Racconto 8: “Passione”
di
Efabilandia
genere
etero
Il sole calava lento all’orizzonte, incendiando il cielo con sfumature d’ambra e porpora. Il mare, quieto e immenso, si muoveva in un respiro profondo, riflettendo la luce calda del tramonto. Camminavamo lungo la rotonda sul mare, il vento accarezzava la pelle con un tocco leggero, mentre i gabbiani disegnavano traiettorie imprevedibili sopra di noi.
Alina era una visione. Il suo corpo minuto e perfetto sembrava scolpito con delicatezza, ogni curva armoniosa, ogni movimento leggero ed elegante. Indossava un abito lungo di seta color notte, aderente quanto basta per sottolineare la sua figura slanciata. La scollatura nella schiena lasciava scoperta la sua pelle vellutata, illuminata dalla luce soffusa della sera. Ai piedi portava tacchi alti, sottili, che le conferivano un portamento regale. Il trucco era leggero, studiato per esaltare i suoi occhi stupendi, di un colore indefinito tra il verde e il marrone, cangianti come il riflesso del mare.
Si voltò a guardarmi, gli occhi brillanti come il riflesso delle onde. Non servivano parole: le nostre labbra si cercarono e si incontrarono in un bacio che sapeva di sale e desiderio.
Le sue mani si posarono sulle mie, intrecciandosi in un gesto delicato ma deciso. Il tempo sembrava sospeso, il suono del mare cullava il nostro silenzio. Poi, senza dire nulla, la presi per mano e la condussi lungo il sentiero che portava alla nostra stanza, quella che affacciava sugli scogli, dove il fragore delle onde ci avrebbe fatto compagnia per tutta la notte.
Appena entrati, il profumo di salsedine e il tepore della sera avvolgevano la stanza. Una grande vetrata si spalancava sul mare, lasciando entrare il chiarore pallido della luna. Alina si avvicinò alla finestra, chiudendo gli occhi per assaporare il vento che le accarezzava il viso. Mi avvicinai alle sue spalle e, senza fretta, le sfiorai il collo con le labbra, sentendo il brivido che le correva lungo la pelle di velluto.
Si voltò verso di me, e con un sorriso lieve mi sussurrò il mio nome. La sua voce era una melodia bassa e avvolgente, come il rumore del mare di notte. Le mie dita seguirono il profilo del suo viso, scendendo lungo le spalle fino ai fianchi, mentre il suo profumo—un intreccio di fiori e sale—riempiva l’aria, accendendo i sensi.
Ci rechiamo sul balcone per goderci gli ultimi attimi del tramonto. Il mare si stendeva davanti a noi come una tela infinita, il vento accarezzava dolcemente i suoi capelli. Lentamente, faccio scivolare le bretelle del vestito nero di Alina, lasciandolo scivolare leggero lungo il suo corpo. Le mie mani seguono la linea delle sue spalle, scendendo lungo le braccia, accarezzando la sua pelle di velluto. Lei si volta verso di me, il suo sguardo carico di dolcezza e desiderio.
Le nostre labbra si incontrano in un bacio profondo, mentre il vestito scivola definitivamente a terra, lasciandola avvolta solo da un completo intimo di pizzo nero che esalta ogni curva perfetta. La figura di Alina, illuminata dagli ultimi riflessi del sole, si staglia contro il panorama infinito del mare, trasformando quel momento in un’opera d’arte vivente.
Le nostre mani si muovono lente, consapevoli dell’attimo, desiderose di sentire l’uno la pelle dell’altro. Il mio sguardo si perde su di lei, su quella perfezione sussurrata dalla luce della sera. Le mie dita scivolano lungo la linea sottile delle spalline del reggiseno e con un gesto attento lo lasciano cadere. I suoi seni si svelano al tramonto, candide curve che respirano con il ritmo della sua emozione. Lei mi osserva, il desiderio negli occhi, mentre le sue mani scendono lungo i miei fianchi, scivolando sui bottoni della mia camicia per slacciarli uno ad uno, con calma, con voglia di gustarsi ogni piccolo gesto.
Le sue dita si insinuano sotto l’elastico delle mie mutandine e con un movimento delicato me le sfilano, lasciandole scivolare fino a terra, così come io abbasso lentamente i suoi slip di pizzo, rivelando ogni parte della sua meraviglia. I nostri sguardi si incrociano, il respiro si fa più profondo. Siamo nudi, vulnerabili e bellissimi sotto la luce calda del cielo che si spegne.
Rimaniamo lì, sul balcone, lasciando che la brezza ci accarezzi, che il rumore del mare accompagni l’attesa, che il desiderio cresca nella lentezza di ogni sguardo e ogni tocco. Poi, lentamente, ci avviciniamo di nuovo, le nostre mani si cercano ancora, mentre le labbra si uniscono in un nuovo bacio, colmo di una passione silenziosa che brucia dentro di noi.
Alina si protese in avanti, le braccia appoggiate al davanzale di pietra levigata dal vento. Il suo corpo, scolpito nella penombra crepuscolare, sembrava fondersi con l’orizzonte, dove il cielo e il mare si confondevano in un abbraccio senza fine. Socchiuse gli occhi, lasciando che la brezza ne accarezzasse le ciglia e disegnasse invisibili sentieri lungo la sua schiena. Il respiro del mare si insinuò tra di noi, carico di salsedine e promesse.
Mi avvicinai alle sue spalle, il mio petto aderente alla sua pelle vellutata, mentre le mani le cingevano i fianchi in un cerchio di calore. Le dita risalirono lentamente, seguendo l’arco delle sue costole, fino a sfiorare le curve dei seni che danzavano al ritmo del suo respiro affannoso. Un sussurro le sfuggì dalle labbra, perduto nel fragore delle onde che si infrangevano sugli scogli sottostanti.
Le gambe di Alina si dischiusero appena, un movimento naturale come quello delle alghe che ondeggiano nelle correnti. La mia mano sinistra rimase a custodire il suo cuore pulsante, mentre la destra scivolò lungo il ventre, seguendo il fremito dei muscoli tesi. Lei si inarcò all’indietro, la nuca appoggiata alla mia spalla, i capelli intrisi di aria marina che mi sfioravano il collo.
