Sottomissione al Dominio (parte 5)
di
Kugher
genere
sadomaso
Era una sua caratteristica appisolarsi, anche se per poco, dopo un forte e potente orgasmo.
Già nella fase del dormiveglia percepì il piacere delle carezze che Monica le stava facendo sui piedi e sulle gambe. La ragazza non aveva goduto e si scoprì insensibile a questa circostanza. Ci pensò, ma decise di non farne cenno. Voleva vedere cosa avrebbe detto o fatto lei, se l’avesse reclamato o meno.
Quei confini, ancora ampi, erano da esplorare.
Non volle aprire gli occhi, concentrata sul piacere di quelle carezze e sul loro significato.
La veglia si fece sempre più strada.
L’invaso del piacere, ormai vuoto, poteva adesso lasciare spazio alla fredda lucidità.
Fece fatica ad aprire gli occhi perché avrebbe significato tornare nel reale.
Non la fece smettere né tolse i piedi da quel corpo.
La guardò in viso e, col piede, le fece capire che voleva guardare il suo sguardo.
Le piacque molto ciò che vide, ciò che trasmetteva, avendo anche cambiato delicatezza la carezza ai piedi che accompagnava lo sguardo.
Si chiese cosa ci stesse facendo, lì, con la figlia della sua amica sotto i piedi.
La sua razionalità tornò, purtroppo troppo prepotentemente, ma non tanto da portarla a privarsi della comodità del poggiapiedi umano.
Si domandò sulle implicazioni, sui se, i ma, su cosa avesse fatto, attribuendo a sé tutta la responsabilità.
Non toglieva ancora i piedi da quel corpo che iniziava a sentire bruciare dal calore del proprio pentimento.
Cazzo, era la figlia di una sua amica, era una ragazza che, se avesse avuto qualche anno in meno, avrebbe potuto essere sua figlia.
Eppure stava lì, a terra, sotto i suoi piedi a guardarla mentre con le mani le trasmetteva tranquillità.
Si chiese cosa stesse pensando, se i suoi pensieri fossero come i suoi o diversi e, se diversi, quanto lo fossero.
Si interrogò sulle sue emozioni, sensazioni.
La voleva mandare via per poter pensare.
Voleva che restasse perché forse non ci sarebbe stata un’altra volta.
La voleva sotto i suoi piedi tanto quanto voleva levarli ed ordinarle di andarsene, sperando che dimenticasse ma che poi tornasse.
Poi chiuse gli occhi, si appoggiò ancora allo schienale e ripensò al piacere provato, alla sensazione del dominio, del potere su altra persona, alla sensazione di possesso.
Quando aprì gli occhi per sorriderle, trovò ancora il suo sguardo ed il suo sorriso.
Alla mente le venne la parola “schiava” e la trovò, anche foneticamente, molto bella e sensuale, piena, forte nella sua dolcezza evidenziata dalle “morbide” lettere “a”.
Non parlarono di quello, anzi, non parlarono proprio, come se ciascuna dovesse pensare o, forse, proprio perché non c’era nulla da dire, ma solo da far scivolare via la sensazione provata, trattenendo il calore di ciò che è stato piacevole per entrambi, seppur specularmente.
Anna era vicina alla porta, ancora chiusa, e la osservava mentre, con le scarpe in mano ed il bel vestito leggero che le fasciava il corpo, si avvicinava sorridente dopo essere uscita dal bagno.
Giuntale davanti, accompagnata dal sorriso da quando era uscita dalla toilette, si fermò e, quale saluto, si inginocchiò per baciarle i piedi scalzi.
Anna non sapeva se lo avesse fatto per rassicurarla che non era successo nulla di male, anzi, che la cosa era piaciuta. Forse lo aveva fatto solo per proseguire nei fatti ciò che era appena iniziato. Forse voleva solo consolidare e confermare i rispettivi ruoli.
Forse, forse, forse, forse.
