Portraits - Una lunga esposizione | 5/5
di
Jan Zarik
genere
voyeur
Ero ancora in preda allo shock. Mi feci offrire una sigaretta da uno degli invitati e la fumai in disparte. Non fumavo da anni, ma quella sera ero troppo rimbambita e dovevo un attimo schiarirmi le idee. La testa girava vorticosa, i pensieri si affollavano e io mi sentivo una ripudiata e inerme pedina senza potere alcuno. I fumi dell’alcol erano ancora vivi, per cui me ne fregai totalmente e continuai a bere spumante. Massimo mi guardava perplesso da lontano. Di sicuro, avrebbe voluto farmi una ramanzina ma era troppo occupato a mantenere fissa la sua postazione e non fare altre cazzate che lo mettessero a disagio con l’avvocato. Io, invece, avevo deciso di perdere qualsiasi reputazione. Seguii con lo sguardo il ragazzo. Era bello, quello stronzo maledetto e incestuoso. Sembrava sereno. Non poteva sospettare che c’era qualcuno a conoscenza del suo inconfessabile segreto.
Quando lo vidi allontanarsi dalla sala, abbandonai la reflex su un tavolo e gli corsi appresso. Ormai ero diventata esperta nel pedinare, lo vidi dirigersi verso l’interno della sala, in corrispondenza delle toilette. La villa al suo interno era vuota. Tutti stavano sul cortile esterno, data la piacevole serata. Eravamo solo io e lui. Lo vidi entrare nella toilette dei maschi. Dopo qualche secondo di indecisione, agii.
Accostai la porta dell’anticamera, silenziosa. Scrutai le scarpe nere lucide da sotto le pareti dei box divisori. Stava pisciando. Rimasi lì, ad attendere che finisse. Il suono dello scroscio del water mi annunciò che sarebbe uscito a momenti. Non sapevo cosa dirgli. Ero lì, mezza ubriaca, confusa e adirata. Dovevo improvvisare.
Non appena il ragazzo uscì dal cesso, incrociò il mio sguardo e trasalì. «Oddio, scusami. Avrò mica sbagliato bagno?» chiese.
Io lo fissai, con lo sguardo pietrificato. Lui ricambiava il mio sguardo. Era bellissimo. «Tutto bene?» domandò incerto.
Rimasi in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. Il ragazzo rimasto un po’ interdetto fece per uscire timidamente dalla toilette, lasciandomi lì impalata come una demente. Quasi come se qualcun altro si fosse impossessato del mio corpo, lo toccai sulla spalla. Il ragazzo si bloccò. Ci guardammo intensamente negli occhi. Capii che il modo in cui mi stava fissando era improvvisamente cambiato. «Volevi dirmi qualcosa?» disse, con fare spavaldo. Io rimasi in silenzio e mi avvicinai al suo viso. Lo guardai ardentemente e approcciai la mia bocca alla sua.
In quel momento, non ero soltanto invidiosa di lui. Mi stavo letteralmente sostituendo a Cristina. Pensavo al loro amore proibito e maledetto e ne volevo assaporare ogni aspetto. Ero ubriaca ma anche fortemente lucida, determinata.
Quando si effettua uno scatto a lunga esposizione, ciò che risulta è l’ingresso di molta più luce di quanto ce ne sia normalmente. Questa tecnica è ottima per gli scatti al buio. Tuttavia, se si eccede, le foto appaiono distorte, troppo infarcite di luce. Le ombre si appiattiscono e si annullano. Ebbene, io in quel momento ero una carta pellicola bruciata dal troppo sole. Troppo eccitata per rendermi conto di quanto fuoco ci fosse intorno a me. Lo baciai con intensità. Lui era lì, immobile, che accettava il mio audace approccio. Ricambiò con foga il bacio, invitando la mia lingua a unirsi alla sua. Gli palpai il cavallo. Riconobbi la rotondità del suo glande toccandolo con mano, era esattamente come me lo ricordavo, coi bordi spessi e ben rappresentati. Gli slacciai velocemente i pantaloni. Lui, nel frattempo, si guardò intorno, vagamente preoccupato. Eravamo pur sempre nell’anticamera dei bagni. Sarebbe potuto entrare qualcuno in qualsiasi momento. Indossava nuovamente quel tipo di mutande da nonno. Porca puttana, perché mi eccitavano così tanto? Le tirai giù verso il basso facendo svettare il suo uccello davanti la mia faccia. Quella mossa lo impressionò un po’, perché lo sentii mormorare tra sé e sé “Ehi, piano così!”, nonostante sembrasse piuttosto divertito. In effetti, per lui sarà stato un siparietto memorabile! Essere approcciati da una sconosciuta, nei bagni, in modo del tutto gratuito.