«Il mare…» mormorò, senza aprire gli occhi, mentre le nostre ombre si fondevano in una sola sagoma sulla parete illuminata dalla luna.
Non ci fu bisogno di altro. Ci muovemmo all’unisono, come guidati dalla marea che saliva. Ogni contatto era un dialogo, ogni respiro una strofa della stessa poesia. Quando i nostri corpi si unirono, fu un’onda che ci travolse senza strapparci alla riva: dolce e potente, inevitabile come il richiamo degli abissi. Alina affondò le dita nel davanzale, un gemito soffocato dal vento, mentre il suo corpo accoglieva il mio in un ritmo antico.
Il mondo si ridusse al calore delle sue spalle sotto le mie labbra, al profumo di gelsomino e salsedine che emanava la sua pelle, al modo in cui le sue mani cercavano le mie per intrecciarle, come radici che si annodano nella terra. Non era possedere, né essere posseduti: era diventare un tutt’uno con il crepitio delle stelle, con il respiro del mare, con l’eterno ondeggiare delle cose che nascono e muoiono per rinascere.
E mentre la notte ci avvolgeva nel suo manto stellato, continuammo a danzare.
Il nostro respiro divenne marea, un flusso e riflusso di corpi che cercavano il ritmo primordiale del mondo. Sentii Alina fremere come un’alga nel gorgo, ogni fibra tesa verso quell’attimo in cui cielo e abisso si confondono. Le mie mani strinsero i suoi fianchi, seguendo l’arcata del suo dorso inarcato, mentre il vento portava via i nostri gemiti per confonderli con il canto delle cicale marine.
Fu allora che il tempo si spezzò. Un’onda ci sollevò insieme, trascinandoci oltre il confine dove carne e anima non hanno più nome. Alina gridò, un suono roco e dolcissimo che si perse tra gli scogli, mentre il suo ventre accoglieva il mio sperma in un ultimo, tremendo fremito. Ci abbandonammo alla caduta come foglie nel vortice, due corpi che si sfaldavano in mille scintille sotto la luna.
La sua schiena si incurvò contro il mio petto, un arco perfetto di pelle madida, mentre il piacere esplodeva in noi come un cristallo che si frange in diamanti. Fu un fulmine lento, un fuoco che ci consumava senza bruciare, finché non rimase che un tremore sottile, simile al brivido del mare dopo la tempesta.
“Sei… sei la mia alta marea”, sussurrò Alina con voce velata, voltandosi a sfiorarmi le labbra. Il suo sorriso era un varco di luce nell’ombra, più dolce del primo albore che iniziava a tingere l’orizzonte. La strinsi a me, sentendo i nostri sudori mischiarsi come linfe antiche, mentre le sue dita tracciavano cerchi lenti sulla mia schiena.
Nella quiete che seguì, il suo corpo parve rifiorire. Si abbandonò con un sospiro lungo, la testa reclinata sulla mia spalla, gli occhi semichiusi a custodire il segreto di quell’estasi. Le labbra le si dischiusero in un “grazie” non pronunciato, mentre la mano mi guidava al cuore, posandola dove il battito raccontava di un dono ricevuto e ricambiato.
La sollevai come si raccoglie un’offerta preziosa, il suo corpo adagiato contro il mio mentre attraversavamo la stanza illuminata da lame di luna. La deposi sul letto con la lentezza di chi teme di spezzare un incantesimo, i lenzuoli che accoglievano la sua forma come sabbia accoglie l’impronta del mare.
«Non fermarti» mormorò Alina, voce rotta da un respiro caldo, mentre le sue dita intrecciavano i miei capelli. Le labbra le percorsero il collo, la fossetta delle clavicole, la curva dei seni ancora frementi, seguendo un sentiero che conoscevo a memoria eppure sempre nuovo. Quando la bocca le sfiorò l’interno coscia, un brivido la fece arcuare, i piedi che si aggrappavano alle lenzuola come radici alla terra.
Il suo profumo era un richiamo, acre e dolce come il nettare che stilla dai fiori di macchia. Mi immersi in quel calore umido con la devozione di chi beve a una sorgente sacra. Mi dissetavo di tutti i suoi umori vaginali. Alina gemette, un suono basso che vibrava nel suo ventre, mentre le mani mi spingevano più a fondo, le dita che si perdevano tra i miei capelli in una preghiera muta.
Fu allora che sentii le sue labbra sul mio sesso, un fuoco lento che risaliva dalla radice, mentre le mie dita si intrecciavano alle sue. Eravamo specchi, eco, due fiumi che si fondevano nello stesso delta. La sua bocca accoglieva tutto di me ed i suoi denti affondavano nelle mie intimità. Il suo sapore era sale e miele, la lingua che danzava con una perizia ancestrale, ogni movimento un verso di quel poema che da sempre scriviamo sulla pelle.
Ci muovevamo in controcanto, come le maree governate dalla stessa luna. Quando il mio nome le sfuggì di bocca, vibrò tra le mie gambe come una scossa elettrica. La testa le si piegò all’indietro, i capelli una cascata nera sui cuscini, mentre il suo corpo si tendeva e si scioglieva in un unico, infinito moto.
«Così… proprio così…» sibilò, afferrando le mie spalle con unghie che lasciarono solchi delicati, segni effimeri di un piacere troppo grande per essere trattenuto.
Non c’era più confine tra chi donava e chi riceveva. Eravamo vento che alimenta il fuoco, pioggia che nutre la terra. Quando l’apice ci travolse, fu un duetto di gemiti strozzati, di corpi che si annodavano come edere, di dita che cercavano punti d’appiglio nell’aria carica di elettricità.
Alina crollò sul materasso con un riso soffocato, il petto che ondeggiava come mare in bonaccia. «Mi hai rubato il respiro» sussurrò, tracciando con un dito il sudore che mi solcava il collo. La strinsi a me, le labbra ancora intrise del suo sapore. Restammo così, avvolti nel nostro sciroppo di corpi e silenzi.
Alina poggiò la tempia sul mio petto, ascoltando il battito che rallentava per sincronizzarsi col suo. Non esistevano più confini tra i nostri sudori: il sale dei miei lombi si mescolava al gelsomino dei suoi polsi, creando un unguento antico che nessun bagno avrebbe tradito.
