L'amazzone. 1. Dispersa

di
genere
prime esperienze

La missione ormai è fallita e l'unico scopo che mi rimane è cercare di raggiungere una via di collegamento, un posto civile, per essere portata in salvo.
Da alcuni giorni vago nella foresta, da sola. Nessuna traccia degli altri che mi accompagnavano per la nostra missione umanitaria qui, in amazzonia. Partiti per una campagna vaccinale dopo le notizie di una nuova ondata epidemica di meningite, siamo stati travolti da una piena mentre attraversavamo il Paranà do Urarià, un braccio del grande fiume, perdendo i nostri bagagli e tutto il nostro equipaggiamento. Poi siamo stati attaccati da qualche tribù incontattata: quelle rare popolazioni indigene che non hanno ancora incontrato l'uomo bianco e che se ne tengono ben distanti con bellicosa gelosia.
Noi eravamo diretti verso tribù già in parte civilizzate che hanno chiesto il nostro intervento, ma tutto è fallito. Come sempre i mezzi occidentali si dimostrano inadeguati di fronte alla natura incontaminata a cui noi non siamo più preparati.
Non so che fine abbiano fatto gli altri e nemmeno se qualcuno sia rimasto vivo.
Ora mi aggiro con terrore nella natura selvaggia, conscia della mia estrema vulnerabilità, cercando di mantenere una direzione di marcia che in teoria dovrebbe condurmi a un villaggio in cui cercare soccorsi.
Non sono più una dottoressa occidentale, ricca di mezzi e risorse, in grado di aiutare chi ha bisogno, ma solo una donna, senza più alcuna difesa, priva di ogni attrezzatura e conoscenza del territorio; un animale braccato, preda di belve feroci o prossima vittima di tribù che cercano solo di difendere territorio e autonomia dalle continue intrusioni e ingerenze occidentali.
I miei vestiti si sono stracciati e viaggio nuda, senza più alcun ricambio, ma col clima caldo e umido mi sono abituata a sentirmi anche meglio e più a mio agio.
Nessuna vergogna provo ormai più del mio seno nudo, della mia intimità in vista, quando la lotta è dura e cruda e le possibilità di sopravvivenza estremamente assottigliate.
A piedi nudi supero tratti di paludi alternate a lembi di terra dalla natura primordiale e la vegetazione rigogliosa. Mi nutro dei frutti che ho imparato a riconoscere e di cui fidarmi e cerco di riposare arrampicandomi su tronchi d'albero, sperando di non incontrare predatori.
Solo una cintura con un marsupio cinge i miei fianchi, vago riparo per il mio pube.
La pelle continuamente bagnata di sudore e del continuo stillicidio di deboli piogge che si alternano all'umidità che gronda dalle alte piante di questa foresta incommensurabile.
Ho raccolto i capelli in una treccia, legandola con frammenti di liane. Avanzo con un coltello, unica mia effimera difesa e strumento di sopravvivenza. Solo pochi farmaci per potabilizzare l'acqua e per la profilassi antimalarica, un paio di antibiotici e antinfiammatori, due lamette di bisturi e un pacchetto di garze: questo è quanto sono riuscita a salvare dal naufragio e che deve durarmi a garanzia di una mia improbabile sopravvivenza.
Ma percepisco nettamente che se sono ancora viva è solo perchè le tribù locali hanno deciso di tollerarmi. Loro sanno di me, sono dappertutto anche se io non li scorgo. Mi seguono e mi controllano.
Sono innocua e la mia sopravvivenza devo costruirmela combattendo solo contro i rischi di questa natura imprevedibile.
Se decideranno di eliminarmi lo faranno, senza alcun problema.
Non ricevo alcun aiuto da parte loro, o forse ne ricevo e non me ne rendo conto. In fondo non ho ancora fatto incontri pericolosi con belve feroci e predatori.
Chissà perchè, allora, mi tengono ancora in vita. Curiosità? O, forse perché, per una donna occidentale che attraversa nuda e indifesa il loro territorio hanno una sorta di tolleranza, un occhio di riguardo? Sarà per le mie forme in vista, o per la peculiarità di una donna da sola, di un altro continente e di una cultura agli antipodi, che attraversa senza nuocere il loro ambiente? Sola e nella necessità di arrangiarsi. O forse hanno particolari mire su di me?
Qui le donne si muovono nude abitualmente, come del resto ogni indigeno, e non credo di provocare eccitazione sessuale. Non qui, almeno.
Giungo a un piccolo corso d'acqua e mi lavo nel fluido fresco. La corrente è più forte e forse questo corso è meno impestato di parassiti e sanguisughe degli altri tratti semipaludosi che continuamente devo attraversare.