Non sapeva nulla di me, mentre io sapevo tutto di lui. Passai una lingua lungo tutta l’asta, chiudendo gli occhi. Quel suo bel pene sembrava ancora intriso degli umori di Cristina. La cosa avrebbe dovuto disgustarmi ma non riuscivo a smettere di farlo. Volevo ingoiare ciò che aveva ingoiato lei. Volevo possedere ciò che aveva posseduto Cristina. Volevo godere di ciò che avevo sempre sognato di godere. Il ragazzo accompagnava i movimenti della mia testa con la mano, carezzandomi i capelli. «Così, brava.» disse.
Un po’ mi infastidì quel suo atteggiamento da pallone gonfiato. Non ero brava per niente, coglioncello sbarbato! Semmai ero una troia, lurida, peccatrice, criminale, sottomessa e vendicativa. Presi a menarlo con più forza. Oltre alla eccitazione, si stava aggiungendo la rabbia. Gli sputai sulla punta e ripresi a masturbarlo. «Oddio!» disse lui, ormai totalmente abbandonato al piacere. «Ti piace?» dissi io, con la voce più ignobile che potessi avere. «Si, tanto! Non ti fermare.» disse lui, tremando.
«Vorresti scoparmi?» dissi io, indecisa se apparire implorante o minacciosa.
«Oh sì, vorrei scoparti.» ripeteva come un ebete il giovine. Faceva quasi sorridere per quella sua ingenuità. Sapevo che avrei dovuto dirigere io quel concerto.
«Vorresti scoparmi qui, o preferisci sul prato?» dissi io, ormai senza più alcun pudore.
«Sul prato. Oh, sì. Facciamolo sul prato.» diceva lui, sempre più rapito dai miei movimenti di polso.
«Vorresti penetrarmi, farmi godere in mezzo ai campi fino a venire con me, urlando di piacere?» insistevo io, mentre nella mia testa apparivano solo immagini bucoliche.
«Oh, si. Ti prego, facciamolo!» diceva lui, meccanicamente. Sentivo la sua turgidità farsi granitica.
«Vorresti venire per me, fare tutto quello che ti chiedo?» dicevo subdolamente, mentre imperterrita continuavo a segare il bell'uccelletto inesperto. Nella mia mente, ancora l’immagine della schiena nuda della donna dalla pelle diafana e i capelli neri.
«Sei la mia padrona!» diceva, quasi con tono innocente, quel bel ragazzo tutto uccello, cercando di apparire più adulto di quello che era.
«No. Sono la tua matrigna.» Dissi io, a un certo punto.
Francesco emise un gemito strano, prima di eiaculare. Qualche schizzo mi piombò sul volto. Fu come se un proiettile mi avesse preso di striscio. Per un attimo, riecheggiò nella mia testa il ricordo del boato della scacciacani in campagna. «Cosa cazzo…?» urlò dunque il ragazzo, divincolandosi dalla mia presa. Rimasi in ginocchio, calma, mentre con la mano ripulivo la guancia sinistra. «Che cazzo hai detto?» disse lui, tra la paura e lo sconcerto. Devo ammettere che non avevo mai visto un uomo essere così spaventato dopo una sborrata. Mi dava una sensazione di potere infinito. Rimasi composta, genuflessa, mentre lo guardavo riabbottonarsi malamente i pantaloni, sporchi di sperma.
«So che ti piace giocare in questo modo.» dissi io, provocatoria. «Chi cazzo sei?» urlò lui.
«Conosco la verità. Vi ho visti, tu e Cristina, nei campi, circa un mese fa. Una Alfa romeo verde scuro. Devo dire altro?» fu la mia atroce rivelazione, la più liberatoria.
«Cazzate.» provò a difendersi. «Ho le prove.» ribadii io. «Mostramele.» disse lui.
«Dovrai fidarti della mia parola. Ti assicuro che so di che parlo. Faccio questo mestiere, se hai notato.» replicai io, mostrando la custodia della fotocamera ancora attaccata alla cintura.
«Cosa vuoi?» disse, tagliando corto.
«Duecentomila.» dissi io, sparando la prima cifra che mi veniva in mente.
«Cosa? Sei pazza?» rispose lui.
«Probabilmente. Tuttavia, le cose stanno così adesso.»
Il ragazzo si mise le mani ai capelli. «Puttana!» mi urlò in faccia.
Era così, forse? Ero stata troppo crudele, con lui? La mia vendetta era stata raggiunta? Ero egoista? Ero puttana? Non conoscevo più nulla, né di me stessa, né del resto del mondo.
