Il giorno che Sunny Mendez scoprì di essere un uomo

di
genere
etero

Sunny Mendez aveva quasi vent'anni, i capelli scuri, un taglio classico e un crocifisso al collo. Lavorava nell'impresa di pulizie che si era aggiudicata quasi tutti i contratti di West Hollywood. Aveva un compito ben preciso, lui. Era il secondo specialista della «squadra pavimenti», un compito di assoluta responsabilità. E lo faceva con coscienza, ogni mattina, dalle sei alle nove, prima che la giornata di lavoro tipica della West Coast cominciasse in tutta la sua frenesia opulenta e sfacciata.

Sunny Mendez viveva ad Anaheim, una cittadina un po' squallida a sud di Nostra Signora degli Angeli, come la chiamava ancora sua madre. Los Angeles, l'immensa distesa americana di case, highways, fuoristrada, puttane, spacciatori e ragazzi come lui, come Sunny Mendez, stranieri in terra straniera.
La mamma di Sunny Mendez era cattolica, anzi cattolicissima. Aveva educato suo figlio come un piccolo Cristo, a messa tutte le domeniche, riunioni bisettimanali con la parrocchia, conferenze con le associazioni religiose della città e tutta questa bella robetta. Infatti Sunny non beveva, non fumava e non andava con le donne, las putas, come le chiamava la madre, che naturalmente escludeva sé stessa e le altre signore rispettabili e messicane dalla categoria di cui sopra.

Sunny Mendez non era mai stato con una donna. Aveva pochi amici e desiderava sposarsi. A tutti i costi. In chiesa gli avevano insegnato che il sesso è una cosa così brutta e sporca, se fatta prima del sacramento del matrimonio, che un ragazzo onesto come lui avrebbe potuto finire all'inferno prima del tempo, prima ancora di morire. Gli avevano parlato di malattie orrende, di sofferenze indicibili, di perdita della vista, dell'udito, dell'olfatto, di caduta progressiva dei capelli e, last but not least, di caduta dell'organo sessuale maschile con annessi e connessi. Ma questo solo in caso di zozzerie contro natura.
Eppure a Sunny, la sera, quando si coricava nel lettino della sua roulotte e pensava a las putas, gli veniva duro. Ma così duro che, col passare del tempo, fatta la conta dei cinque sensi, aveva deciso di rischiare il tutto per tutto. Quante seghe ci vogliono per perdere la vista? Dieci? Cento? Mille? Al diavolo, mi piglierò il cane guida, pensava.

Il tormento spirituale di Sunny Mendez aveva assunto quasi le caratteristiche di una tortura medioevale quando aveva cominciato a lavorare con la sua squadra per Smith, Jamison, Limelight & Stock. Uno studio legale pieno di segretarie in minigonna e di avvocatesse in calze nere e scarpe col tacco. Un'impresa costruita e popolata da donne, in cui gli uomini erano in decisa minoranza.
Il suo turno di lavoro finiva alle nove, giusto in tempo per incrociarne qualcuna, sentirne il profumo di prima mattina, salutare timidamente e correre via con il pisello che litigava a morte con i bottoni dei jeans.
"Oh amico, la vedi quella?" gli faceva Danny Decicco, un poco di buono che lavorava con lui alla «squadra pavimenti».
"Sì" faceva Sunny, e abbassava lo sguardo.
"Quella me la fotterei notte e giorno fino a farle cambiare colore ai peli della fica…".
E Danny Decicco rideva come un matto, mentre il chico messicano arrossiva pensando che anche lui avrebbe voluto farle certe cose, ma non così brutalmente, con dolcezza, come un vero gentiluomo. Non si tratta così una signora.
«Quella» era Katherine Stock. Socia dello studio a trent'anni. Due lauree, di cui una a Yale. Un metro e settanta, capelli rosso fuoco, eleganza impeccabile garantita da un paio di gambe inimmaginabili. Aveva uno degli uffici in fondo al piano, tre stanze immense in cui lui, Sunny Mendez, si perdeva la mattina, con la scopa in mano, in mezzo alle raccolte delle decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America, i fascicoli sparsi qua e là, le foto di quella donna bellissima tra le braccia di un uomo dall'aspetto distinto e ricco.
«Io sono il custode dei suoi pavimenti…», pensava, «…sono l'angelo della cera, il distruttore dei bacilli».