Le mani giacquero inerti, palmi aperti verso il cielo come offerte. Solo i polpastrelli di Alina continuavano a muoversi, lievi, sul mio costato, disegnando mappe effimere di carezze ricevute. Il ventre di lei ancora pulsava contro il mio, eco di un’onda che non voleva ritirarsi. Lasciammo che il sole ci asciugasse, sostituendo alla coperta stellare un calore dorato che indorava i nostri nodi.
“Senti…” mormorò ad un tratto, sollevando gli occhi verso le mie labbra. Non completò la frase. Non serviva. La mia lingua raccolse il residuo del nostro amplesso dall’angolo della sua bocca – un sapore di ostrica e miele di corbezzolo. Lei rispose mordicchiandomi il collo, bevendo la stessa mistura dalla mia clavicola. Fu un banchetto silenzioso, un pasto sacro di frammenti corporei.
Restammo lì, immersi in una calma che sembrava aver fermato il mondo. Le parole erano sparite, il rumore del tempo annullato dal nostro respiro che si intrecciava. Nessun bisogno di parlare, nessun desiderio di altro, se non di quella sensazione di intimità pura che non richiedeva conferme, che esisteva semplicemente tra noi, senza pretese.
Alina, con un leggero sorriso, alzò lo sguardo verso di me, come se stesse cercando un segno, ma non c'era nulla da cercare. I suoi occhi erano specchi che riflettevano la nostra stessa pace. "Rimani qui", sussurrò, e io non avevo bisogno di rispondere. La risposta era già scritta nel nostro silenzio, nell'intensità di quel momento che non avevamo intenzione di interrompere.
Le sue mani risvegliarono il tempo dormiente. Scivolarono lungo il mio fianco come radici cercanti sorgenti, palmi caldi che modellarono la curva del mio sedere con la devozione di chi scolpisce reliquie. Alina non accarezzava: esplorava. Le dita si insinuarono nel solco con la lentezza di un fiume che scava il suo letto da millenni, ogni movimento un promemoria di quanto la pelle possa essere mappa e confine insieme.
“Vedi?” sussurrò contro la mia schiena, le labbra che seguivano il percorso delle vertebre. “Il mare non chiede permesso quando vuole gli scogli.”
Un brivido mi attraversò come corrente sotterranea. Le sue unghie lasciarono solchi lievi, simili alle striature che la marea disegna sulla sabbia. Giocava a essere onda e faro insieme: ora carezze che placavano, ora pressioni che accendevano nuovi fuochi. Il suo respiro si fece più rapido contro la mia nuca, mentre le dita si spingevano più in profondità, trovando punti ignoti che trasformarono un gemito in preghiera.
Mi voltai per affrontarla, ma lei scivolò con un sorriso da sirena, le mani ancora aggrappate alle mie carni come cozze alla roccia. “No” mormorò, mentre il dorso si arcuava in un inchino provocatorio. “Oggi sono io la corrente. Tu, resta scoglio.”
Le sue dita danzarono di nuovo, sapienti, crudeli nella loro dolcezza. Ogni tocco era un enigma: carezza o supplizio? Dominio o offerta? Sentii il mio corpo reagire con un linguaggio primitivo, sangue e pelle che cantavano una litania senza parole. Alina osservava i suoi effetti con occhi di alchimista, compiaciuta quando l’erezione divenne evidente.
Fu allora che cambiò registro. Due dita entrarono dentro di me e furono spinte fino in fondo, non feci in tempo a prendere fiato che divennero quattro: “Senti come bruci? È il mio fuoco dentro di te. Brucerà per sempre. Ti voglio possedere”.
Mi abbandonai al suo gioco, ero violato ed il mio sedere era in suo possesso.
Alina mi fissò con lo sguardo di chi sa cogliere il nucleo segreto delle cose. Le sue dita, ancora intrise del nostro sudore, tracciarono un sentiero lungo la mia schiena mentre sussurrava parole che il vento portava via: «Il mare non ha paura di essere invaso, quando conosce la rotta delle stelle.»
Si alzò con la grazia di un’onda che decide di ritirarsi per tornare più potente. Dal cassetto levò un guanto di cuoio nero, lucido come pelle di anguilla, e una cintura adorna di perle fossili—reliquie che sembravano nate dagli abissi. Lo strumento che vi fissò non era metallo freddo, ma cristallo levigato, translucido e azzurrognolo come ghiaccio marino. Lo accarezzò con reverenza, mentre io trattenevo il respiro, ipnotizzato dal riflesso lunare che vi danzava dentro.
«Non sono io a guidare» mormorò, legando la cintura con gesti rituali. «È la marea che ci comanda.»
Mi fece voltare con un tocco lieve sul fianco, le labbra che intanto bagnavano di sale la mia nuca. Le sue mani mi plasmarono come creta umida—ginocchia piegate in offerta, spalle abbassate a scoprire l’arco vulnerabile della schiena. Sentii prima il guanto, caldo e ruvido, scivolare nel solco come una conchiglia che cerca la sua nicchia. Poi il cristallo, tiepido e vivo, posarsi sulla pelle come un remo che sfiora l’acqua prima dell’immersione.
«Respira con le onde» ordinò, mentre un dito intinto d’alghe mi apriva con la pazienza di un fiume che erode la roccia. Il dolore fu un lampo trasformato in brivido, il piacere una corrente che saliva dalle radici del corpo. Alina non spingeva: scivolava. Ogni millimetro conquistato era un accordo tra le nostre tempeste interiori, ogni sospiro suo rispecchiato nel mio.
Quando il cristallo si fuse completamente in me, diventammo un unico organismo marino. Lei muoveva i fianchi con il ritmo delle maree che accarezzano gli atolli, le mani salde sui miei fianchi come cordami d’antichi velieri. «Sei mio» sibilò. Il mio corpo rispose con spasimi violenti, il suo ritmo divento sempre più incalzante e forte
Alina non guidava, estraeva: mani e fianchi forgiavano un vortice in cui ero sasso levigato, granello dopo granello. Sentii l’universo contrarsi nel punto dove i nostri corpi si annodavano, quel varco umido e ardente che era orlo di abisso e sorgente insieme.