Mentre quel dialogo surreale stava avvenendo all’interno di un bagno della sala ricevimenti, all’esterno si iniziò a sentire un forte mormorio e alcune sirene. Ci insospettimmo entrambi e uscimmo fuori di corsa. C’erano almeno tre-quattro volanti della polizia e una decina di agenti.
L’avvocato Mazzanti era su tutte le furie. «Cosa credete di fare? Chi ha disposto l’ordinanza? Spiegatemi, per Dio!» urlava, davanti gli invitati sconvolti. Io e il giovane rampollo eravamo sbigottiti e guardavamo quella scena in silenzio. Cristina portò la mano alla bocca, apparentemente incredula.
Era bravissima a fingere sgomento. Tuttavia, quando ci vide insieme, me e il figliastro, il suo volto piombò in un tetro sguardo di stupore. Aveva capito tutto al volo, notando le nostre facce sconvolte. Il ragazzo allora corse via, allontanandosi da me. Nel frattempo, l’avvocato fu preso in custodia dagli agenti e portato via. Urlava e sbraitava, dichiarando che si trattava di un grosso errore.
A un certo punto, tutti si dileguarono. Ci fu il panico generale. Massimo, vistosamente bianco in volto e ansimante, prese il mio braccio e mi disse «Andiamocene via, di corsa.»
Questa storia avrebbe dovuto certamente concludersi con un finale diverso. Un finale in cui la mia musa ispiratrice, quella stupenda donna dalla pelle diafana, gli occhi verdi come smeraldo e la lunga ed elegante chioma liscia, avrebbe potuto vivere libera da un matrimonio che era solo di facciata, libera di dedicarsi all’amore in tutte le sue forme. Un finale in cui io, ai tempi giovane fotografa alle prime esperienze, esploravo la mia intimità e scoprivo la profonda connessione con le altre persone.
Invece, tutto finì nel peggiore dei modi possibili. L’avvocato, tradito da una busta anonima, fu arrestato per corruzione. Il suo conto venne bloccato e seguirono settimane, mesi di accuse, gossip e altro ancora. Il mio blando tentativo di estorsione rimase solo uno spauracchio. Non avevo più intenzione di infierire su quella famiglia disgraziata. Sebbene Cristina volesse distruggere il marito, aveva anche il timore che io la potessi sputtanare per il suo affaire col figliastro, per cui si guardò bene dall’avanzare alcuna ritorsione nei miei riguardi.
Io avevo perso qualsiasi motivazione. Ero schifata da quell’ambiente e da come mi aveva fatto diventare. Ero arrivata allo scambio di persona, all’estorcere denaro per vendetta personale. Sapevo che avrei dovuto cambiare aria. Cambiare città. Cambiare lavoro.
La TV mi faceva compagnia, una sera, insieme al vino. “Dopo lo scandalo Mazzanti e le accuse di corruzione e depistaggio, adesso il processo nei confronti di L. F., sospettato dell’omicidio del vicino di casa nei terreni di proprietà della vittima, subirà una forte battuta d’arresto, anche per via dell’insufficienza di prove. In assenza dell’avvocato dell’accusa, il processo verrà nuovamente istruito.”
Passavo delle giornate orribili, a rivedere le foto che avevo scattato il pomeriggio del photo-book. Sarei voluta ritornare a quegli attimi di intimità, rubati e nascosti. Sarei voluta ritornare anche nei campi sperduti, dove quella coppia di sconosciuti amoreggiava in piena libertà. Riguardavo spesso quelle foto, perché erano davvero belle, le migliori che avessi fatto.
C’era tutto. L’oscenità aggraziata di due corpi avvinghiati. L’intensità del verde tutto intorno. La bellezza del desiderio in tutta la sua potente rivelazione.
Guardando meglio, mi accorsi di alcuni dettagli che prima non avevo colto. Realizzai soltanto in quel momento che quei campi erano molto vicini ai terreni di cui si parlava nelle cronache, quelli in cui era avvenuto l’omicidio.
Ero dubbiosa. Continuai a fissare le fotografie. Alcune imperfezioni nell’immagine mi fecero pensare a delle macchie di luce. Tuttavia, c’era anche altro. Mi venne in mente il colpo di pistola che ci aveva fatto scappare. Presa dall’ansia e dal bisogno di capire per bene, mi diressi di nuovo in camera oscura ed effettuai altre stampe. Avevo conservato i negativi gelosamente nel mio archivio. Ingrandii un settore ben specifico di una delle fotografie di quel pomeriggio.
Aggiustare i contrasti non fu per niente facile. Passai una sera intera a fare quel lavoro.