Era fortunato Sunny Mendez perché «quella donna» non arrivava mai in ufficio prima delle nove. Lei poteva permetterselo, poteva permettersi tutto. Si dicevano cose irripetibili sul suo conto. Quel bastardo di Decicco l'aveva più volte informato in materia. Aveva sentito storie di festini a luci rosse, roba da sesso, droga e rock and roll, si diceva persino che se la facesse con le donne.
"Quella è una troia, chico… credimi!" gli gridava Danny nelle orecchie, con la lingua a penzoloni.
Ma Sunny non ci credeva. Era troppo bella, Katherine Stock, per essere una puta. Doveva essere un angelo. Una donna da sposare prima e poi farci quelle cose sporche che lui tanto sognava.

Una mattina come tante altre, una mattina che ancora era buio, Sunny Mendez prese l'autobus per West Hollywood, percorse la Freeway numero 5 in direzione nord, poi la 101 verso ovest, Wilshire Boulevard, Santa Monica Freeway, Santa Monica Boulevard fino ad arrivare dritto dritto, dopo più di un'ora di viaggio, al sontuoso studio SJLS.
A quell'ora non c'era ancora nessuno, nemmeno l'amico Danny. Era in anticipo, ma poteva entrare, poteva cominciare. Sunny entrò nell'edificio, salutò con un cenno del capo i guardiani che ricambiarono, assonnati come sempre, ma come sempre sorridenti, e si diresse verso l'ascensore. Lo studio era immerso nell'oscurità, silenzioso come solo poteva esserlo di notte, dalle finestre Sunny poté vedere che stava albeggiando.
Preparò l'occorrente per la «squadra pavimenti», si fermò un istante, guardò l'orologio. Dove diavolo si è cacciato Decicco?
Un pensiero improvviso s'impossessò di lui. Si ritrovò nelle stanze di Katherine Stock, avanzando come al solito come se fosse in un museo, come se avesse paura di lasciare impronte, sporcare, rompere qualcosa. Si fermò davanti alla grande scrivania in legno, l'accarezzò, afferrò una fotografia. Le solite facce sorridenti, una bellissima, quella del suo angelo. Sospirò e chiuse gli occhi.

Sunny voleva sposarsi e scacciare il terrore di ritrovarsi, come diceva sua madre, cieco, sordo, muto e sulla sedia a rotelle. Ancora una sega e sarebbe morto, ne era sicuro.
"Hai proprio un bel culo, ragazzo…".
La fotografia gli scivolò dalle mani, il vetro si ruppe non appena toccò terra. Sunny Mendez, quasi vent'anni, un lavoro da lavapavimenti, desiderò con tutte le sue forze lanciarsi a volo d'angelo giù dalla vetrata che si apriva dietro la scrivania di «quella donna».
"Madre de Dios…", ansimò terrorizzato.
Katherine Stock, seduta sul divano in fondo alla stanza, nella penombra, le gambe accavallate, lo guardava.
"Oh, señora… perdoname, no soy venuto aquì para…".
"Tranquillo, ragazzo, rilassati…".
Sunny tremava come una foglia. Maledisse la sua incapacità di esprimersi in un inglese comprensibile per i cittadini americani. Arrossì violentemente e abbassò lo sguardo. Meglio morire di seghe che fare la figura dell'ignorante davanti a quell'angelo.
"Come ti chiami?…", fece «quella donna», comodamente seduta sul divano, il profilo del suo corpo appena visibile, ma inequivocabilmente suo.
"Sunny… Me…Mendez…", balbettò il ragazzino messicano, di professione supereroe del pulito, con un crocifisso al collo e la messa ogni domenica.
L'immagine di una figa gigantesca gli occupò di colpo la mente, impossessandosi dei suoi pensieri, scacciando per un attimo i Dieci Comandamenti. Si vedeva, enorme e fiero, penetrare quella roba gigante ed ascendere direttamente in paradiso, tra i canti degli angeli e gli osanna dei beati.

