Miyakojima 宮古島, anima selvaggia del Giappone
di
Yuko
genere
sentimentali
Miyakojima 宮古島, anima selvaggia del Giappone
Isole di Miyako
Okinawa, teatro di sanguinose battaglie a seguito delle quali fu concepita l'idea dell'orrore nucleare.
Tristi memorie lontane nel tempo, ma cicatrici indelebili nel cuore di ogni giapponese.
Lo stupido e insensato espansionismo imperiale e una punizione che ancora mi lascia sgomenta.
Dall'aeroporto del Kansai di Osaka sorvoliamo il mare a sud di Hiroshima e ancora più lontani da Nagasaki.
Di cattivo umore, irascibile e colma di inconsolabile disperazione, superiamo l'isola delle grandi stragi di truppe giapponesi e marines americani, e resto ancora sopraffatta dall'insensato istinto di autodistruzione umana.
Lo sguardo fisso al finestrino, le lacrime bruciano ancora gli occhi quando atterriamo all'isola di Miyako.
Poche formalità e subito, su una bicicletta a noleggio, scappo in cerca di solitudine.
Un'occhiata fugace alle spiagge principali, i lunghi ponti verso isole minori, ma il mio spirito anela a luoghi deserti.
Mi affaccio tra gli scorci della spessa coltre vegetale dove il mare smeraldo concede riposo agli occhi, feriti dall'accecante bagliore delle spiagge.
Sabbia così candida che anche la mia pelle, in confronto, sembra scura.
Non era previsto un ripensamento agli orrori della guerra, ma era ingenuo immaginare che non sarei rimasta commossa anche dal semplice sentir nominare certi luoghi, pur solamente sfiorati durante un viaggio con ben altri scopi.
Lo scotto bruciante di chi, in Giappone, ci torna solo raramente e con soverchiante fatica deve fare i conti con un passato impossibile da digerire e che ricade addosso tutto insieme e tutto d'un colpo.
Ora più che mai ho necessità di vento e di silenzio, spazi incontaminati e luoghi deserti.
La natura pura e innocente per tentare di cicatrizzare ferite che mai completamente rimargineranno.
O almeno un balsamo per lenire sofferenze solo accantonate.
Abbandono bici e sandali al bordo della vegetazione. La musica dei Kikagaku Moyo, che mi ha accompagnata sui nastri d'asfalto, ora si spegne per lasciare la scena alla canzone del vento e delle onde.
Ultimo assaggio di saturo verde bottiglia della bassa vegetazione e già il mio sguardo contempla questa spiaggia più simile a una distesa di neve che a un deserto di coralli.
La fine rena mi passa, inconsistente, tra le dita. Passeggio su una distesa di atomi impalpabili. La sensazione di inoltrarmi su una nube, i miei piedi affondano in uno strato di calda polvere.
Bagliori di fini cristalli e microscopiche conchiglie.
Ai miei occhi affascinati le sfumature turchesi si presentano come davanti a un sipario che lentamente si apre sulla barriera corallina.
In un baleno sono già in costume e alterno il caldo della sabbia al fresco ristoratore delle onde che insidiano la terra ferma.
Primordiali sensazioni, le onde tra le dita dei piedi dissolvono la rena tonificandomi la pelle.
Osservo le mie unghie smaltate, spettinate da spirali di sabbia disciolte in acque cristalline.
Trasparenze irresistibili, sfumature di acquamarina che si inoltrano nel blu cobalto.
Lo spettro visibile oscilla tra l'indaco e il turchese in una moltitudine di varianti che la mia mente non riesce a contenere, arrendendosi alle sensazioni del cuore.
Onde al largo raccontano di fondali scolpiti dalle barriere coralline.
Mi sdraio sul bagnasciuga e osservo le onde che giocano sulle mie gambe.
Il mare mi ghermisce e si ritrae in una finta fuga, per ritornare più veemente a sfidare le mie cosce.
Mi inoltro quel poco verso il mare per consentire alla fresca tentazione di raggiungermi il costume.
La sabbia gioca sulla mia pelle, il refrigerio si alterna al calore del sole.
La pelle lucida rispecchia i raggi del sole in lampi accecanti.
Pelle glabra accarezzata dalle acque oceaniche, l'orgoglio di sentirmi asiatica.