“Guarda come cedi” sibilò contro la mia bocca, le parole mescolate a un respiro che sapeva di alghe marce e ambrosia. Le sue dita mi serrarono i polsi, inchiodandomi al presente come conchiglia allo scoglio. Non c’era più su o giù, solo il pulsare dello sfintere dilatato.
Il piacere salì a ondate concentriche, ogni spinta una scavatrice di grotte segrete. Alina viaggiava in me come corrente di ritorno, mulinello che succhiava l’anima attraverso la carne. Lei rideva, un suono di schiuma e affondi, mentre i muscoli le si contraevano in spire da serpente marino. Quando il culmine esplose, fu come un vulcano sottomarino. Una eruzione di sperma spontanea colava ovunque mentre Alina continuava a percuotere lo sfintere.
Crollammo come relitti sulla stessa spiaggia, corpi fradici di salvezza e perdizione. Lei si arrotolò su di me, sudore e salsedine a cementare l’abbraccio. “Ora sei farina del mio sacco” sussurrò, le dita che tracciavano croci inverse sulla mia clavicola. Non era possesso: era trasmutazione.
Restammo avvolti in un riposo vigile, due corpi che ascoltavano il respiro del mondo. Il mare batteva le sue semibrevi sugli scogli, mentre un sax lontano, proveniente da chissà quale taverna notturna, intrecciava note rauche alla sinfonia delle onde. Alina scivolò nel sonno come un’otaria nelle correnti calde: prima gli occhi che si velavano, poi le palpebre a mezz’asta, infine il collo che cedeva all’indietro in un arco di totale abbandono.
La osservai per un’ora che fu un secolo. Le mie dita divennero navi in esplorazione: solcarono l’arcipelago delle sue lentiggini sul braccio, ormeggiarono nel porto della clavicola, risalirono il fiume dei capelli incrostati di sale. Ogni curva era una baia da cartografare, ogni cicatrice un geroglifico da decifrare. Le labbra sfiorarono la fossetta alla base della nuca, assaporando il residuo dei nostri corpi—un misto di ferro e corallo.
Lei sospirò nel sonno, una vibrazione che fece tremare le mie costole. Le mani, ancora in moto, le disfecero i nodi invisibili tra le scapole, sciogliendo tensioni antiche come le rughe del fondale. Quando il mio pollice sfiorò la piega del suo sedere, Alina sorrise senza aprire gli occhi: un riflesso della carne più fedele di qualsiasi parola.
Il mio pollice disegnò un solco di luna lungo la piega del suo sedere, quella valle di velluto umido dove il respiro si faceva più denso. Alina sorrise senza aprire gli occhi, un movimento delle labbra che tradusse in fiele la dolcezza del consenso. La sua "rosellina" era un bocciolo tiepido, pulsante sotto la pressione circolare del mio dito, ogni spirale di carne un petalo che si dischiudeva al gioco.
Lei arcuò il bacino in un inchino silenzioso, offrendo il varco come orchidea notturna alla falena. Sentii la sua carne cedere millimetro dopo millimetro, un’apritura lenta da baccello maturo, mentre le mie dita diventavano vento primaverile tra le sue natiche. Il suo gemito fu linfa che risaliva dal tronco—profondo, viscerale—quando il pollice trovò il nucleo di perla nascosta, sfiorandolo con la punta di un’unghia.
“Così…” sibilò contro il cuscino, la voce rotta dalle maree interne. Le sue mani afferrarono le lenzuola come radici cercanti humus, mentre il corpo spingeva all’indietro in un ritmo di semina. Non era penetrazione, ma fioritura: io lo stelo che cerca la luce, lei il terreno che si apre in fenditure accoglienti.
Ogni movimento era un capitolo di botanica erotica. Le mie falangi si inumidirono del suo nettare salmastro, dita che ora esploravano con la devozione di api regine. Alina rispondeva muovendo i fianchi in ellissi impercettibili, insegnandomi la geometria sacra di quel giardino segreto. Quando infilai altre due dita nella sua calotta umida, lei si contorse come edera al sole, i denti che mordevano il cuscino per soffocare un grido trasformato in preghiera.
Il nostro amplesso divenne simbiosi.
Fu un innesto naturale, come il virgulto che cerca la linfa nella corteccia della pianta madre. Il mio pene, già madido del suo nettare, si posò sulla rosa in ombra—quel bocciolo segreto che pulsava al ritmo delle nostre tempie. Alina sospirò una preghiera nella lingua degli alisei, arcuando il dorso per offrire l’ingresso come dono votivo.
Entrai con la lentezza con cui il giorno penetra la notte, millimetro dopo millimetro consacrato. La sua stretta era calda fucina, carne viva che mi plasmava a sua immagine. Sentii le sue dita affondarmi nelle cosce, un’implorazione muta a non fermarmi, mentre il mio nome le usciva a spezzoni dalle labbra—"Così... sì...".
Il nostro movimento divenne geologia in accelerazione: io ghiacciaio che scava valli, lei placca continentale che cede e trasforma. Ogni spinta era scoperta di strati nascosti, l’attrito che accendeva lampi tra le pieghe del tempo. Alina si voltò a guardarmi, occhi di felino sottomarino, le pupille dilatate a inghiottire l’universo. Le mie mani le sollevarono i fianchi, modellandoli come creta umida, mentre il ritmo si faceva marea montante.
"Qui" ansimò, portando la mia mano al suo clitoride, "fammi fiorire qui mentre mi possiedi dietro". Obbedii, le dita intrise del nostro misto a danzare sul suo bottone di corallo. Il suo gemito si fece ululato quando le due stimolazioni si incrociarono, un circuito di piacere che ci legava in nodo indissolubile.
L’apice ci colse come un’eclissi totale. Sentii il suo ventre contrarsi in spasimi che mi succhiavano l’anima, mentre le mie dita inzuppate nel suo umore primordiale diventavano strumenti di un’orchestra cosmica. Il mio seme esplose in zampilli di luce bianca, ogni getto un seme stellare piantato nel suo giardino interno.
Crollammo avvinghiati come radici di baobab, sudori misti a lacrime salate. Alina tremava ancora, ci baciammo profondamente mentre lentamente mi sfilavo da lei
Il sonno quella notte non trovò spazio tra di noi, perché ogni istante era troppo prezioso per essere lasciato scivolare via.