Katherine Stock si alzò. Mosse le gambe lunghe e sinuose, camminando piano verso il centro della stanza. La luce dell'alba la illuminava sempre di più, man mano che si avvicinava alla vetrata. Un tripudio di femminilità elegante e leggera, sensuale e terribile, una minaccia di morte.
Sunny fece un passo indietro sbattendo contro la scrivania e rovesciando un vaso che, a giudicare dall'aspetto, doveva essere preziosissimo. Il vaso, per fortuna, non si infranse quando toccò terra. Aprì la bocca per scusarsi, umiliato davanti al suo angelo, ma «quella donna» con un piccolo gesto rapido e discreto, gli posò le dita sulle labbra.
Quel tocco inaspettato gli provocò la più scontata delle reazioni. Sgomento nel petto e rigidità assoluta nei pantaloni.
"Stai zitto, Sunny Mendez…! Ti scuserai formalmente con me, ma più tardi, quando scriverò una piccola lettera di protesta alla società per la quale lavori. Tu verrai da me, ti scuserai e la faccenda sarà chiusa…".
"Oh, no señora…! Mi cabo me estacas las…".
Un brivido lo attraversò tutto, in profondità, e gli strozzò in gola le quattro parole angloispaniche che sapeva pronunciare. La mano della "puta" americana era scesa dalle sue labbra al suo collo e dal suo collo al suo petto, accarezzando il cotone della T-shirt da quattro soldi, scendendo fino alla cinta dei jeans e risalendo di nuovo, ma sotto la maglietta, a contatto con la pelle nuda.
«Madre de Dios», pensava, Sunny, «Madre de Dios».
Chiuse gli occhi, perché faceva meno paura. Sentì le labbra di Katherine sulle sue guance ruvide, le sentì sul collo, il profumo dei suoi capelli. La reazione, pur scontata, aumentava pericolosamente di intensità. Terrore nel cuore e inferno compresso nelle mutande. Una lotta all'ultimo sangue tra la paura di morire ed il bisogno irrefrenabile di fare quelle cose sporche che erano diventate la sua unica ragione di vita.

Era un bel ragazzo, Sunny Mendez. Alto quasi uno e ottanta, le spalle larghe, la muscolatura da nuotatore, i lineamenti latini. Katherine Stock, che era un'intenditrice, come in una famosa pubblicità, aveva riconosciuto il pezzo di qualità soltanto annusandolo. E pure da lontano. Non è opera facile, io non ne ho mai azzeccata una in materia.
Gli tolse la maglietta, riprese ad accarezzargli il torace.
Non poteva guardare quella donna negli occhi, Sunny. L'aveva fatto solo per un istante e si era perso nel verde, divorato e schiacciato da un'intensità che nessun uomo riusciva a sopportare. Figuriamoci un povero chico messicano di quasi venti anni.
Malefica, la donna gli posò una mano sui pantaloni, all'altezza del fianco. Si avvicinò con il corpo al petto nudo del ragazzo, i capezzoli che sfioravano la pelle di lui attraverso la seta della camicetta. Fece scivolare quella mano verso il centro, gli strinse piano l'erezione prepotente e dolorosa. Avvicinò le labbra alle sue orecchie.
"Come sei duro, Sunny Mendez…".
«Madre de Dios», pensava il chico. «Signore, portami via, non farmi soffrire, perché infrangerò le tue leggi».
Ansimava, poveretto. E cominciava pure a sudare. Pensò che sotto aveva le mutande dei Simpsons ed inorridì.
Ma Katherine Stock non ci fece caso. Aveva già sbottonato tutto quello che poteva sbottonare ed ora glielo stringeva con quella mano maledetta, massaggiandolo. Sunny aprì gli occhi e vide la scena. Il suo cazzo, eretto, svettante, lucido nella sua estremità rigonfia, stretto da una mano che non era la sua.
Madre de Dios.
La "puta" continuò per un po' in quel modo, massaggiandolo e leccandogli il collo, premendosi contro di lui con tutto il corpo, alternando le sue bellissime gambe con quelle di lui.
"Adesso, spogliami, Sunny Mendez…".
E lui lo fece. Esitante, goffo, tradendo tutta la sua abissale inesperienza. Le tolse la giacca del tailleur, armeggiò con i bottoni della camicia, tremando come un bambino e recitando mentalmente a velocità supersonica tutte le Ave Marie che poteva. L'ultimo bottone si staccò e rotolò sul pavimento.
Katherine rideva deliziata.
"Perdoname, señora…".
"Povero piccolo, ti aiuto un po'…", fu la risposta di lei.
Fu lei a togliersi il reggiseno di pizzo, bianco come la sua carnagione.

Sunny Mendez appoggiò tutte e due le mani su quel seno, perfetto nelle dimensioni e nella consistenza della carne. La sensazione dei capezzoli turgidi contro il palmo della mano gli fece un certo effetto. Sangue che corre impazzito verso il basso, abbandonando il cervello.
«Madre de Dios… io, Sunny Mendez, al tuo cospetto, Signore, chiedo ufficialmente di essere privato della mia vita terrena perché, Signore, dichiaro, altrettanto ufficialmente, che sto peccando e che con questo peccato voglio morire».
Goffamente, così come aveva cominciato a spogliarla, Sunny prese quei capezzoli nella sua bocca di chico messicano diciottenne e cominciò a succhiarli, alternativamente, con foga. La donna gli teneva la testa, sospirando appena.