Una volta ottenuto il risultato finale, non c’erano più dubbi. Eppure, era impossibile che stessi davvero assistendo a tutto quello. Dapprima presi il telefono e feci una rapida chiamata, poi presi due foto e le inserii in una busta. Infilai la busta in borsa e uscii di casa. Era ormai sera. La bottega era chiusa ma sapevo che avrei trovato Massimo lì, perché stava sempre lì fino a tardi. Solo lui avrebbe potuto aiutarmi a chiarire.
Rimasi con il pollice attaccato al campanello per quasi due minuti. Dopodiché, la porta si aprì.
«Che ci fai, qui?» chiese Massimo.
Rimanendo in silenzio, entrai nella bottega. Massimo mi seguiva con lo sguardo. A quel punto, tirai fuori la busta e gli mostrai le foto. Massimo rimase in silenzio.
«Questi sono la moglie e il figlio di Mazzanti. Insieme, mentre scopano sull’erba.» dissi, perentoria.
Massimo non commentava. Si limitò a stare con gli occhi fissi sulla carta. «L’altra foto, invece, è un ingrandimento della prima. Sapresti spiegarmi?» chiesi io.
Massimo non rispose. «Quello sei tu, non è vero? Perché eri lì?» continuai io, cercando di convincerlo a parlare.
«Stavo lavorando.» rispose infine lui, con voce grave.
«Quindi pedinavi già sua moglie. Sapevi già tutto!» dissi io, rabbiosa.
«No. Non c’entra niente.» replicò lui, sommessamente.
«C’entri qualcosa con l’uomo ammazzato.» Incalzai io. Non era una domanda, bensì una affermazione. «Hai ucciso tu quell’uomo nei campi?» aggiunsi, indicando la foto con l’ingrandimento in cui si vedeva distintamente un uomo di spalle, la vittima, e un uomo di fronte a lui, proprio Massimo, intenti a discutere molti metri più indietro rispetto a dove si trovavano i due amanti.
«Fui obbligato. Facevo lavoretti qua e là. Un giorno mi chiedevano di andare a consegnare i soldi a qualcuno, un altro giorno mi mandavano a ritirare soldi da qualcun altro. Quella volta ci fu un battibecco. La persona in questione si rifiutò di pagare. Dovetti farlo, Raccontai tutto ai signori che mi avevano ingaggiato. Mi dissero che avrebbero coperto tutto. Incastrarono quindi un povero disgraziato che aveva il terreno adiacente e avrebbero concluso l’opera con l’aiuto di Mazzanti, un avvocatuccio corrotto spesso inserito nei loro libri contabili.»
«Perché Mazzanti voleva far pedinare la moglie?»
«Te lo ripeto: Non è stata una idea di Mazzanti.»
«Come?»
«Sono stato io a convincerti di farlo. Il giorno in cui Mazzanti è venuto al negozio era solo per discutere di alcune faccende del processo. Siccome io avevo visto la moglie e il figlio scappare a gambe levate, semi-nudi, da quella scena, volevo crearmi una sorta di “assicurazione” nel caso in cui Mazzanti non gli venisse di fare il furbo, così da poterlo ricattare.»
«Perché non l’hai fatto da solo? Perché coinvolgermi?»
«Perché avevo paura di espormi. Perché pensavo saresti stata più brava di me. Perché sapevo che i soldi potevano farti comodo.»
Le lunghe esposizioni, come ho sempre pensato, sconvolgono ogni cosa. Vale per le fotografie, vale per la vita criminale, vale per l’amore. Mentre Massimo concludeva la sua confessione, da lontano arrivavano i suoni di alcune sirene della polizia.
«Li hai chiamati tu?» chiese lui, afflitto ma con tono calmo.
«Dovevo.» dissi io, cercando di trattenere le lacrime.
«Hai fatto bene. Così, almeno posso andare in pensione. Sono davvero stanco.»
Mi dileguai dalla porta sul retro prima che arrivassero i poliziotti. Iniziai a correre a perdifiato, senza mai più voltarmi indietro.
Fine.