Sapeva solo che le piaceva averla prostrata ai suoi piedi e che aveva gradito moltissimo il lieve bacio al piede nudo.
Forse anche Monica in quel momento si stava chiedendo quali fossero i suoi pensieri.
O forse no.
Basta coi forse, coi ma.
Il momento era piacevole e, nonostante il recente orgasmo, provò un fremito nelle zone giuste.
Monica aveva la fronte a terra.
Forse aspettava l’ordine di potersi alzare.
Non glielo diede.
Basta coi forse, i se, i ma.
Alzò il piede e lo pose sul capo della ragazza, che restò ferma.
Schiacciò un poco. Non tanto per farle male, quanto per affermare qualcosa. Non sapeva perché lo avesse fatto. Sapeva che le era piaciuto schiacciare e che lei sentì, dopo averlo fatto, di avere affermato qualcosa.
Stava per chiedersi se la sua sensazione coincidesse con quella di Monica ma scosse la testa, non vista.
Tolse il piede e, simpaticamente, spinse via un poco la testa.
“Vattene ora, dai”.
Anna restò ferma e ricambiò appena il bacio sulle labbra che, sorridendo, Monica le aveva dato mentre apriva la porta.
“Ciao Padrona”.
Ancora un brivido.
Anna era una donna razionale, abituata ad analizzare sempre i comportamenti, quando possibile prima di assumerli e, una volta avvenuti, se utile ad analizzarli.
Quanto avvenuto con Monica e con sé stessa, meritava sicuramente una disamina delle proprie emozioni e della propria anima.
Aveva un turbinio in testa che, più si allontanava nel tempo dai fatti accaduti, più le apparivano chiari, così come l’acqua del mare in prossimità della riva, torbida al passaggio del bagnante e, col tempo, resa limpida dal deposito della sabbia sul fondo.
Le sue emozioni, forti, prorompenti, le furono chiari.
Il dominio, il possesso, poter disporre di altra persona per la propria comodità e piacere, tutti atti dettati da egoismo erotico.
Non ne aveva parlato con Monica ma il suo comportamento aveva parlato per lei. I fatti, le reazioni, sono forme di comunicazione a volte più forti delle parole al punto da rendere queste ultime inutili.
Monica era stata passiva ed ubbidiente. L’aveva trovata bagnata e sempre reattiva nella sua sottomissione.
Il saluto era un “arrivederci” ed il “ciao Padrona” proiettava nel futuro quanto consolidatosi in quel presente, definendo o, anzi, accettando e sancendo i rispettivi ruoli, riconoscendo quello di Anna e, quindi, assoggettandosi ad esso.
Restava sempre il problema della razionalità di Anna.
Accettate le emozioni di quel tipo di rapporto la cui propensione, evidentemente, era stato stata latente per anni, avendo riconosciuto l’istinto con il quale si era mosso, come se fosse consolidata già da tempo la possibilità di usare Monica a proprio piacimento.
Alla luce degli eventi, aveva compreso il significato di molte azioni servili di Monica e tanti suoi atteggiamenti che, di fatto, l’avevano condotta all’episodio vissuto.
Andando avanti sarebbe toccato a lei il compito della gestione.
Restava il dato incontrovertibile che la schiava era la figlia di una sua amica e che, negli ultimi anni, aveva visto “crescere”.
Era combattuta, vedendola ora in duplice veste, quella di schiava (da usare a piacimento) e quella di figlia di amica (quindi persona intoccabile).
L’immagine sovrapposta che conteneva le due vesti, continuava ad alternarsi, fino ad iniziare a prevalere la prima, quella della schiava.
Si rendeva conto che era il pulsare della figa a farla ragionare, complice anche l’età della schiava che si era ormai affrancata dalla madre.
Non riusciva a negare a sé stessa il piacere proprio di avere sotto i piedi la figlia dell’amica, quale elemento segreto, che rendeva più piccante il dominio.