Katherine Stock se lo trascinò, tenendolo per mano, sul divano, laggiù nella penombra che andava diradandosi. Il ragazzo le fu sopra, tra quelle gambe splendide che si aprivano per lui, la gonna che si sollevava stropicciandosi, i bordi di un paio di calze nere autoreggenti che si rivelavano, esaltando il candore delle sue cosce.
La "puta" americana non portava le mutandine. Sunny se ne accorse quando lei gli prese una mano e se la portò tra le gambe. Non poteva sapere lui che una donna quando si eccita, si inumidisce, si bagna, e che quando fa così, vuol dire che lo vuole dentro, vuole essere presa.
Katherine continuava a guardarlo. Adesso anche lui la guardava, dall'alto. Vista così, un po' spettinata, la bocca leggermente aperta, gli occhi verdi di un verde che sembrava più intenso, Katherine L. Stock era bella da far paura.
"Vieni dentro, ometto…" gli disse. La puta.

Sunny Mendez, quasi vent'anni, un lavoro ed una vita di cui non gli fregava più nulla, diresse il suo cazzo messicano verso la fica di quella donna americana di prima classe. Ed entrò, non fu difficile, entrò, scivolò dentro di lei lentamente, immaginando la sua prossima discesa negli inferi.
Madre de Dios.
La donna inarcò la schiena, piegò le gambe un po' di più, si passò la lingua sulle labbra rosse.
"Bravo, il mio ragazzo. Adesso spingi… scopami, dai…".
E Sunny la scopò. Cominciò a farlo spingendo con delicatezza all'inizio, per paura di farle male; non poteva sapere, lui, che non le faceva male affatto, che anzi la stava facendo godere. Fu lei a dirglielo, e lui allora aumentò il ritmo, sollevandosi sulle braccia, chiamando a raccolta tutte le sue forze di adolescente.
Quando raggiunse una discreta velocità, lanciato in corsa come un cavallo pazzo, imperversando su di lei senza remora alcuna, Katherine Stock, che la sapeva lunga, lo bloccò. Conosceva la regola numero uno. Diffidare di cavallo pazzo, fa i cento metri in dieci secondi netti.
"Fermati, fermati un attimo, ragazzino…", disse ansimante.

Lo fece girare; Sunny Mendez si sdraiò sulla schiena. Il ragazzino se la ritrovò sopra e si ritrovò di nuovo dentro di lei. La "puta" americana cominciò a muoversi lentamente, tenendolo dentro di sé solo a metà, roteando il bacino, usandolo come una leva per aprirsi ancora di più.
Era il suo modo di scopare, Katherine Stock era abituata a stare sopra. Sunny, che non era abituato né a stare sopra, né a stare sotto, la guardava strabiliato. Che quella donna non fosse tanto angelo lo capiva anche lui. Ma se era il diavolo, Cristo divino, aveva le fattezze di una figa stratosferica.
"Ti piace così, ometto?", diceva lei, sorridendo e continuando a muoversi con quel dannatissimo movimento rotatorio, scendendo un po' alla volta, penetrandosi sempre di più.
"Oh, señora… yo soy perdido…".
Madre de Dios.
Sunny aveva già da tempo cominciato a pregare. Sapeva che per lui non c'era più nulla da fare e che era condannato. Eppure -chissà cosa diavolo passa per la mente di certi ragazzi- pensò di poter fare un ultimo tentativo per conquistarsi la vita eterna.
"Tu quieres diventar mi esposa?", mormorò con un filo di voce.
Katherine si fermò di scatto. Si sollevò leggermente sulle ginocchia, facendo in modo da estrarre gradualmente dalla sua vagina esperta quasi tutto l'arnese di quell'impertinente ragazzone messicano che si era permesso di rivolgerle una domanda del genere. Ma poi ci ripensò, giusto in tempo per fermarsi e lasciare dentro solo la punta. Riprese ad ondeggiare, come fanno certe danzatrici del ventre nei ristoranti siriani del centro. Ma più piano, altrimenti quei due centimetri di carne di maschio che aveva lasciato dentro di sé le sarebbero scivolati via, condannandola all'orribile sensazione di vuoto.
L'horror vacui è un disagio tipicamente femminile, credetemi.

