposare mentre ci sdraiamo di fianco al suo corpo. Ancora, a turno, gli porgiamo i seni perchè ce li lecchi, ma presto quello cade mezzo addormento. Sarebbe facile ora ucciderlo, ma non abbiamo con noi alcuna arma e Tarquinio potrebbe sentirci.
Da sotto la panca recuperiamo altra poltiglia di oleandro e ce la passiamo sui seni e sulle vulve e appena finiamo svegliamo con delicatezza il nostro guardiano.
“Marcius, tutto qui quello che sai fare?” Lo incita Siret guardandolo dolcemente.
“Voi due, troie barbare, non sapete nemmeno con chi avete a che fare. Ho appena iniziato!”
“E allora facci godere, ancora!” E Siret gli si avventa addosso rimettendogli la fica in faccia, mentre io con la bocca riprendo la sua verga per stimolarla.
Ancora proseguiamo, io e lei, sul romano, facendoci leccare seni e fiche, facendoci toccare e montare, due, tre volte, e a ogni orgasmo ripetiamo le abluzioni col succo di oleandro.
Finchè quello si alza con i bruciori di stomaco, piegato in due dal dolore. Emette rochi urli cercando di trattenersi, ma un dolore come di pugnalata gli perfora il ventre.
“Che cosa mi avete dato, voi due, puttane?” Ringhia ora con voce sorda.
“I nostri corpi e il nostro sesso, Marcius. Solo questo. Non ne vuoi ancora?”
“Ho il fuoco nello stomaco, ho bevuto troppo vino.”
“Bevi quest'acqua fresca, allora.” E gli faccio bere due sorsi di succo di fiori.
Lui sembra stare meglio e si riaddormenta in preda a un forte sopore.
Poco tempo dopo il suo cuore si ferma.
Siret lo tocca con la punta del piede, ma quello non si sveglia.
Gli tasto i polsi, ma non sento segni di vita, e neanche il respiro alimenta più il suo petto.
È morto e per noi inizia il momento più pericoloso. Bisogna agire subito, ma non abbiamo più udito il suono della civetta, forse il segnale che qualcuno, fuori, ci stava aspettando per nasconderci.
“Presto, Siret, corri da Tarquinio, ma sii convincente! Da questo dipende la nostra vita.”
Lei corre fuori dalla cella, supera il primo cancello, lasciato aperto, verso il corridoio.
Oltre la seconda porta scorge in lontananza Tarquinio addormentato su uno scranno.
“Tarquinio, corri, presto! Marcius sta male!”
Lui si desta e si avvicina alla porta, brandendo una lancia: “Che succede?”, si perde a guardare il petto nudo della dace, “Non ne avete avuto abbastanza?
Siret si copre il seno con una mano. “Non c'è da scherzare! Marcius sta vomitando e sta male!”
“Avrà bevuto troppo vino, lo conosco. Poi gli passerà.”
“Ha detto lui di chiamarti, sbrigati, sta male!”
Lui si ferma e guarda con sospetto la gladiatrice, senza muoversi.
“Dai! Non senti che si lamenta?” Continua lei udendo dei gemiti dal fondo del corridoio che curva verso la nostra cella, invisibile da quel punto.
“Non mi fido di voi. Fammelo dire direttamente da lui.”
“Ma se è lui che mi ha mandato a svegliarti! Sbrigati, se non vieni subito, lui si arrabbierà e sai come diventa violento se non gli si ubbidisce!”
Lui tocca con una mano le chiavi che tiene appese alla cintura, ma non si decide.
Dalla nostra cella giunge un urlo strozzato. “Ti vuoi sbrigare? Non capisci che ha bisogno di te?”
Ma quello non si decide.
“Non mi fido di voi, schiave. Aprirò solo quando lo vedrò arrivare.” E di nuovo si allontana verso il suo giaciglio.
“Sei uno stupido, Tarquinio. Marcius si arrabbierà e ci andremo di mezzo tutti, noi e anche tu!”
Un altro urlo strozzato giunge dalla nostra cella.
Siret scappa verso la stanza, finge di armeggiare; qualche rumore viene creato artificialmente.
Poi ritorna di corsa alla porta.
“Sbrigati, Tarquinio, sta vomitando e sta minacciando di fartela pagare!” Insiste la donna rossa.
“Io non sento la sua voce. Cosa gli avete fatto, voi due? Non è riuscito a soddisfarvi?”