Muovo le dita dei piedi incontro alle onde che, con paziente insistenza, mi chiamano ad immergere il mio corpo.
Sincronizzo il mio respiro su quello, più ampio e profondo, del mare tropicale.
Ad ogni onda mi inebrio di ossigeno e di sentori marini e quando l'onda mi abbandona rilascio, con il mio respiro, le angosce che gravano ancora sul mio cuore.
Mi volto e non c'è nessuno, in questo spicchio di spiaggia incognito e trascurato dai circuiti per turisti.
Nessuna orma offende la distesa di grani che palpita di luce a ridosso delle profondità smeraldine.
Mi tolgo il reggiseno e osservo le mie curve.
Pelle ancora più candida circonda gli scuri atolli delle areole. Palme tropicali sono i capezzoli svettanti. Li tocco con le dita per risvegliarli dopo il sopore celato dal tessuto.
Scivolo tra le onde, cullata dalla sabbia che riceve lo spessore del mio corpo e si adegua come una comoda poltrona.
Mi sdraio lasciandomi lambire dalle onde.
Il mare mi sferza le cosce e si inoltra sulla schiena, facendomi sussultare ad ogni nuovo assalto.
Gli schizzi mi risalgono sul ventre inoltrandosi tra i seni, morbidi scogli arrotondati.
I capelli si mescolano alla sabbia bagnata, come alghe agonizzanti, scuri sargassi, buio vuoto nel candore della spiaggia.
Spettinata dalle onde, pelle lucente di acqua salata, le braccia allargate e le dita che penetrano la sabbia, mi abbandono come una sirena morente sulla riva solitaria.
Finalmente a casa.
Giapponese nella sua terra, asiatica nel suo continente.
Un corpo abbandonato nelle ultime isole dell'arcipelago che sfidano l'oceano Pacifico.
E mi ritornano ancora alla mente le conturbanti armonie dei Kikagaku Moyo.
“Old snow, white sun”
Isola di Miyako, orgoglio di essere giapponese.
優子
Per un assaggio dei Kikagaku Moyo, assaporate le sfumature dell’arcipelago delle Ryūkyū ascoltando la musica
https://www.youtube.com/watch?v=PpnQlnra_to
oppure
https://www.youtube.com/watch?v=DzIOE9FxFPY
Isole di Miyako
Okinawa, teatro di sanguinose battaglie a seguito delle quali fu concepita l'idea dell'orrore nucleare.
Tristi memorie lontane nel tempo, ma cicatrici indelebili nel cuore di ogni giapponese.
Lo stupido e insensato espansionismo imperiale e una punizione che ancora mi lascia sgomenta.
Dall'aeroporto del Kansai di Osaka sorvoliamo il mare a sud di Hiroshima e ancora più lontani da Nagasaki.
Di cattivo umore, irascibile e colma di inconsolabile disperazione, superiamo l'isola delle grandi stragi di truppe giapponesi e marines americani, e resto ancora sopraffatta dall'insensato istinto di autodistruzione umana.
Lo sguardo fisso al finestrino, le lacrime bruciano ancora gli occhi quando atterriamo all'isola di Miyako.
Poche formalità e subito, su una bicicletta a noleggio, scappo in cerca di solitudine.
Un'occhiata fugace alle spiagge principali, i lunghi ponti verso isole minori, ma il mio spirito anela a luoghi deserti.
Mi affaccio tra gli scorci della spessa coltre vegetale dove il mare smeraldo concede riposo agli occhi, feriti dall'accecante bagliore delle spiagge.
Sabbia così candida che anche la mia pelle, in confronto, sembra scura.
Non era previsto un ripensamento agli orrori della guerra, ma era ingenuo immaginare che non sarei rimasta commossa anche dal semplice sentir nominare certi luoghi, pur solamente sfiorati durante un viaggio con ben altri scopi.
Lo scotto bruciante di chi, in Giappone, ci torna solo raramente e con soverchiante fatica deve fare i conti con un passato impossibile da digerire e che ricade addosso tutto insieme e tutto d'un colpo.
Ora più che mai ho necessità di vento e di silenzio, spazi incontaminati e luoghi deserti.
La natura pura e innocente per tentare di cicatrizzare ferite che mai completamente rimargineranno.
O almeno un balsamo per lenire sofferenze solo accantonate.