"Certo che ti sposo… ma tu devi essere bravo con me…".
Lo disse fissandolo negli occhi. Al povero Sunny parve di impazzire dalla felicità. Per un attimo aveva pensato che la sua donna volesse farla finita e lasciarlo lì, rigido come un traliccio di metallo, carico di quella robaccia bianchiccia che una volta aveva dovuto pulire via con orrore persino dal soffitto, per la verità non troppo alto, della sua roulotte.
"Oh, sì… todo lo que quieres… mi angelo salvator… amor que te conficas dentro el corazon como una spina de dolor… tu es una santa mujer… como la santa de la ciudad de Tijuana que…".
"Stai zitto, Cristo… tu e la Madonna di Tijuana! Fai quello che ti dico!".

Sunny Mendez, vent'anni da compiere ed una donna fantastica sulla punta del suo giovane cazzo, ammutolì.
"Io adesso resto ferma così… a questa altezza… devi essere tu a venirmi dentro, spingendoti verso l'alto, capisci?".
Il chico deglutì e fece un cenno con la testa, come a dire che aveva capito.
"E mi devi chiamare «troia», intesi?".
«Madre de Dios, questo no», pensò. Non poteva chiamare troia la donna che stava per sposare!
"Intesi?!?".
Il verde di quegli occhi, puntati dritti nei suoi, tolsero a Sunny ogni volontà.
L'afferrò per i fianchi, cominciò a spingersi all'insù, sfidando la forza di gravità e la resistenza dei suoi addominali, solo per arrivarle ogni volta fino in fondo ed ogni volta più forte, finché quasi sollevò anche lei, che cominciò a lamentarsi dal piacere e a succhiarsi un dito, come era solita fare quando qualcuno la scopava.
"Troia, troia, troia…", gridava Sunny.
"Sì, dimmi che sono una troia…!", gridava Katherine.
Lei poteva essere anche una troia, ma quando venne, sotto i colpi furiosi di quel ragazzino messicano da quattro soldi, impiegato della ditta di pulizie del suo studio da venti milioni di dollari, era davvero uno spettacolo. Un tripudio di femminilità, terribile come una minaccia di morte.
Il piccolo Sunny la seguì presto, rovesciandole dentro tanto di quello sperma che, quando lui si ritirò, le uscì fuori in parte, scivolando sulle cosce fino al bordo delle calze.

Per qualche secondo fu il silenzio. Assoluto silenzio, dopo la rumorosa e stramba cavalcata che avrebbe fatto invidia ai più esperti cowboys del vecchio West.
Katherine Stock fu la prima a parlare.
"Senti, Johnny, ora levati dai coglioni, che è tardi…".
"S-Sunny…" fu tutto quello che lui riuscì a dire, prima di essere messo alla porta senza troppi complimenti, assieme alla sua scopa ed ai suoi stracci.
Quella porta, la porta del Paradiso, si richiuse alle sue spalle.
Sunny non pensò nemmeno per un attimo di bussare. Non si bussa alla Porta del Paradiso quando qualcuno l'ha richiusa buttandoti fuori. Nemmeno se sei Bob Dylan.

Così lui, Sunny Mendez, girò le spalle e si avviò mestamente verso l'uscita. I muscoli ancora gli dolevano, l'odore di lei che ancora non lo aveva abbandonato.
Vagabondò per ore, con la mente in subbuglio e la paura di morire per il peccato commesso che ricominciava a fare capolino. Gli era chiaro che "la puta" non l'avrebbe sposato e, a quel punto, lui era perduto.

Camminando, camminando si ritrovò sulla spiaggia. L'Oceano davanti e l'immensità del suo sacro terrore. Un cartellone pubblicitario diceva "The best onion rings in Venice!". I primi surfisti cominciavano a preparare le tavole.
"Che cazzo hai, amico?" gli fece uno, incuriosito dal suo sguardo ebete.
Sunny Mendez lo guardò con occhi lacrimosi.
"Tu me puedes indicar una iglesia?".
"Una chiesa!? Ma ti sei bevuto il cervello, stronzo messicano?".
"No, por favor…".
Il povero chico stava chiaramente per piangere. Roba da far pena a chiunque. Il surfista si intenerì.
"Okay, vai in quel bar e chiedi di Padre L.L. «Cool» Jackson…".
Meccanicamente Sunny entrò nel locale che quel tizio gli aveva indicato. Forse una speranza c'era ancora.