Siret si è appoggiata con una mano alle sbarre, ma i capezzoli del suo seno sporgono da sopra il braccio che tiene appoggiato sul seno e Tarquinio ci ha piantato il suo sguardo.
“Mica tanto.” Ammette la dace e si lascia sfuggire un lieve sorriso. “Forse ha bevuto troppo vino e ci ha lasciate a metà, poi ha iniziato a vomitare. Si addormenta, si sveglia tra i dolori di stomaco e vomita di nuovo.”
“Saprei io, e molto bene, come riuscire ad accontentare tutte e due.” Riprende la guardia, oltre il cancello.
“E come vorresti fare?” Risponde la donna, con un'espressione maliziosa, abbassando appena il braccio con cui copriva il seno. Solo pochi centimetri, ma a sufficienza per mostrare un po' del suo seno, sotto ai capezzoli. “Marcius è ancora lì da noi. Si lamenta dal male, ma non accetterà di vederti fare meglio di lui.”
Lui inizia a guardarla, spostando i suoi occhi dal suo viso al suo seno. Siret gli accenna un sorriso, mordendosi un labbro.
Un urlo strozzato arriva dall'altra parte del corridoio.
Siret accenna con un gesto del capo alla direzione verso la sua cella. Sorride ancora alla guardia, con i denti si morde il labbro inferiore e agita le dita che ha appoggiato alle sbarre di metallo, verso il guardiano; in tono ambiguo ancora gli sussurra: “Non senti che sta male, Tarquinio? Come pensi di fare per soddisfarci?”
Quello allunga una mano e tocca le sue dita. Con lo sguardo sfiora tutto il corpo della ragazza, dai suoi capelli rossi, sciolti sulle sue spalle pallide, ai suoi occhi del colore del cielo; contempla le sue labbra rosse come fragole, il collo lungo, il seno pieno e morbido fino al suo ventre dai contorni stretti. Siret con un semplice gesto scioglie il perizoma con cui si era ricoperta, lasciando l'altro a contemplarne i peli del pube, sopra le cosce appena discoste.
“Senti”, riprende il discorso il romano, “Prima sistemiamo Marcius e poi penserò a voi, che ne dici?”
“A me va bene, Tarquinio. Tu sei più giovane e più forte, e con te sono sicura che sarà più divertente. Sbrighiamoci, però. Marcius sta male davvero!”
“Spostati dalla porta, allora, allontanati!”
Siret si gira e scappa verso la cella. L'altro apre il cancello e la segue di corsa, ma appena arriva nella nostra stanza, un'ombra scura gli si avventa alle spalle, con un braccio gli stringe il collo e con la mano gli blocca la bocca.
Solo un gemito di spavento e girandogli di scatto la testa gli spacco l'osso del collo, buttandolo a terra sul suo compare.
Siret rimane a guardarlo spaventata. “Ma l'hai ammazzato!”
“E cosa ti aspettavi che facessi, stupida”, la rimprovero io, “legarlo e imbavagliarlo?”
Lei lo guarda e annuisce. “Hai ragione, scappiamo subito o saremo presto morte!”
Ci rivestiamo e corriamo silenziose lungo il corridoio, attraversando la porta lasciata aperta.
Subito oltre ci liberiamo della fiamma e procediamo nell'oscurità fino alla porta che dal Dacicus dà verso la città.
Corriamo, ma non sappiamo dove andare. Nessuno ci ha indicato la strada per le catacombe e ci allontaniamo senza una direzione.
Troviamo un ubriaco seduto contro un muro e cambiamo direzione per non farci riconoscere, ma quello sembra averci scorte.
“Hey voi due, dove scappate?”
Corriamo più forte che possiamo per far perdere le nostre tracce, ma quello si alza e sembra volerci seguire. Il dolore alla pancia riprende di colpo, forse nella corsa si è riaperta qualche ferita.
“Hey! Dove andate!” Ci urla quell'altro.
Non rispondiamo, ma Siret rallenta per aiutarmi mentre inizio a zoppicare. L'ubriaco guadagna spazio.
“Oh ragazze!” Ci dice in tono più contenuto e da questo intuiamo che è riuscito ad avvicinarsi. Ci giriamo a guardarlo e lo troviamo fermo, col busto chino e le mani a fare da portavoce intorno alla bocca.