Fu una notte senza tempo, fatta di attese sussurrate e desideri soddisfatti, mentre il mare là fuori continuava a cantare la sua eterna melodia, testimone silenzioso della nostra intesa perfetta.
Alina era una visione. Il suo corpo minuto e perfetto sembrava scolpito con delicatezza, ogni curva armoniosa, ogni movimento leggero ed elegante. Indossava un abito lungo di seta color notte, aderente quanto basta per sottolineare la sua figura slanciata. La scollatura nella schiena lasciava scoperta la sua pelle vellutata, illuminata dalla luce soffusa della sera. Ai piedi portava tacchi alti, sottili, che le conferivano un portamento regale. Il trucco era leggero, studiato per esaltare i suoi occhi stupendi, di un colore indefinito tra il verde e il marrone, cangianti come il riflesso del mare.
Si voltò a guardarmi, gli occhi brillanti come il riflesso delle onde. Non servivano parole: le nostre labbra si cercarono e si incontrarono in un bacio che sapeva di sale e desiderio.
Le sue mani si posarono sulle mie, intrecciandosi in un gesto delicato ma deciso. Il tempo sembrava sospeso, il suono del mare cullava il nostro silenzio. Poi, senza dire nulla, la presi per mano e la condussi lungo il sentiero che portava alla nostra stanza, quella che affacciava sugli scogli, dove il fragore delle onde ci avrebbe fatto compagnia per tutta la notte.
Appena entrati, il profumo di salsedine e il tepore della sera avvolgevano la stanza. Una grande vetrata si spalancava sul mare, lasciando entrare il chiarore pallido della luna. Alina si avvicinò alla finestra, chiudendo gli occhi per assaporare il vento che le accarezzava il viso. Mi avvicinai alle sue spalle e, senza fretta, le sfiorai il collo con le labbra, sentendo il brivido che le correva lungo la pelle di velluto.
Si voltò verso di me, e con un sorriso lieve mi sussurrò il mio nome. La sua voce era una melodia bassa e avvolgente, come il rumore del mare di notte. Le mie dita seguirono il profilo del suo viso, scendendo lungo le spalle fino ai fianchi, mentre il suo profumo—un intreccio di fiori e sale—riempiva l’aria, accendendo i sensi.
Ci rechiamo sul balcone per goderci gli ultimi attimi del tramonto. Il mare si stendeva davanti a noi come una tela infinita, il vento accarezzava dolcemente i suoi capelli. Lentamente, faccio scivolare le bretelle del vestito nero di Alina, lasciandolo scivolare leggero lungo il suo corpo. Le mie mani seguono la linea delle sue spalle, scendendo lungo le braccia, accarezzando la sua pelle di velluto. Lei si volta verso di me, il suo sguardo carico di dolcezza e desiderio.
Le nostre labbra si incontrano in un bacio profondo, mentre il vestito scivola definitivamente a terra, lasciandola avvolta solo da un completo intimo di pizzo nero che esalta ogni curva perfetta. La figura di Alina, illuminata dagli ultimi riflessi del sole, si staglia contro il panorama infinito del mare, trasformando quel momento in un’opera d’arte vivente.
Le nostre mani si muovono lente, consapevoli dell’attimo, desiderose di sentire l’uno la pelle dell’altro. Il mio sguardo si perde su di lei, su quella perfezione sussurrata dalla luce della sera. Le mie dita scivolano lungo la linea sottile delle spalline del reggiseno e con un gesto attento lo lasciano cadere. I suoi seni si svelano al tramonto, candide curve che respirano con il ritmo della sua emozione. Lei mi osserva, il desiderio negli occhi, mentre le sue mani scendono lungo i miei fianchi, scivolando sui bottoni della mia camicia per slacciarli uno ad uno, con calma, con voglia di gustarsi ogni piccolo gesto.
Le sue dita si insinuano sotto l’elastico delle mie mutandine e con un movimento delicato me le sfilano, lasciandole scivolare fino a terra, così come io abbasso lentamente i suoi slip di pizzo, rivelando ogni parte della sua meraviglia. I nostri sguardi si incrociano, il respiro si fa più profondo. Siamo nudi, vulnerabili e bellissimi sotto la luce calda del cielo che si spegne.
Rimaniamo lì, sul balcone, lasciando che la brezza ci accarezzi, che il rumore del mare accompagni l’attesa, che il desiderio cresca nella lentezza di ogni sguardo e ogni tocco. Poi, lentamente, ci avviciniamo di nuovo, le nostre mani si cercano ancora, mentre le labbra si uniscono in un nuovo bacio, colmo di una passione silenziosa che brucia dentro di noi.
Alina si protese in avanti, le braccia appoggiate al davanzale di pietra levigata dal vento. Il suo corpo, scolpito nella penombra crepuscolare, sembrava fondersi con l’orizzonte, dove il cielo e il mare si confondevano in un abbraccio senza fine. Socchiuse gli occhi, lasciando che la brezza ne accarezzasse le ciglia e disegnasse invisibili sentieri lungo la sua schiena. Il respiro del mare si insinuò tra di noi, carico di salsedine e promesse.
Mi avvicinai alle sue spalle, il mio petto aderente alla sua pelle vellutata, mentre le mani le cingevano i fianchi in un cerchio di calore. Le dita risalirono lentamente, seguendo l’arco delle sue costole, fino a sfiorare le curve dei seni che danzavano al ritmo del suo respiro affannoso. Un sussurro le sfuggì dalle labbra, perduto nel fragore delle onde che si infrangevano sugli scogli sottostanti.
Le gambe di Alina si dischiusero appena, un movimento naturale come quello delle alghe che ondeggiano nelle correnti. La mia mano sinistra rimase a custodire il suo cuore pulsante, mentre la destra scivolò lungo il ventre, seguendo il fremito dei muscoli tesi. Lei si inarcò all’indietro, la nuca appoggiata alla mia spalla, i capelli intrisi di aria marina che mi sfioravano il collo.
«Il mare…» mormorò, senza aprire gli occhi, mentre le nostre ombre si fondevano in una sola sagoma sulla parete illuminata dalla luna.