[Nota dell’Autore: Per quanto riguarda le foto che Paola mi aveva inviato, ce ne erano alcune che, nella loro ordinarietà, sembravano preziose e misteriose più di altre. C’era un sottotesto che mi risultava inafferrabile e che solo dopo che ho ricevuto il manoscritto ho potuto comprendere nella sua interezza. Come foto erotica, avevo scelto la foto di una donna in bianco e nero, seduta di spalle. Soltanto dopo capii che era una foto del book di Cristina, quella più emblematica, quella più carica di desiderio, quella che anche Paola considerava come la sua preferita. Come foto triste, scelsi la foto di una famiglia in apparente gioia, davanti a una torta di compleanno. I visi delle tre persone mi sembravano invece totalmente finti, pilotati, malcelanti un disagio che traspariva dalla pellicola in tutta la loro essenza. Infine, come foto rasserenante scelsi uno scatto, al tramonto, senza nessuno intorno, da dentro una boscaglia. Dopo, mi resi conto che quella foto era stata scattata da Paola dopo essersi nascosta, essere svenuta per il potente orgasmo e infine essersi risvegliata nel silenzio più totale.]
djhop3128@hnbjm.dpn
Quando lo vidi allontanarsi dalla sala, abbandonai la reflex su un tavolo e gli corsi appresso. Ormai ero diventata esperta nel pedinare, lo vidi dirigersi verso l’interno della sala, in corrispondenza delle toilette. La villa al suo interno era vuota. Tutti stavano sul cortile esterno, data la piacevole serata. Eravamo solo io e lui. Lo vidi entrare nella toilette dei maschi. Dopo qualche secondo di indecisione, agii.
Accostai la porta dell’anticamera, silenziosa. Scrutai le scarpe nere lucide da sotto le pareti dei box divisori. Stava pisciando. Rimasi lì, ad attendere che finisse. Il suono dello scroscio del water mi annunciò che sarebbe uscito a momenti. Non sapevo cosa dirgli. Ero lì, mezza ubriaca, confusa e adirata. Dovevo improvvisare.
Non appena il ragazzo uscì dal cesso, incrociò il mio sguardo e trasalì. «Oddio, scusami. Avrò mica sbagliato bagno?» chiese.
Io lo fissai, con lo sguardo pietrificato. Lui ricambiava il mio sguardo. Era bellissimo. «Tutto bene?» domandò incerto.
Rimasi in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. Il ragazzo rimasto un po’ interdetto fece per uscire timidamente dalla toilette, lasciandomi lì impalata come una demente. Quasi come se qualcun altro si fosse impossessato del mio corpo, lo toccai sulla spalla. Il ragazzo si bloccò. Ci guardammo intensamente negli occhi. Capii che il modo in cui mi stava fissando era improvvisamente cambiato. «Volevi dirmi qualcosa?» disse, con fare spavaldo. Io rimasi in silenzio e mi avvicinai al suo viso. Lo guardai ardentemente e approcciai la mia bocca alla sua.
In quel momento, non ero soltanto invidiosa di lui. Mi stavo letteralmente sostituendo a Cristina. Pensavo al loro amore proibito e maledetto e ne volevo assaporare ogni aspetto. Ero ubriaca ma anche fortemente lucida, determinata.
Quando si effettua uno scatto a lunga esposizione, ciò che risulta è l’ingresso di molta più luce di quanto ce ne sia normalmente. Questa tecnica è ottima per gli scatti al buio. Tuttavia, se si eccede, le foto appaiono distorte, troppo infarcite di luce. Le ombre si appiattiscono e si annullano. Ebbene, io in quel momento ero una carta pellicola bruciata dal troppo sole. Troppo eccitata per rendermi conto di quanto fuoco ci fosse intorno a me. Lo baciai con intensità. Lui era lì, immobile, che accettava il mio audace approccio. Ricambiò con foga il bacio, invitando la mia lingua a unirsi alla sua. Gli palpai il cavallo. Riconobbi la rotondità del suo glande toccandolo con mano, era esattamente come me lo ricordavo, coi bordi spessi e ben rappresentati. Gli slacciai velocemente i pantaloni. Lui, nel frattempo, si guardò intorno, vagamente preoccupato. Eravamo pur sempre nell’anticamera dei bagni. Sarebbe potuto entrare qualcuno in qualsiasi momento. Indossava nuovamente quel tipo di mutande da nonno. Porca puttana, perché mi eccitavano così tanto? Le tirai giù verso il basso facendo svettare il suo uccello davanti la mia faccia. Quella mossa lo impressionò un po’, perché lo sentii mormorare tra sé e sé “Ehi, piano così!”, nonostante sembrasse piuttosto divertito. In effetti, per lui sarà stato un siparietto memorabile! Essere approcciati da una sconosciuta, nei bagni, in modo del tutto gratuito.
Non sapeva nulla di me, mentre io sapevo tutto di lui. Passai una lingua lungo tutta l’asta, chiudendo gli occhi. Quel suo bel pene sembrava ancora intriso degli umori di Cristina. La cosa avrebbe dovuto disgustarmi ma non riuscivo a smettere di farlo. Volevo ingoiare ciò che aveva ingoiato lei. Volevo possedere ciò che aveva posseduto Cristina. Volevo godere di ciò che avevo sempre sognato di godere. Il ragazzo accompagnava i movimenti della mia testa con la mano, carezzandomi i capelli. «Così, brava.» disse.