Dietro al bancone, Padre L.L. «Cool» Jackson cucinava fish & chips insieme ad un donnone che assomigliava ad Aretha Franklin. Quando capì che quel ragazzo dall'aria sfatta e decisamente smarrita voleva confessarsi, prese due birre dal frigo e gli ordinò di seguirlo.
Nella stanzetta dietro al negozio dei coniugi Jackson, Padre L.L. «Cool» ascoltò in silenzio, trincando entrambe le birre, la storia del povero ragazzo messicano tardo-adolescente sedotto e abbandonato dalla troia americana di superlusso di turno.
"Cazzo, ragazzo…" disse alla fine, scuotendo la testa ed accompagnando il suo commento con un rutto colossale da Oktoberfest.
"Soy perdido, Padre?", domandò Sunny terrorizzato.
Padre L.L. «Cool» scosse la testa di nuovo.
"No, sei solo un coglione…", fece.
Il ragazzo non capiva.

Allora Padre L.L. «Cool» si alzò, scartabellò dentro un mobiletto e tirò fuori due vecchi 45 giri. Il primo era l'edizione «gold» di «Stairway to Heaven» dei Led Zeppelin. Il secondo era «Highway to Hell» degli AC/DC. Glieli mise davanti e cominciò a parlare.
"Vedi ragazzo… la via per il Paradiso è una scalinata lunghissima e dura… la via per l'Inferno, invece, è un'autostrada ad otto corsie, facilissima da imboccare e ancora più facile da percorrere. Ora, noi poveri pezzi di merda non andiamo da nessuna parte, perché solo gli angeli vanno in Paradiso ed i figli di puttana, ladri ed assassini, che poi sono i diavoli, vanno all'Inferno…".
Sunny continuava a non capire.
Padre L.L. «Cool» fece una smorfia di insofferenza.
"Tu sei un angelo, razza di coglione?".
"No…", rispose esitante Sunny.
"Sei un diavolo?".
"N-no…".
"E allora, Cristo, se non sei un angelo e non sei un diavolo, che cazzo sei?".
Lo sguardo un po' assente di chi capisce sempre di meno, Sunny fissava il suo confessore senza proferire parola.
"Insomma, tra i Led Zeppelin e gli AC/DC, che cazzo ci metteresti?", fece Padre L.L. «Cool» Jackson spazientito, sperando che l'esempio musicale potesse risultare di qualche utilità.
"Ma-Madonna?" Sunny provò ad indovinare.
Il confessore piantò una manata violentissima sul tavolo, facendo cadere tutto quello che c'era sopra.
"Brutto cazzone idiota!!! Maledetta testa di cazzo! Sei un imbecille senza speranza! Tra gli angeli e i diavoli ci stanno gli uomini! E tu sei un uomo! Un fottuto uomo!! Benvenuto sulla Terra, signorino! Ma chi sei… il fratello cretino della Bella Addormentata nel Bosco?!".
Sunny trasalì. Un uomo? Non un ragazzo, un uomo. Quel tizio lo aveva chiamato proprio così. Forse cominciava a capire, ma non ne era ancora sicuro. Dai Dieci Comandamenti all'anno 2000 doveva essere successo qualche cosa.
E sua madre… cazzo, non sapeva nemmeno le tabelline, come poteva capire qualcosa della vita?
"Comunque sei assolto… ed ora vai a farti fottere fuori di qui!".
Madre de Dios, pensò per l'ultima volta Sunny, ringraziando Padre L.L. «Cool» Jackson e lasciandolo ai suoi fish & chips.

Uscì in strada. Il sole già alto illuminava i mille colori della spiaggia di Venice. Le signore in shorts da jogging con il solito cane-spazzolone al seguito. Gli energumeni che si esercitavano nelle palestre all'aperto piazzate qua e là. I ragazzini con le magliette dei Lakers. La puzza di cipolla che aleggiava nell'aria, alle dieci del mattino.
Ora di colazione.
Quattro ragazzi, seduti intorno ad un tavolino di pietra al lato della strada, cantavano una vecchia canzone, battendo le mani a tempo.

«I see you dressed to kill
I know I can't wait until
Hallelujah, here she comes

I see you dressed in black
I guess I'm not coming back
Hallelujah, here she comes…».

A Sunny, che respirava a pieni polmoni l'aria tiepida della mattina, scappò un sorriso.
«Buongiorno, fottuta California», pensò.
Fucking hell, era proprio un buon giorno… il giorno che Sunny Mendez scoprì, finalmente, di essere un uomo.
scritto il
2024-08-15
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