Abbandono bici e sandali al bordo della vegetazione. La musica dei Kikagaku Moyo, che mi ha accompagnata sui nastri d'asfalto, ora si spegne per lasciare la scena alla canzone del vento e delle onde.
Ultimo assaggio di saturo verde bottiglia della bassa vegetazione e già il mio sguardo contempla questa spiaggia più simile a una distesa di neve che a un deserto di coralli.
La fine rena mi passa, inconsistente, tra le dita. Passeggio su una distesa di atomi impalpabili. La sensazione di inoltrarmi su una nube, i miei piedi affondano in uno strato di calda polvere.
Bagliori di fini cristalli e microscopiche conchiglie.
Ai miei occhi affascinati le sfumature turchesi si presentano come davanti a un sipario che lentamente si apre sulla barriera corallina.
In un baleno sono già in costume e alterno il caldo della sabbia al fresco ristoratore delle onde che insidiano la terra ferma.
Primordiali sensazioni, le onde tra le dita dei piedi dissolvono la rena tonificandomi la pelle.
Osservo le mie unghie smaltate, spettinate da spirali di sabbia disciolte in acque cristalline.
Trasparenze irresistibili, sfumature di acquamarina che si inoltrano nel blu cobalto.
Lo spettro visibile oscilla tra l'indaco e il turchese in una moltitudine di varianti che la mia mente non riesce a contenere, arrendendosi alle sensazioni del cuore.
Onde al largo raccontano di fondali scolpiti dalle barriere coralline.
Mi sdraio sul bagnasciuga e osservo le onde che giocano sulle mie gambe.
Il mare mi ghermisce e si ritrae in una finta fuga, per ritornare più veemente a sfidare le mie cosce.
Mi inoltro quel poco verso il mare per consentire alla fresca tentazione di raggiungermi il costume.
La sabbia gioca sulla mia pelle, il refrigerio si alterna al calore del sole.
La pelle lucida rispecchia i raggi del sole in lampi accecanti.
Pelle glabra accarezzata dalle acque oceaniche, l'orgoglio di sentirmi asiatica.
Muovo le dita dei piedi incontro alle onde che, con paziente insistenza, mi chiamano ad immergere il mio corpo.
Sincronizzo il mio respiro su quello, più ampio e profondo, del mare tropicale.
Ad ogni onda mi inebrio di ossigeno e di sentori marini e quando l'onda mi abbandona rilascio, con il mio respiro, le angosce che gravano ancora sul mio cuore.
Mi volto e non c'è nessuno, in questo spicchio di spiaggia incognito e trascurato dai circuiti per turisti.
Nessuna orma offende la distesa di grani che palpita di luce a ridosso delle profondità smeraldine.
Mi tolgo il reggiseno e osservo le mie curve.
Pelle ancora più candida circonda gli scuri atolli delle areole. Palme tropicali sono i capezzoli svettanti. Li tocco con le dita per risvegliarli dopo il sopore celato dal tessuto.
Scivolo tra le onde, cullata dalla sabbia che riceve lo spessore del mio corpo e si adegua come una comoda poltrona.
Mi sdraio lasciandomi lambire dalle onde.
Il mare mi sferza le cosce e si inoltra sulla schiena, facendomi sussultare ad ogni nuovo assalto.
Gli schizzi mi risalgono sul ventre inoltrandosi tra i seni, morbidi scogli arrotondati.
I capelli si mescolano alla sabbia bagnata, come alghe agonizzanti, scuri sargassi, buio vuoto nel candore della spiaggia.
Spettinata dalle onde, pelle lucente di acqua salata, le braccia allargate e le dita che penetrano la sabbia, mi abbandono come una sirena morente sulla riva solitaria.
Finalmente a casa.
Giapponese nella sua terra, asiatica nel suo continente.
Un corpo abbandonato nelle ultime isole dell'arcipelago che sfidano l'oceano Pacifico.
E mi ritornano ancora alla mente le conturbanti armonie dei Kikagaku Moyo.
“Old snow, white sun”
Isola di Miyako, orgoglio di essere giapponese.
優子
Per un assaggio dei Kikagaku Moyo, assaporate le sfumature dell’arcipelago delle Ryūkyū ascoltando la musica
https://www.youtube.com/watch?v=PpnQlnra_to
oppure
https://www.youtube.com/watch?v=DzIOE9FxFPY
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