Un po’ mi infastidì quel suo atteggiamento da pallone gonfiato. Non ero brava per niente, coglioncello sbarbato! Semmai ero una troia, lurida, peccatrice, criminale, sottomessa e vendicativa. Presi a menarlo con più forza. Oltre alla eccitazione, si stava aggiungendo la rabbia. Gli sputai sulla punta e ripresi a masturbarlo. «Oddio!» disse lui, ormai totalmente abbandonato al piacere. «Ti piace?» dissi io, con la voce più ignobile che potessi avere. «Si, tanto! Non ti fermare.» disse lui, tremando.
«Vorresti scoparmi?» dissi io, indecisa se apparire implorante o minacciosa.
«Oh sì, vorrei scoparti.» ripeteva come un ebete il giovine. Faceva quasi sorridere per quella sua ingenuità. Sapevo che avrei dovuto dirigere io quel concerto.
«Vorresti scoparmi qui, o preferisci sul prato?» dissi io, ormai senza più alcun pudore.
«Sul prato. Oh, sì. Facciamolo sul prato.» diceva lui, sempre più rapito dai miei movimenti di polso.
«Vorresti penetrarmi, farmi godere in mezzo ai campi fino a venire con me, urlando di piacere?» insistevo io, mentre nella mia testa apparivano solo immagini bucoliche.
«Oh, si. Ti prego, facciamolo!» diceva lui, meccanicamente. Sentivo la sua turgidità farsi granitica.
«Vorresti venire per me, fare tutto quello che ti chiedo?» dicevo subdolamente, mentre imperterrita continuavo a segare il bell'uccelletto inesperto. Nella mia mente, ancora l’immagine della schiena nuda della donna dalla pelle diafana e i capelli neri.
«Sei la mia padrona!» diceva, quasi con tono innocente, quel bel ragazzo tutto uccello, cercando di apparire più adulto di quello che era.
«No. Sono la tua matrigna.» Dissi io, a un certo punto.
Francesco emise un gemito strano, prima di eiaculare. Qualche schizzo mi piombò sul volto. Fu come se un proiettile mi avesse preso di striscio. Per un attimo, riecheggiò nella mia testa il ricordo del boato della scacciacani in campagna. «Cosa cazzo…?» urlò dunque il ragazzo, divincolandosi dalla mia presa. Rimasi in ginocchio, calma, mentre con la mano ripulivo la guancia sinistra. «Che cazzo hai detto?» disse lui, tra la paura e lo sconcerto. Devo ammettere che non avevo mai visto un uomo essere così spaventato dopo una sborrata. Mi dava una sensazione di potere infinito. Rimasi composta, genuflessa, mentre lo guardavo riabbottonarsi malamente i pantaloni, sporchi di sperma.
«So che ti piace giocare in questo modo.» dissi io, provocatoria. «Chi cazzo sei?» urlò lui.
«Conosco la verità. Vi ho visti, tu e Cristina, nei campi, circa un mese fa. Una Alfa romeo verde scuro. Devo dire altro?» fu la mia atroce rivelazione, la più liberatoria.
«Cazzate.» provò a difendersi. «Ho le prove.» ribadii io. «Mostramele.» disse lui.
«Dovrai fidarti della mia parola. Ti assicuro che so di che parlo. Faccio questo mestiere, se hai notato.» replicai io, mostrando la custodia della fotocamera ancora attaccata alla cintura.
«Cosa vuoi?» disse, tagliando corto.
«Duecentomila.» dissi io, sparando la prima cifra che mi veniva in mente.
«Cosa? Sei pazza?» rispose lui.
«Probabilmente. Tuttavia, le cose stanno così adesso.»
Il ragazzo si mise le mani ai capelli. «Puttana!» mi urlò in faccia.
Era così, forse? Ero stata troppo crudele, con lui? La mia vendetta era stata raggiunta? Ero egoista? Ero puttana? Non conoscevo più nulla, né di me stessa, né del resto del mondo.
Mentre quel dialogo surreale stava avvenendo all’interno di un bagno della sala ricevimenti, all’esterno si iniziò a sentire un forte mormorio e alcune sirene. Ci insospettimmo entrambi e uscimmo fuori di corsa. C’erano almeno tre-quattro volanti della polizia e una decina di agenti.
L’avvocato Mazzanti era su tutte le furie. «Cosa credete di fare? Chi ha disposto l’ordinanza? Spiegatemi, per Dio!» urlava, davanti gli invitati sconvolti. Io e il giovane rampollo eravamo sbigottiti e guardavamo quella scena in silenzio. Cristina portò la mano alla bocca, apparentemente incredula.