Con l'acqua fresca cerco di darmi una lavata ai capelli, mi rinfresco la faccia, le ascelle, e mi lavo il petto e il ventre, pieni di foglie, residui vegetali e terra.
Raccolgo il liquido vitale in una specie di anfora che compongo con grosse foglie di una pianta che trovo vicina. Sacrifico una delle pastiglie potabilizzanti e bevo.
Rumori indecifrabili animano questa foresta. Animali che non vedo, predatori che mi osservano, e poi 'loro', gli indigeni. Se mi aiutassero, almeno. Mi leverei prima dalla loro terra e toglierei il disturbo. In fondo qui ci sono venuta chiamata da gente che aveva bisogno e non per invadere il territorio altrui o infastidire chi vuole rimanere in disparte. Ma forse questo l'hanno capito, altrimenti sarei già stata ammazzata con frecce avvelenate.
Mi guardo in giro. Quest'acqua fresca è inusuale, qui, dove il flusso è calmo e l'acqua spesso è stagnante e tiepida. Da dove arriva questo piccolo corso d'acqua?
Risalgo in direzione opposta alla corrente e presto arrivo a un tratto roccioso e rilevato. Strano. Non me lo sarei mai aspettato un rilievo in questa monotona piattezza. Una specie di collinetta calcarea da cui sgorga questo piccolo ruscello fresco. Il posto è buono per cercare un rifugio per la notte, visto che sembra ormai pomeriggio inoltrato. Forse tra le rocce riuscirò a trovare qualche anfratto o una piccola grotta in cui rifugiarmi, sempre che non ci trovi serpenti e scorpioni. Arrampicata sugli alberi non ho quasi dormito, per paura di cadere o di essere attaccata da qualche felino, e ho bisogno di dormire.
Salgo qualche decina di metri e già mi trovo poco oltre il limite delle chiome frondose, in terreno più asciutto. Da questo posto riesco a dominare uno spazio più ampio, rendendo meno precaria la mia situazione, del tutto esposta all'attacco di qualunque animale. Non mi illudo, però, di sentirmi al sicuro qui. Chiunque potrebbe senza difficoltà aggredirmi eludendo facilmente ogni mio tipo di sorveglianza. Soprattutto gli indigeni.
Consumo una frugale cena a base di frutta. Abacate, maracuja, papaie e goiaba non mancano e sono facilmente riconoscibili anche per me, che non sono del posto. Bevo questa acqua relativamente più pulita del solito ed esploro l'ambiente circostante.
Più sopra sembra di scorgere una rientranza sotto una paretina di roccia. Salgo attaccandomi a corti arbusti e quando arrivo più in alto rimango colpita di fronte ad alcuni rametti piegati. Qualche animale è passato di qui. Poco oltre la roccia si ripiega in una profonda rientranza che sembra dare adito a una piccola grotta. L'entrata è stretta e questo mi garantisce che, all'interno, non dovrebbero riuscire a entrare grossi predatori.
Sondo l'ingresso con un bastone per stanare eventuali serpenti e quando sono abbastanza sicura mi inoltro nei primi metri.
Mi schiaccio al suolo e striscio su terriccio fangoso. Il seno mi impedisce la progressione; una di quelle rare occasioni in cui vorrei essere piatta, ma riesco a passare.
Una fresca corrente in uscita mi conferma la natura carsica della cavità e un possibile secondo ingresso più in alto, ma a me basta trovare un ricovero per la notte in cui riposare.
Cerco di abituare la vista al buio nel nuovo ambiente in cui mi spingo, poco oltre l'ingresso, e mi fermo ad ascoltare il silenzio. Nessun suono altera una quiete rassicurante e sembra che il mondo esterno, agitato dai richiami di uccelli variopinti e chiassosi, sia lontano e in un'altra realtà.
Quando mi sento al sicuro, ritorno all'esterno e trasporto la mia riserva di frutta nel mio nuovo nido.
Mi metto comoda dentro al mio tiepido giaciglio osservando la luce esterna che lentamente si abbandona al vespro e mi sbuccio una papaia, tastando il terreno intorno a me, sempre alla ricerca di scomodi coinquilini.
Penso alle vicende degli ultimi giorni, ai miei compagni di spedizione di cui non so più nulla, e al mio incerto futuro mentre cerco di seguire il braccio del fiume Paranà do Urarià per tentare di raggiungere la strada che mi porterà a Nova Olinda do Norte, centro abitato in cui essere soccorsa e rimandata in patria.
