Sopravvivenza

di
genere
gay

Basta scendere di pochi metri nell’azzurro smeraldo perché la profondità del mare assorba colori e suoni rendendo il mondo un indistinto orizzonte plumbeo.
In questo parcheggio dell’ipermercato, due piani sotto terra, l’ambiente è spettrale; i neon fluorescenti si alternano a quelli spenti, sfumandomi la pelle di nuances grigie e gialle, in una monotonia interrotta da appliques industriali intermittenti, ronzanti. Corridoi si perdono nel buio, piazzali deserti, volte di cemento prefabbricato si appoggiano su pilastri strisciati da paraurti da malaccorti automobilisti. Negli angoli più bui, carrelli sfasciati, cartoni fradici, macerie di risulta accatastate e mai smaltite.
Percorro a passo d’uomo la carreggiata. Vedo la sua autovettura. La fronteggio. Un breve lampeggio di domanda. Un breve lampeggio di risposta. Mi accosto. Spengo il motore. Spengo la sigaretta e alzo il finestrino.
Il tutto pare la trama di uno scontato film postapocalittico, i sopravvissuti a qualche catastrofe rifugiati nelle viscere della terra tentando di resistere fino ad un futuro che chissà se verrà. Rifiuti di una vita che cambia e alle quale non ci si adatta, né ci si arrende; una vita che si incrina e, non riuscendo ad aggiustarla, ci si accontenta di tenerla sbeccata.

A cosa sto resistendo io, lo so benissimo, ed è inutile che me lo ripeta ancora una volta; a cosa stia sopravvivendo lui, lo ha celato nell’annuncio che mi ha portato fino a qui; ma per chi, come me, fa continuo esercizio di esegesi, svelare la dissimulazione non è problema; giusto qualche minuto di lavoro straordinario.
Bisex, ovvero una moglie che ciabatta in casa e che gli fa sembrare ogni contatto sessuale - anche quello con un uomo - più desiderabile dell’attesa del prossimo dovere coniugale.
Disponibile in orario di pranzo, una vita vessata da un capo ansioso che lesina i permessi e che sopporta solo opponendo l’inconfessabile segreto al suo panino al bar.
Dei giorni feriali: quando non c’è da portare i figli a danza, piscina, catechismo, calcio e a mangiare la pasta al forno dagli suoceri.
Sulle prestazioni richieste è inutile soffermarsi, sono facilmente immaginabili, com’è immaginabile che la moglie, tanti anni fa, quelle stesse prestazioni le abbia tollerate in un attimo di follia quando entrambi brilli dopo un Capodanno fra amici, ma che ormai siano sepolte sotto una coltre di quotidianità.
Non mercenario, perché diversamente, avendone la disponibilità, sarebbe andato a puttane e fine della trasgressiva trasgressione.

Scendo, i lampeggiare dell’antifurto tingono per un attimo il mio lividore di arancione, e salgo sulla sua macchina. E’ seduto sul posto del passeggero, lo schienale reclinato lo lascia allungato, la faccia è stilizzata dal buio, ma il biancore dell’inguine mi fa capire che è già pronto, pantaloni e mutande raccolte alle caviglie. Come mi immaginavo, un seggiolino sui sedili posteriori e un pupazzo di peluche, lo sguardo pudicamente rivolto all’esterno.
Mi acciambello sul sedile del guidatore, con la lingua esploro il pube cercando a tentoni il sesso; trovatolo, lo ingoio e ne abbraccio la base con le labbra. E’ in semierezione, ma gli bastano pochi secondi per sentirlo gonfiare e spingere sul fondo della bocca.
Mi afferra i capelli e cerca di forzarmi a muovermi; io faccio resistenza e gli scosto la mano, so che dopo un lungo digiuno bisogna nutrirsi con lentezza, senza abbuffarsi cedendo alla tentazione del tutto subito.
Così, senza scorrere lungo l’asta, con la bocca stringo e rilascio la base, mentre la lingua gli accarezza il glande, accanendosi sulla zona del frenulo.
Pare che centellinare il piacere sia di suo gradimento, perché comincia a emettere una nota bassa e vibrante, quasi un agonizzare intervallato da un farfugliare incomprensibile; gli sto rubando l’anima, e a questo furto ognuno reagisce a modo suo.
Così mi sistemo più comodo, non ho nessuna fretta e non voglio essere disturbato nella accuratezza del mio furto; sento la sua mano infilarsi nei miei pantaloni, scavalcare l’elastico degli slip, e dopo aver percorso il solco delle natiche, raggiungere il buco e introdurci un dito; certo, bellezza, volentieri, ma magari non qui, e non ora: trovami un letto e della luce, e ti prendo dentro me con tutto il desiderio del mondo: questa è solo la buccia, se credi ti posso rubare tutta la polpa.
Ci stiamo avvicinando alla fine, puntando i piedi e le spalle si inarca spingendosi ancora più in profondità; assecondo morbidamente le spinte, e quando sento le prime contrazioni e gusto le prime goccioline, finalmente lo accontento, e dopo un paio di passate delle labbra lungo il sesso lo sento godere, l’urlare della voce che riempie l’abitacolo e gli schizzi di sperma che mi inondano la bocca.
Non riesco a non pensare, mentre trangugio il suo seme, che sono qui, in questo parcheggio due piani sotto terra, proprio per questo motivo: per sentire, in gola, nelle viscere, scorrere quel liquido biancastro e vischioso che mi irriga di vitalità e mi fa rinviare, per qualche secondo, l’appuntamento con il salto nel grande buio.
Mentre il suo respiro si placa, lo lecco per asciugarlo delle ultime gocce e lo tampono delicatamente con un fazzolettino di carta.
Scivolo dal sedile, scendo e risalgo nella mia macchina. Metto in moto. Parto.
Risalgo le rampe del parcheggio, e ad ogni metro di risalita torno a rivedere i colori, a risentire i suoni, a respirare aria che sa di autunno e non di gasolio.
In quella mezz’ora durante la quale l’ho spompinato, là fuori la vita ha continuato a scorrere, qualcuno è nato, qualcun’altro è morto, altri addirittura si sono dichiarati il loro amore e si sono baciati con emozione per la prima volta.
Io, della vita, ora ne sento in bocca tutto il gusto aspro e amarognolo. Lui, dopo un breve momento di piacere, non so.
scritto il
2018-10-25
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