Era bravissima a fingere sgomento. Tuttavia, quando ci vide insieme, me e il figliastro, il suo volto piombò in un tetro sguardo di stupore. Aveva capito tutto al volo, notando le nostre facce sconvolte. Il ragazzo allora corse via, allontanandosi da me. Nel frattempo, l’avvocato fu preso in custodia dagli agenti e portato via. Urlava e sbraitava, dichiarando che si trattava di un grosso errore.
A un certo punto, tutti si dileguarono. Ci fu il panico generale. Massimo, vistosamente bianco in volto e ansimante, prese il mio braccio e mi disse «Andiamocene via, di corsa.»
Questa storia avrebbe dovuto certamente concludersi con un finale diverso. Un finale in cui la mia musa ispiratrice, quella stupenda donna dalla pelle diafana, gli occhi verdi come smeraldo e la lunga ed elegante chioma liscia, avrebbe potuto vivere libera da un matrimonio che era solo di facciata, libera di dedicarsi all’amore in tutte le sue forme. Un finale in cui io, ai tempi giovane fotografa alle prime esperienze, esploravo la mia intimità e scoprivo la profonda connessione con le altre persone.
Invece, tutto finì nel peggiore dei modi possibili. L’avvocato, tradito da una busta anonima, fu arrestato per corruzione. Il suo conto venne bloccato e seguirono settimane, mesi di accuse, gossip e altro ancora. Il mio blando tentativo di estorsione rimase solo uno spauracchio. Non avevo più intenzione di infierire su quella famiglia disgraziata. Sebbene Cristina volesse distruggere il marito, aveva anche il timore che io la potessi sputtanare per il suo affaire col figliastro, per cui si guardò bene dall’avanzare alcuna ritorsione nei miei riguardi.
Io avevo perso qualsiasi motivazione. Ero schifata da quell’ambiente e da come mi aveva fatto diventare. Ero arrivata allo scambio di persona, all’estorcere denaro per vendetta personale. Sapevo che avrei dovuto cambiare aria. Cambiare città. Cambiare lavoro.
La TV mi faceva compagnia, una sera, insieme al vino. “Dopo lo scandalo Mazzanti e le accuse di corruzione e depistaggio, adesso il processo nei confronti di L. F., sospettato dell’omicidio del vicino di casa nei terreni di proprietà della vittima, subirà una forte battuta d’arresto, anche per via dell’insufficienza di prove. In assenza dell’avvocato dell’accusa, il processo verrà nuovamente istruito.”
Passavo delle giornate orribili, a rivedere le foto che avevo scattato il pomeriggio del photo-book. Sarei voluta ritornare a quegli attimi di intimità, rubati e nascosti. Sarei voluta ritornare anche nei campi sperduti, dove quella coppia di sconosciuti amoreggiava in piena libertà. Riguardavo spesso quelle foto, perché erano davvero belle, le migliori che avessi fatto.
C’era tutto. L’oscenità aggraziata di due corpi avvinghiati. L’intensità del verde tutto intorno. La bellezza del desiderio in tutta la sua potente rivelazione.
Guardando meglio, mi accorsi di alcuni dettagli che prima non avevo colto. Realizzai soltanto in quel momento che quei campi erano molto vicini ai terreni di cui si parlava nelle cronache, quelli in cui era avvenuto l’omicidio.
Ero dubbiosa. Continuai a fissare le fotografie. Alcune imperfezioni nell’immagine mi fecero pensare a delle macchie di luce. Tuttavia, c’era anche altro. Mi venne in mente il colpo di pistola che ci aveva fatto scappare. Presa dall’ansia e dal bisogno di capire per bene, mi diressi di nuovo in camera oscura ed effettuai altre stampe. Avevo conservato i negativi gelosamente nel mio archivio. Ingrandii un settore ben specifico di una delle fotografie di quel pomeriggio.
Aggiustare i contrasti non fu per niente facile. Passai una sera intera a fare quel lavoro.
Una volta ottenuto il risultato finale, non c’erano più dubbi. Eppure, era impossibile che stessi davvero assistendo a tutto quello. Dapprima presi il telefono e feci una rapida chiamata, poi presi due foto e le inserii in una busta. Infilai la busta in borsa e uscii di casa. Era ormai sera. La bottega era chiusa ma sapevo che avrei trovato Massimo lì, perché stava sempre lì fino a tardi. Solo lui avrebbe potuto aiutarmi a chiarire.
Rimasi con il pollice attaccato al campanello per quasi due minuti. Dopodiché, la porta si aprì.