“Discepoli di Paolo!” Pronuncia con un urlo strozzato; e noi ci fermiamo di colpo.
Mi piego in avanti, scossa dal respiro che mi agita il petto; il dolore alle mie ferite è aumentato, ma quello che quel tizio ci ha detto è come una parola d'ordine. Fermo Siret che accenna a riprendere la corsa e decido di fidarmi. Siamo due gladiatrici, abituate a lottare e se dovessimo trovarci in pericolo avremmo facilmente ragione di un semplice cittadino, oltretutto dalle gracili fattezze.
Quello si avvicina, molto lentamente, mentre noi siamo pronte a riprendere la fuga. Si guarda intorno per vedere che non ci sia nessuno in giro, ma a quest'ora della notte, solo un ubriaco potrebbe essersi ancora attardato.
Quando è a una decina di metri si ferma e cerca di guardarci meglio.
“Sono uno dei discepoli di Paolo.” Ripete, cercando di mascherare la voce, e capiamo che questa persona si trovava lì, fuori dal ludus, apposta per noi. Ma ancora non ci fidiamo. Possiamo avere solo nemici a Roma, soprattutto dopo aver assassinato due custodi della guarnigione.
“Keiko, Siret!” dice lui, ma questo non ci basta. I nostri nomi, o almeno il mio, è noto in buona parte della città, mentre quello di Siret, in effetti, non dovrebbe essere di appannaggio comune.
Quello si accorge che non ci fidiamo. Ci vede sole e impaurite e capisce che siamo noi, e non può non sapere che siamo due gladiatrici libere, in giro per le strade della capitale.
“Seguitemi!” Prende una decisione e si allontana di qualche passo.
“Tu vai avanti, noi ti seguiamo a distanza.” Gli dico.
Un uomo è già stato ucciso di spada, forse, fuori dalla nostra cella e non possiamo non pensare che la notizia del nostro tentativo non sia già stata resa pubblica. Chiunque potrebbe cercare di farci arrestare per riscuotere una possibile taglia.
Lui però annuisce e si allontana. Inizia a camminare nelle strade buie; vediamo che evita le vie più larghe. Noi lo seguiamo a grande distanza, aspettando agli angoli delle strade. Ci mettiamo d'accordo che, in caso di qualche imboscata, ci divideremo dandoci appuntamento per la notte successiva ai boschi intorno al circo Massimo, zona che entrambe conosciamo bene.
Ma quello prosegue la sua marcia e nulla succede. Contrariamente a quanto temevamo, si sposta alla periferia dell'urbe e a un certo punto scompare dentro a una soglia socchiusa.
Ci avviciniamo, ma rimaniamo fuori a lungo, indecise se fidarci. Questo è il momento più pericoloso per noi.
“Siret”, dico alla mia compagna, “Vado avanti io, che tanto, con queste ferite, sono anche la più debole. Se non mi vedi uscire a chiamarti entro poco tempo, scappa più forte che puoi e non farti più vedere in tutta Roma!”
Lei sembra esitare, mi nega un assenso, ma io non insisto più e mi infilo dentro l'uscio sentendo l'ultimo suo gemito dietro alle spalle.
All'interno resto avvolta nel buio più profondo, ma dopo qualche attimo la vista mi si abitua e scorgo in lontananza una luce arancione. Non c'è alcun rumore intorno a me né scorgo anima viva. Seguo la luce e trovo una stretta entrata con un cunicolo in discesa. Procedo e lo spazio si allarga mostrandomi una galleria di sabbia arancione e terra tra basse pareti in cui si alternano lapidi e nicchie scavate nella roccia. In fondo trovo la persona che qui ci ha guidate, con una torcia di rami resinosi accesa.
Fa cenno di seguirmi e io avanzo di qualche metro, ma ancora non mi fido.
L'altro fa qualche passo verso di me e io mi arresto.
“Dovete fidarvi di me, gladiatrici!”
Io taccio e faccio qualche passo indietro.
“Io stesso e noi tutti siamo in pericolo. Noi più di voi, se ci scoprissero. Va a chiamare la tua amica, oppure allontanati e scappa e non tornare mai più qui!”
Io esito, ma quello si avvicina ancora.
Mi giro e fuggo fuori, raggiungo rapidissima l'entrata, ma fuori non trovo più Siret.
Mi maledico per avere troppo esitato. La mia compagna si è già allontanata ubbidendo al mio comando.