Non ci fu bisogno di altro. Ci muovemmo all’unisono, come guidati dalla marea che saliva. Ogni contatto era un dialogo, ogni respiro una strofa della stessa poesia. Quando i nostri corpi si unirono, fu un’onda che ci travolse senza strapparci alla riva: dolce e potente, inevitabile come il richiamo degli abissi. Alina affondò le dita nel davanzale, un gemito soffocato dal vento, mentre il suo corpo accoglieva il mio in un ritmo antico.
Il mondo si ridusse al calore delle sue spalle sotto le mie labbra, al profumo di gelsomino e salsedine che emanava la sua pelle, al modo in cui le sue mani cercavano le mie per intrecciarle, come radici che si annodano nella terra. Non era possedere, né essere posseduti: era diventare un tutt’uno con il crepitio delle stelle, con il respiro del mare, con l’eterno ondeggiare delle cose che nascono e muoiono per rinascere.
E mentre la notte ci avvolgeva nel suo manto stellato, continuammo a danzare.
Il nostro respiro divenne marea, un flusso e riflusso di corpi che cercavano il ritmo primordiale del mondo. Sentii Alina fremere come un’alga nel gorgo, ogni fibra tesa verso quell’attimo in cui cielo e abisso si confondono. Le mie mani strinsero i suoi fianchi, seguendo l’arcata del suo dorso inarcato, mentre il vento portava via i nostri gemiti per confonderli con il canto delle cicale marine.
Fu allora che il tempo si spezzò. Un’onda ci sollevò insieme, trascinandoci oltre il confine dove carne e anima non hanno più nome. Alina gridò, un suono roco e dolcissimo che si perse tra gli scogli, mentre il suo ventre accoglieva il mio sperma in un ultimo, tremendo fremito. Ci abbandonammo alla caduta come foglie nel vortice, due corpi che si sfaldavano in mille scintille sotto la luna.
La sua schiena si incurvò contro il mio petto, un arco perfetto di pelle madida, mentre il piacere esplodeva in noi come un cristallo che si frange in diamanti. Fu un fulmine lento, un fuoco che ci consumava senza bruciare, finché non rimase che un tremore sottile, simile al brivido del mare dopo la tempesta.
“Sei… sei la mia alta marea”, sussurrò Alina con voce velata, voltandosi a sfiorarmi le labbra. Il suo sorriso era un varco di luce nell’ombra, più dolce del primo albore che iniziava a tingere l’orizzonte. La strinsi a me, sentendo i nostri sudori mischiarsi come linfe antiche, mentre le sue dita tracciavano cerchi lenti sulla mia schiena.
Nella quiete che seguì, il suo corpo parve rifiorire. Si abbandonò con un sospiro lungo, la testa reclinata sulla mia spalla, gli occhi semichiusi a custodire il segreto di quell’estasi. Le labbra le si dischiusero in un “grazie” non pronunciato, mentre la mano mi guidava al cuore, posandola dove il battito raccontava di un dono ricevuto e ricambiato.
La sollevai come si raccoglie un’offerta preziosa, il suo corpo adagiato contro il mio mentre attraversavamo la stanza illuminata da lame di luna. La deposi sul letto con la lentezza di chi teme di spezzare un incantesimo, i lenzuoli che accoglievano la sua forma come sabbia accoglie l’impronta del mare.
«Non fermarti» mormorò Alina, voce rotta da un respiro caldo, mentre le sue dita intrecciavano i miei capelli. Le labbra le percorsero il collo, la fossetta delle clavicole, la curva dei seni ancora frementi, seguendo un sentiero che conoscevo a memoria eppure sempre nuovo. Quando la bocca le sfiorò l’interno coscia, un brivido la fece arcuare, i piedi che si aggrappavano alle lenzuola come radici alla terra.
Il suo profumo era un richiamo, acre e dolce come il nettare che stilla dai fiori di macchia. Mi immersi in quel calore umido con la devozione di chi beve a una sorgente sacra. Mi dissetavo di tutti i suoi umori vaginali. Alina gemette, un suono basso che vibrava nel suo ventre, mentre le mani mi spingevano più a fondo, le dita che si perdevano tra i miei capelli in una preghiera muta.
Fu allora che sentii le sue labbra sul mio sesso, un fuoco lento che risaliva dalla radice, mentre le mie dita si intrecciavano alle sue. Eravamo specchi, eco, due fiumi che si fondevano nello stesso delta. La sua bocca accoglieva tutto di me ed i suoi denti affondavano nelle mie intimità. Il suo sapore era sale e miele, la lingua che danzava con una perizia ancestrale, ogni movimento un verso di quel poema che da sempre scriviamo sulla pelle.
Ci muovevamo in controcanto, come le maree governate dalla stessa luna. Quando il mio nome le sfuggì di bocca, vibrò tra le mie gambe come una scossa elettrica. La testa le si piegò all’indietro, i capelli una cascata nera sui cuscini, mentre il suo corpo si tendeva e si scioglieva in un unico, infinito moto.
«Così… proprio così…» sibilò, afferrando le mie spalle con unghie che lasciarono solchi delicati, segni effimeri di un piacere troppo grande per essere trattenuto.
Non c’era più confine tra chi donava e chi riceveva. Eravamo vento che alimenta il fuoco, pioggia che nutre la terra. Quando l’apice ci travolse, fu un duetto di gemiti strozzati, di corpi che si annodavano come edere, di dita che cercavano punti d’appiglio nell’aria carica di elettricità.
Alina crollò sul materasso con un riso soffocato, il petto che ondeggiava come mare in bonaccia. «Mi hai rubato il respiro» sussurrò, tracciando con un dito il sudore che mi solcava il collo. La strinsi a me, le labbra ancora intrise del suo sapore. Restammo così, avvolti nel nostro sciroppo di corpi e silenzi.
Alina poggiò la tempia sul mio petto, ascoltando il battito che rallentava per sincronizzarsi col suo. Non esistevano più confini tra i nostri sudori: il sale dei miei lombi si mescolava al gelsomino dei suoi polsi, creando un unguento antico che nessun bagno avrebbe tradito.
Le mani giacquero inerti, palmi aperti verso il cielo come offerte. Solo i polpastrelli di Alina continuavano a muoversi, lievi, sul mio costato, disegnando mappe effimere di carezze ricevute. Il ventre di lei ancora pulsava contro il mio, eco di un’onda che non voleva ritirarsi. Lasciammo che il sole ci asciugasse, sostituendo alla coperta stellare un calore dorato che indorava i nostri nodi.
