Alla catena, in attesa

di
genere
sadomaso

Isabella si mosse, per quanto le era possibile, alla ricerca di una posizione migliore.
Il collare di ferro era pesante, spesso, consistente, il cui peso le ricordava ogni momento quanto fosse forte ciò che stava vivendo.
Il grosso lucchetto utilizzato per chiudere il collare con un forte rumore metallico, l’aveva consegnata a quella prigionia volontaria, ricercata per liberare l’anima, in quel locale avvolto dalla semioscurità, lasciandola quasi privata anche della compagnia della sua ombra.
I ceppi di ferro le bloccavano i polsi dietro alla schiena, sfregandole la pelle e imponendo un ulteriore immobilità, oltre a quella cui era costretta dalla catena che collegava il collare al muro.
Non ricordava da quanto tempo si fosse consegnata a quella situazione. Il tempo è cosa strana, pensiamo di frazionarlo in giorni, ore, minuti, secondi, la cui misurazione è assegnata a meccanismi costosi o a sistemi elettronici sofisticatissimi. In realtà il tempo vero era quello dentro di lei, alla quale era stato sottratto anche il controllo del suo trascorrere. Potevano essere trascorse ore o minuti durante i quali si era concentrata su sé stessa, sulle sue emozioni e sensazioni e, così facendo, si accorse che il tempo, quello che scandisce la giornata, non importava più.
L’unico fatto che avrebbe potuto darle il senso della quantità di sabbia scivolata nella clessidra, era il ritmico rumore di una goccia che cadeva, costantemente, come se non avesse fatto altro dalla costruzione di quel palazzo le cui fondamenta erano in sasso a vista, quello che lei vedeva e nel quale era infissa la catena che le ricordava la totale privazione della sua libertà, come non bastasse la pesante porta di ferro il cui rumore metallico della chiusura era rimbombato nel silenzio delle segrete.
Quella goccia le sembrava che rallentasse il tempo e, nello stesso tempo, lo amplificasse, facendole sembrare infinite le volte che aveva udito il suo sbattere contro il sasso del pavimento, a volte assordante e a volte silenzioso.
Voltò il viso verso l’alto, come se la torsione del collo potesse farle respirare meglio l’aria che entrava dalla bocca di lupo posta nel punto in cui la parete della cella incontrava il soffitto.
Le emozioni erano la costante che circolava nelle vene, bypassando il cervello per andare dritta alle viscere, contorcendole nell’attesa del suo Padrone.
Le fantasie della sua anima erano avvolte in un turbinio, in cerca di soddisfazione e respiro, di nuove emozioni e di rinnovata prigionia o, meglio, di prigionia nuova.
Stava scoprendo l’attesa attraverso la quale si sentiva poco importante, sempre più oggetto, strumento di soddisfazione del cazzo del Padrone quando ne avrebbe avuto voglia e, fino a quel momento, relegata a inutile pezzo di carne con lingua, bocca, figa e corpo a disposizione.
Si immaginò ai suoi piedi, in attesa di qualcosa, di un’attenzione, di una spinta che la facesse crollare a terra, di una frustata, di qualsiasi cosa che le dimostrasse la sua attenzione, con il desiderio di leccare scarpe e piedi, per dimostrare a lui e a sé stessa la propria sottomissione mentre il corpo, nudo, a terra, è in forte contrasto con il vestito elegante che immagina indosso al Padrone che, in quel momento, sarà comodo in una stanza della sua enorme casa, mentre lei potrebbe contare i pochi sassi che costituiscono il perimetro della sua cella.
Il rumore della ferraglia la distolse dai pensieri ed il dolore ai polsi le fece aumentare l’adrenalina e bagnare la figa, pronta per accogliere il cazzo quando lui vorrà.
La catena che le strattonava il collo le evocava l’immagine di un uomo senza volto che, tenendo il capo estremo di quella catena, la conduceva sulle scale, nuda, dalla cantina al salone per consegnarla al cospetto del Padrone.
L’ignoto e l’incertezza le procuravano timore, quello stesso timore che la faceva sentire appartenente e che, a sua volta, la eccitava.
Il desiderio le corse alle frustate che avrebbe potuto ricevere mentre era in quelle stesse catene in cui si trovava, o in altre, non importava. Si eccitò pensando alla paura del colpo che avrebbe atteso tremando e che, segnandole la pelle, l’avrebbe fatta precipitare nelle segrete della schiavitù.
Le sembrava che le catene si facessero più strette e corte, e desiderò di vedere entrare il suo Padrone, già eccitato, per prendersi ciò che gli appartiene, nella stessa posizione in cui lei si trovava in quel momento, incatenata, in quanto oggetto di proprietà.
Immaginò il Padrone che, abbassato la cerniera, avrebbe affidato il proprio piacere alla lingua di quella schiava incatenata, per poi allontanarsi, ad orgasmo ottenuto, senza degnarla di attenzione alcuna, avendo ormai svolto la sua funzione.
Provò ad immaginare il sapore del piacere del suo Padrone in bocca, al momento in cui l’orgasmo liberatorio le conferma che lei è stata brava, e che lui è contento di lei, la sua schiava, il momento liberatorio che la riconsegnerà alla libertà, dopo l’attesa.
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2024-09-27
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