Mentre sono assorta in questi pensieri avverto un minio rumore alle mie spalle. Mi irrigidisco trattenendo il respiro, ma una massa mi si avventa addosso e presto sono in preda a qualcosa che mi stringe la gola e mi serra i fianchi. Il mio urlo di paura mi si gela in gola e la mia voce, strozzata da questa presa d'acciaio, produce solo un rantolo.
Resto bloccata a terra, ma sotto le spalle sento un corpo caldo.
Non avverto dolore, non un colpo d'artiglio, non le punte affilati di denti, ma un bisbiglio incomprensibile, una voce sicuramente umana che pronuncia suoni di cui non riesco minimamente a decifrare un significato.
Potrei ora aspettarmi una pugnalata, o di venire strozzata, ma non succede nulla.
Sono entrata senza saperlo non nella tana di un animale selvatico, ma nel nascondiglio di un essere umano.
Resto ammutolita e immobile mentre quella voce continua a bisbigliare parole che non comprendo.
E intanto sento una mano che esplora il mio corpo, che dal fianchi mi scivola sul ventre, risale sul mio petto fino ad arrestarsi di colpo appena incontra il mio seno.
La voce riprende, con un tono più concitato. Quella mano mi tocca il seno, lo prende in mano, lo tasta e lo studia e la voce continua a parlare senza che io capisca alcunchè.
Sulla spalla nuda sento qualcosa di soffice, forse capelli lunghi di un volto che non riesco a scorgere, e poi la mano ritorna decisa sul mio ventre, lo supera e affonda verso le cosce, mi scivola sui peli e mi finisce direttamente sulla vulva, tasta, affonda per un attimo, poi si arresta mentre una franca esclamazione rompe il silenzio.
Dopo molto tempo in cui mi ero estraniata dalla mia natura, mi ritorna in mente proprio adesso di essere una donna, nuda e sola, in un continente lontano, una foresta sconosciuta, in preda a un altro essere umano che potrebbe fare di me qualunque cosa e sottopormi a qualunque tortura, sevizia o anche abuso sessuale.
Chiusa in una grotta nessuno mi ritroverebbe anche se dovessi venire ammazzata.
Sento la presa allentarsi dalla mia gola, ma resto immobile. Il cuore batte fortissimo, ma riesco a trovare quel minimo di lucidità per analizzare razionalmente la mia situazione.
Non sono stata azzannata né accoltellata, la mano ha allentato la presa sul collo e quell'altra che ha indagato sulla forma del mio corpo non mi lasciava intendere propositi sessuali, ma piuttosto esplorativi.
La voce riprende a parlare, un suono più distinto. Una voce giovane, forse un ragazzo.
Le braccia che mi bloccavano lasciano libero il mio corpo e io rialzo il busto, discostandomi da quel corpo più freddo che mi cingeva. Mi giro lentamente a osservare colui che mi ha attaccata, ora che mi è data libertà di farlo.
Con la vista abituata all'oscurità scorgo le braccia che si allargano lasciandomi libera e mi volto.
Una donna!
Quella mi guarda in faccia e comincia un discorso incomprensibile e interminabile, di cui non capisco nulla. Ogni tanto agita le braccia e mi indica il seno.
Io la guardo senza fiatare.
Quando sembra che abbia completato il suo sproloquio azzardo una frase io.
“Eu sou Yuko” pronuncio nel mio stentato portoghese, e allungo la mano destra.
Ma quella si ritrae spaventata e mi allontana la mano tesa con uno schiaffone, poi si ritira più indietro, nell'oscurità.
“Ahi!” faccio io e rimango a guardarla mentre mi tengo la mano dolorante al seno, nell'altra mano.
Quella mi fissa e non pronuncia più nulla.
Nell'oscurità scorgo solo i suoi occhi e tratti del suo volto, dipinto di scuri tatuaggi. Il suo corpo di giovane donna si delinea in pochi elementi che emergono dal buio della grotta, con i vaghi riflessi della poca luce. Un seno piccolo su un corpo nudo, ricoperto di neri dipinti.
Lei mi fissa e si tiene al riparo e capisco che questa ragazza è impaurita almeno quanto me.
Sono entrata nel suo nascondiglio e non mi ha ferita né allontanata, e questo è molto insolito.
Mi ha liberata dalla sua stretta mentre avrebbe potuto uccidermi facilmente, esponendosi invece alla mia reazione.
È una ragazza spaventata e bisognosa di qualcosa e io sono una donna in condizioni di bisogno anche più grandi.
Che cosa avrà spinto questa giovane a cercare un riparo nascosto? Forse è ricercata da altre tribù? Perchè la sua gente non l'ha riportata al suo villaggio?