«Che ci fai, qui?» chiese Massimo.
Rimanendo in silenzio, entrai nella bottega. Massimo mi seguiva con lo sguardo. A quel punto, tirai fuori la busta e gli mostrai le foto. Massimo rimase in silenzio.
«Questi sono la moglie e il figlio di Mazzanti. Insieme, mentre scopano sull’erba.» dissi, perentoria.
Massimo non commentava. Si limitò a stare con gli occhi fissi sulla carta. «L’altra foto, invece, è un ingrandimento della prima. Sapresti spiegarmi?» chiesi io.
Massimo non rispose. «Quello sei tu, non è vero? Perché eri lì?» continuai io, cercando di convincerlo a parlare.
«Stavo lavorando.» rispose infine lui, con voce grave.
«Quindi pedinavi già sua moglie. Sapevi già tutto!» dissi io, rabbiosa.
«No. Non c’entra niente.» replicò lui, sommessamente.
«C’entri qualcosa con l’uomo ammazzato.» Incalzai io. Non era una domanda, bensì una affermazione. «Hai ucciso tu quell’uomo nei campi?» aggiunsi, indicando la foto con l’ingrandimento in cui si vedeva distintamente un uomo di spalle, la vittima, e un uomo di fronte a lui, proprio Massimo, intenti a discutere molti metri più indietro rispetto a dove si trovavano i due amanti.
«Fui obbligato. Facevo lavoretti qua e là. Un giorno mi chiedevano di andare a consegnare i soldi a qualcuno, un altro giorno mi mandavano a ritirare soldi da qualcun altro. Quella volta ci fu un battibecco. La persona in questione si rifiutò di pagare. Dovetti farlo, Raccontai tutto ai signori che mi avevano ingaggiato. Mi dissero che avrebbero coperto tutto. Incastrarono quindi un povero disgraziato che aveva il terreno adiacente e avrebbero concluso l’opera con l’aiuto di Mazzanti, un avvocatuccio corrotto spesso inserito nei loro libri contabili.»
«Perché Mazzanti voleva far pedinare la moglie?»
«Te lo ripeto: Non è stata una idea di Mazzanti.»
«Come?»
«Sono stato io a convincerti di farlo. Il giorno in cui Mazzanti è venuto al negozio era solo per discutere di alcune faccende del processo. Siccome io avevo visto la moglie e il figlio scappare a gambe levate, semi-nudi, da quella scena, volevo crearmi una sorta di “assicurazione” nel caso in cui Mazzanti non gli venisse di fare il furbo, così da poterlo ricattare.»
«Perché non l’hai fatto da solo? Perché coinvolgermi?»
«Perché avevo paura di espormi. Perché pensavo saresti stata più brava di me. Perché sapevo che i soldi potevano farti comodo.»
Le lunghe esposizioni, come ho sempre pensato, sconvolgono ogni cosa. Vale per le fotografie, vale per la vita criminale, vale per l’amore. Mentre Massimo concludeva la sua confessione, da lontano arrivavano i suoni di alcune sirene della polizia.
«Li hai chiamati tu?» chiese lui, afflitto ma con tono calmo.
«Dovevo.» dissi io, cercando di trattenere le lacrime.
«Hai fatto bene. Così, almeno posso andare in pensione. Sono davvero stanco.»
Mi dileguai dalla porta sul retro prima che arrivassero i poliziotti. Iniziai a correre a perdifiato, senza mai più voltarmi indietro.
Fine.
[Nota dell’Autore: Per quanto riguarda le foto che Paola mi aveva inviato, ce ne erano alcune che, nella loro ordinarietà, sembravano preziose e misteriose più di altre. C’era un sottotesto che mi risultava inafferrabile e che solo dopo che ho ricevuto il manoscritto ho potuto comprendere nella sua interezza. Come foto erotica, avevo scelto la foto di una donna in bianco e nero, seduta di spalle. Soltanto dopo capii che era una foto del book di Cristina, quella più emblematica, quella più carica di desiderio, quella che anche Paola considerava come la sua preferita. Come foto triste, scelsi la foto di una famiglia in apparente gioia, davanti a una torta di compleanno. I visi delle tre persone mi sembravano invece totalmente finti, pilotati, malcelanti un disagio che traspariva dalla pellicola in tutta la loro essenza. Infine, come foto rasserenante scelsi uno scatto, al tramonto, senza nessuno intorno, da dentro una boscaglia. Dopo, mi resi conto che quella foto era stata scattata da Paola dopo essersi nascosta, essere svenuta per il potente orgasmo e infine essersi risvegliata nel silenzio più totale.]
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