“Senti…” mormorò ad un tratto, sollevando gli occhi verso le mie labbra. Non completò la frase. Non serviva. La mia lingua raccolse il residuo del nostro amplesso dall’angolo della sua bocca – un sapore di ostrica e miele di corbezzolo. Lei rispose mordicchiandomi il collo, bevendo la stessa mistura dalla mia clavicola. Fu un banchetto silenzioso, un pasto sacro di frammenti corporei.
Restammo lì, immersi in una calma che sembrava aver fermato il mondo. Le parole erano sparite, il rumore del tempo annullato dal nostro respiro che si intrecciava. Nessun bisogno di parlare, nessun desiderio di altro, se non di quella sensazione di intimità pura che non richiedeva conferme, che esisteva semplicemente tra noi, senza pretese.
Alina, con un leggero sorriso, alzò lo sguardo verso di me, come se stesse cercando un segno, ma non c'era nulla da cercare. I suoi occhi erano specchi che riflettevano la nostra stessa pace. "Rimani qui", sussurrò, e io non avevo bisogno di rispondere. La risposta era già scritta nel nostro silenzio, nell'intensità di quel momento che non avevamo intenzione di interrompere.
Le sue mani risvegliarono il tempo dormiente. Scivolarono lungo il mio fianco come radici cercanti sorgenti, palmi caldi che modellarono la curva del mio sedere con la devozione di chi scolpisce reliquie. Alina non accarezzava: esplorava. Le dita si insinuarono nel solco con la lentezza di un fiume che scava il suo letto da millenni, ogni movimento un promemoria di quanto la pelle possa essere mappa e confine insieme.
“Vedi?” sussurrò contro la mia schiena, le labbra che seguivano il percorso delle vertebre. “Il mare non chiede permesso quando vuole gli scogli.”
Un brivido mi attraversò come corrente sotterranea. Le sue unghie lasciarono solchi lievi, simili alle striature che la marea disegna sulla sabbia. Giocava a essere onda e faro insieme: ora carezze che placavano, ora pressioni che accendevano nuovi fuochi. Il suo respiro si fece più rapido contro la mia nuca, mentre le dita si spingevano più in profondità, trovando punti ignoti che trasformarono un gemito in preghiera.
Mi voltai per affrontarla, ma lei scivolò con un sorriso da sirena, le mani ancora aggrappate alle mie carni come cozze alla roccia. “No” mormorò, mentre il dorso si arcuava in un inchino provocatorio. “Oggi sono io la corrente. Tu, resta scoglio.”
Le sue dita danzarono di nuovo, sapienti, crudeli nella loro dolcezza. Ogni tocco era un enigma: carezza o supplizio? Dominio o offerta? Sentii il mio corpo reagire con un linguaggio primitivo, sangue e pelle che cantavano una litania senza parole. Alina osservava i suoi effetti con occhi di alchimista, compiaciuta quando l’erezione divenne evidente.
Fu allora che cambiò registro. Due dita entrarono dentro di me e furono spinte fino in fondo, non feci in tempo a prendere fiato che divennero quattro: “Senti come bruci? È il mio fuoco dentro di te. Brucerà per sempre. Ti voglio possedere”.
Mi abbandonai al suo gioco, ero violato ed il mio sedere era in suo possesso.
Alina mi fissò con lo sguardo di chi sa cogliere il nucleo segreto delle cose. Le sue dita, ancora intrise del nostro sudore, tracciarono un sentiero lungo la mia schiena mentre sussurrava parole che il vento portava via: «Il mare non ha paura di essere invaso, quando conosce la rotta delle stelle.»
Si alzò con la grazia di un’onda che decide di ritirarsi per tornare più potente. Dal cassetto levò un guanto di cuoio nero, lucido come pelle di anguilla, e una cintura adorna di perle fossili—reliquie che sembravano nate dagli abissi. Lo strumento che vi fissò non era metallo freddo, ma cristallo levigato, translucido e azzurrognolo come ghiaccio marino. Lo accarezzò con reverenza, mentre io trattenevo il respiro, ipnotizzato dal riflesso lunare che vi danzava dentro.
«Non sono io a guidare» mormorò, legando la cintura con gesti rituali. «È la marea che ci comanda.»
Mi fece voltare con un tocco lieve sul fianco, le labbra che intanto bagnavano di sale la mia nuca. Le sue mani mi plasmarono come creta umida—ginocchia piegate in offerta, spalle abbassate a scoprire l’arco vulnerabile della schiena. Sentii prima il guanto, caldo e ruvido, scivolare nel solco come una conchiglia che cerca la sua nicchia. Poi il cristallo, tiepido e vivo, posarsi sulla pelle come un remo che sfiora l’acqua prima dell’immersione.
«Respira con le onde» ordinò, mentre un dito intinto d’alghe mi apriva con la pazienza di un fiume che erode la roccia. Il dolore fu un lampo trasformato in brivido, il piacere una corrente che saliva dalle radici del corpo. Alina non spingeva: scivolava. Ogni millimetro conquistato era un accordo tra le nostre tempeste interiori, ogni sospiro suo rispecchiato nel mio.
Quando il cristallo si fuse completamente in me, diventammo un unico organismo marino. Lei muoveva i fianchi con il ritmo delle maree che accarezzano gli atolli, le mani salde sui miei fianchi come cordami d’antichi velieri. «Sei mio» sibilò. Il mio corpo rispose con spasimi violenti, il suo ritmo divento sempre più incalzante e forte
Alina non guidava, estraeva: mani e fianchi forgiavano un vortice in cui ero sasso levigato, granello dopo granello. Sentii l’universo contrarsi nel punto dove i nostri corpi si annodavano, quel varco umido e ardente che era orlo di abisso e sorgente insieme.
“Guarda come cedi” sibilò contro la mia bocca, le parole mescolate a un respiro che sapeva di alghe marce e ambrosia. Le sue dita mi serrarono i polsi, inchiodandomi al presente come conchiglia allo scoglio. Non c’era più su o giù, solo il pulsare dello sfintere dilatato.