Quesiti che non avranno soluzioni. Io e lei non riusciamo a capirci affatto e ora che la tenebra sfuma le ultime luci e i nostri contorni diventano incerti, dovremo rimandare ogni tentativo di spiegazione a domani, quando, con la luce, sarà forse possibile capire qualcosa di più.
Sta di fatto che io sono ancora qui e che lei non mi ha cacciata dalla sua tana, buttandomi fuori nella giungla in piena notte, dove diventerei facile preda di animali selvatici.
La vedo che trema dal posto in cui si è infilata.
Le tendo le braccia e sorrido. “Dai, vieni, non aver paura.” Pronuncio, convinta che almeno il tono di voce possa convincerla. Lei mi scruta e non si muove, ma almeno non allontana le braccia che le tendo. Non si fida e posso capirla. Potrei essere chiunque, forse anche uno dei nemici che la stanno cercando. Ma no, penso subito. Si sarà subito accorta che non sono un'amazzone. La mia pelle chiara, il mio modo di parlare, l'assenza dei tatuaggi, così diffusi tra le popolazioni autoctone, avranno sicuramente tradito la mia origine straniera.
Eppure ora siamo solo due donne, nude, impaurite, entrambe bisognose, nella notte tropicale di una natura che può diventare estremamente ostile.
In qualche modo forse possiamo anche aiutarci e sostenerci e già il fatto di non essere più sola, ma in compagnia di una abitante del posto, che è nata, vive e conosce questa regione, mi rassicura e mi dà fiducia. Dopo la paura iniziale mi ha accolto senza ostilità e sembra accettare la mia presenza manifestandomi implicitamente un bisogno inespresso.
Intanto questa grotta, vista la sua presenza, non sarà popolata di animali pericolosi, e sicuramente potrei avere grande vantaggio dal suo aiuto.
“Vieni, mi vedi, sono una donna come te, indifesa e disarmata.” Le dico ancora cercando di essere dolce e convincente. Lei tace e mi osserva.
“Una donna.” Ripeto e mi prendo i seni nelle mani per farle capire che siamo simili.
La situazione sembra essersi ribaltata: mentre prima ero io a essere in suo potere, minacciata dalla sua stretta alla gola, ora sembra che sia lei a essere impaurita, mentre cerco di convincerla a fidarsi di me e a entrare nuovamente in contatto, ma in modo più amichevole.
Lei ripete il mio gesto, si mette le mani sul petto e si guarda i seni rivolgendo poi di nuovo il suo sguardo su di me.
Senza rendermi conto ho forse ripetuto un gesto dal significato universale, in grado di essere trasmesso attraverso culture distanti nel tempo e nello spazio.
Il seno, il simbolo più evidente e tangibile del nostro essere donne, l'organo dell'allattamento, la parte destinata a garantire la prima sopravvivenza alle creature che possiamo generare.
Il simbolo della maternità, senza aggressività né significati ostili.
Lei mi si avvicina e noto che sta tremando, di freddo e forse di paura.
Le allungo ancora le mani e lei me le tocca.
Ora posso accorgermi di quanto sia fredda la sua pelle. Ci prendiamo per le dita; io le sorrido e lei mi guarda ancora con sospetto, ma si avvicina, avanza carponi, finchè non ci troviamo una di fianco all'altra. Ci fissiamo negli occhi, poi, quasi senza accorgermene, vinta da un istinto primordiale, allungo le braccia e la avvolgo nel mio calore.
Lei sembra mutare espressione, rilassando lo sguardo che era affilato e teso e assumendo un'espressione più mite. Mi si avvicina e io l'abbraccio completamente, finchè il suo corpo aderisce al mio e il suo volto si posa sul mio seno. Me la cingo vicina, avvolgendola stretta tra le mie braccia, percependo i suoi tremori, e cerco di scaldarla col mio corpo. Lei si rilassa completamente e volge lo sguardo all'esterno del nostro riparo, iniziando a pronunciare frasi dal significato completamente intellegibile, ma poco conta. Siamo vicine, non abbiamo più alcuna ostilità.
Non ha senso parlare o cercare di spiegarsi e quando io accenno a sdraiarci lei mi asseconda.
A contatto col mio corpo sembra soffrire meno il freddo e io mi chiedo come possa un'indigena di queste foreste trovarsi così sola, infreddolita, abbandonata e nascosta nella notte tropicale.
Ci sdraiamo sempre mantenendo in contatto i nostri corpi, e così, riscaldandoci a vicenda e rassicurandoci con le poche parole che scambiamo in idiomi del tutto incongruenti, ci addormentiamo nel buio della grotta.

- Continua
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2022-12-21
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