Vorrei stracciarmi le vesti e scoppiare a piangere, ma corro nella direzione da cui siamo giunte finchè il cuore e il petto non mi scoppiano per l'affanno. Della dace nessuna traccia.
Mi giro e torno indietro sulle mie tracce per provare un altro percorso prima di abbandonare le speranze ed eccola, la vedo laggiù, in un angolo, chinata a piangere. Non mi ha vista e io la raggiungo, ma appena sono vicina quella si alza e scappa.
“Siret!” La chiamo e lei si ferma, si gira, mi guarda e mi corre incontro buttandosi nelle mie braccia.
Poco dopo siamo insieme nelle basse gallerie delle dimore di questa setta religiosa, alle spalle di Simone, alla luce della sua torcia. Nessuna imboscata si è rivelata contro di noi e cominciamo a sentirci più al sicuro. Ci racconta che Quinto è morto, ma che già da qualche giorno erano d'accordo che se qualcosa fosse andato storto, uno di loro avrebbe continuato per un mese a presidiare di notte l'ingresso del ludus Dacicus nella speranza di una nostra fuga. Viceversa si sarebbero aspettati di vederci condannare a morte.
Sulla terra bagnata avanziamo senza far rumore in un labirinto scavato nella roccia nelle viscere della grande città. Ogni tanto una corrente fredda ci colpisce il volto e, guardando sopra le nostre teste, troviamo alti camini che ci portano l'aria esterna.
Ci muoviamo in basse gallerie dalla foggia quadrata, sfondate da nicchie e bassi pertugi il cui pavimento è ricoperto di coperchi in pietra, spesso scolpiti con iscrizioni o, talvolta, semplici bassorilievi. Ancora qualche bivio e giungiamo in uno slargo dove alcune gallerie convergono. Qui la nostra guida si ferma, ci indica uno spazio in cui giacere, con acqua e cibo e alcuni indumenti di cui coprirci.
Nei giorni successivi conosceremo la comunità di discepoli di Paolo, come si fanno chiamare, ma in verità osservanti della nuova religione coltivata nel segreto di questi spazi nascosti.
Sostiamo in quel posto per qualche tempo. Ci dicono che debbono prima sopirsi le eco della nostra fuga e dell'omicidio che abbiamo commesso. In quei giorni scrivo la mia storia, finchè una notte, senza preavviso, ci fanno partire.
Salutiamo questi romani che ci hanno accolto e che ci hanno aiutato a scappare e ci prepariamo a partire.
“Vieni Siret, per noi inizia oggi una nuova vita. Ti porterò nella mia terra e là vivremo libere.”
“Io ti seguirò in tutto il mondo, Keiko.”
“Shikitsuhiko è il mio vero nome, donna venuta dalla Dacia, e vengo dal paese dei Wa.”
Ci donano un destriero, vesti e provviste e ci indicano la strada per allontanarci da Roma. Non sapremo più nulla di loro né loro più nulla di noi.
Leggende antiche fiorirono nel sud della Cina e lungo le coste dell'Indocina, lungo il mare che conduce all'arcipelago del Giappone.
Una donna dai lunghi capelli neri e dallo sguardo forte adorna di fiori di pesco la chioma di un'altra donna dalla pelle pallida e i capelli colore del fuoco. Il suo stesso volto è incorniciato di candidi fiori di ciliegio quasi intessuti nel suo crine colore delle tenebre. Nell'aria i profumi della primavera.
優子
- FINE
Note: Le sostanze descritte come utilizzate nella guarigione hanno reale potere terapeutico.
La corteccia di salice è nota sin dall'antichità per la sua capacità antidolorifica e per abbassare la febbre. In epoca modera il principio attivo è stato individuato nell'acido salicilico che, unito all'acido acetico compone l'acido acetilsalicilico, più comunemente noto come “aspirina”.
Le muffe delle arance producono invece un potentissimo antibiotico, la “penicillina”, scoperta in Europa da Fleming, e estremamente attiva contro un germe tipicamente coinvolto in ascessi che infettano ferite della pelle, lo Stafilococco aureo.
Le foglie del fiore digitale contengono una sostanza che porta lo stesso nome, la “digitale” poi purificata in “digossina”, un potente farmaco cardiotonico ancora in uso nella medicina moderna, mentre l'infuso di fiori di camomilla ha potere antinfiammatorio e lenitivo.
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