Il piacere salì a ondate concentriche, ogni spinta una scavatrice di grotte segrete. Alina viaggiava in me come corrente di ritorno, mulinello che succhiava l’anima attraverso la carne. Lei rideva, un suono di schiuma e affondi, mentre i muscoli le si contraevano in spire da serpente marino. Quando il culmine esplose, fu come un vulcano sottomarino. Una eruzione di sperma spontanea colava ovunque mentre Alina continuava a percuotere lo sfintere.
Crollammo come relitti sulla stessa spiaggia, corpi fradici di salvezza e perdizione. Lei si arrotolò su di me, sudore e salsedine a cementare l’abbraccio. “Ora sei farina del mio sacco” sussurrò, le dita che tracciavano croci inverse sulla mia clavicola. Non era possesso: era trasmutazione.
Restammo avvolti in un riposo vigile, due corpi che ascoltavano il respiro del mondo. Il mare batteva le sue semibrevi sugli scogli, mentre un sax lontano, proveniente da chissà quale taverna notturna, intrecciava note rauche alla sinfonia delle onde. Alina scivolò nel sonno come un’otaria nelle correnti calde: prima gli occhi che si velavano, poi le palpebre a mezz’asta, infine il collo che cedeva all’indietro in un arco di totale abbandono.
La osservai per un’ora che fu un secolo. Le mie dita divennero navi in esplorazione: solcarono l’arcipelago delle sue lentiggini sul braccio, ormeggiarono nel porto della clavicola, risalirono il fiume dei capelli incrostati di sale. Ogni curva era una baia da cartografare, ogni cicatrice un geroglifico da decifrare. Le labbra sfiorarono la fossetta alla base della nuca, assaporando il residuo dei nostri corpi—un misto di ferro e corallo.
Lei sospirò nel sonno, una vibrazione che fece tremare le mie costole. Le mani, ancora in moto, le disfecero i nodi invisibili tra le scapole, sciogliendo tensioni antiche come le rughe del fondale. Quando il mio pollice sfiorò la piega del suo sedere, Alina sorrise senza aprire gli occhi: un riflesso della carne più fedele di qualsiasi parola.
Il mio pollice disegnò un solco di luna lungo la piega del suo sedere, quella valle di velluto umido dove il respiro si faceva più denso. Alina sorrise senza aprire gli occhi, un movimento delle labbra che tradusse in fiele la dolcezza del consenso. La sua "rosellina" era un bocciolo tiepido, pulsante sotto la pressione circolare del mio dito, ogni spirale di carne un petalo che si dischiudeva al gioco.
Lei arcuò il bacino in un inchino silenzioso, offrendo il varco come orchidea notturna alla falena. Sentii la sua carne cedere millimetro dopo millimetro, un’apritura lenta da baccello maturo, mentre le mie dita diventavano vento primaverile tra le sue natiche. Il suo gemito fu linfa che risaliva dal tronco—profondo, viscerale—quando il pollice trovò il nucleo di perla nascosta, sfiorandolo con la punta di un’unghia.
“Così…” sibilò contro il cuscino, la voce rotta dalle maree interne. Le sue mani afferrarono le lenzuola come radici cercanti humus, mentre il corpo spingeva all’indietro in un ritmo di semina. Non era penetrazione, ma fioritura: io lo stelo che cerca la luce, lei il terreno che si apre in fenditure accoglienti.
Ogni movimento era un capitolo di botanica erotica. Le mie falangi si inumidirono del suo nettare salmastro, dita che ora esploravano con la devozione di api regine. Alina rispondeva muovendo i fianchi in ellissi impercettibili, insegnandomi la geometria sacra di quel giardino segreto. Quando infilai altre due dita nella sua calotta umida, lei si contorse come edera al sole, i denti che mordevano il cuscino per soffocare un grido trasformato in preghiera.
Il nostro amplesso divenne simbiosi.
Fu un innesto naturale, come il virgulto che cerca la linfa nella corteccia della pianta madre. Il mio pene, già madido del suo nettare, si posò sulla rosa in ombra—quel bocciolo segreto che pulsava al ritmo delle nostre tempie. Alina sospirò una preghiera nella lingua degli alisei, arcuando il dorso per offrire l’ingresso come dono votivo.
Entrai con la lentezza con cui il giorno penetra la notte, millimetro dopo millimetro consacrato. La sua stretta era calda fucina, carne viva che mi plasmava a sua immagine. Sentii le sue dita affondarmi nelle cosce, un’implorazione muta a non fermarmi, mentre il mio nome le usciva a spezzoni dalle labbra—"Così... sì...".
Il nostro movimento divenne geologia in accelerazione: io ghiacciaio che scava valli, lei placca continentale che cede e trasforma. Ogni spinta era scoperta di strati nascosti, l’attrito che accendeva lampi tra le pieghe del tempo. Alina si voltò a guardarmi, occhi di felino sottomarino, le pupille dilatate a inghiottire l’universo. Le mie mani le sollevarono i fianchi, modellandoli come creta umida, mentre il ritmo si faceva marea montante.
"Qui" ansimò, portando la mia mano al suo clitoride, "fammi fiorire qui mentre mi possiedi dietro". Obbedii, le dita intrise del nostro misto a danzare sul suo bottone di corallo. Il suo gemito si fece ululato quando le due stimolazioni si incrociarono, un circuito di piacere che ci legava in nodo indissolubile.
L’apice ci colse come un’eclissi totale. Sentii il suo ventre contrarsi in spasimi che mi succhiavano l’anima, mentre le mie dita inzuppate nel suo umore primordiale diventavano strumenti di un’orchestra cosmica. Il mio seme esplose in zampilli di luce bianca, ogni getto un seme stellare piantato nel suo giardino interno.
Crollammo avvinghiati come radici di baobab, sudori misti a lacrime salate. Alina tremava ancora, ci baciammo profondamente mentre lentamente mi sfilavo da lei
Il sonno quella notte non trovò spazio tra di noi, perché ogni istante era troppo prezioso per essere lasciato scivolare via.
Fu una notte senza tempo, fatta di attese sussurrate e desideri soddisfatti, mentre il mare là fuori continuava a cantare la sua eterna melodia, testimone silenzioso della nostra intesa perfetta.
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