Così, la veste che inizialmente la frenava, sempre più diveniva quell’elemento ulteriore che la attirava e le faceva sempre più amplificare il desiderio di averla ai propri piedi.
Per giorni non si erano sentite, né avrebbe dovuto essercene il motivo.
Non sapeva cosa avesse pensato e provato Monica nei successivi.
Il dato ultimo era ciò che aveva provato nella sottomissione.
Aveva un solo modo di capirlo.
“Domani, alle 15, da me”.
Un ordine che non lasciava scampo. La risposta avrebbe potuto essere solo “sì” (voglio essere la tua schiava) oppure “no” (è stato bello ma non si continua).
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krugher.1863@gmail.com
Già nella fase del dormiveglia percepì il piacere delle carezze che Monica le stava facendo sui piedi e sulle gambe. La ragazza non aveva goduto e si scoprì insensibile a questa circostanza. Ci pensò, ma decise di non farne cenno. Voleva vedere cosa avrebbe detto o fatto lei, se l’avesse reclamato o meno.
Quei confini, ancora ampi, erano da esplorare.
Non volle aprire gli occhi, concentrata sul piacere di quelle carezze e sul loro significato.
La veglia si fece sempre più strada.
L’invaso del piacere, ormai vuoto, poteva adesso lasciare spazio alla fredda lucidità.
Fece fatica ad aprire gli occhi perché avrebbe significato tornare nel reale.
Non la fece smettere né tolse i piedi da quel corpo.
La guardò in viso e, col piede, le fece capire che voleva guardare il suo sguardo.
Le piacque molto ciò che vide, ciò che trasmetteva, avendo anche cambiato delicatezza la carezza ai piedi che accompagnava lo sguardo.
Si chiese cosa ci stesse facendo, lì, con la figlia della sua amica sotto i piedi.
La sua razionalità tornò, purtroppo troppo prepotentemente, ma non tanto da portarla a privarsi della comodità del poggiapiedi umano.
Si domandò sulle implicazioni, sui se, i ma, su cosa avesse fatto, attribuendo a sé tutta la responsabilità.
Non toglieva ancora i piedi da quel corpo che iniziava a sentire bruciare dal calore del proprio pentimento.
Cazzo, era la figlia di una sua amica, era una ragazza che, se avesse avuto qualche anno in meno, avrebbe potuto essere sua figlia.
Eppure stava lì, a terra, sotto i suoi piedi a guardarla mentre con le mani le trasmetteva tranquillità.
Si chiese cosa stesse pensando, se i suoi pensieri fossero come i suoi o diversi e, se diversi, quanto lo fossero.
Si interrogò sulle sue emozioni, sensazioni.
La voleva mandare via per poter pensare.
Voleva che restasse perché forse non ci sarebbe stata un’altra volta.
La voleva sotto i suoi piedi tanto quanto voleva levarli ed ordinarle di andarsene, sperando che dimenticasse ma che poi tornasse.
Poi chiuse gli occhi, si appoggiò ancora allo schienale e ripensò al piacere provato, alla sensazione del dominio, del potere su altra persona, alla sensazione di possesso.
Quando aprì gli occhi per sorriderle, trovò ancora il suo sguardo ed il suo sorriso.
Alla mente le venne la parola “schiava” e la trovò, anche foneticamente, molto bella e sensuale, piena, forte nella sua dolcezza evidenziata dalle “morbide” lettere “a”.
Non parlarono di quello, anzi, non parlarono proprio, come se ciascuna dovesse pensare o, forse, proprio perché non c’era nulla da dire, ma solo da far scivolare via la sensazione provata, trattenendo il calore di ciò che è stato piacevole per entrambi, seppur specularmente.
Anna era vicina alla porta, ancora chiusa, e la osservava mentre, con le scarpe in mano ed il bel vestito leggero che le fasciava il corpo, si avvicinava sorridente dopo essere uscita dal bagno.
Giuntale davanti, accompagnata dal sorriso da quando era uscita dalla toilette, si fermò e, quale saluto, si inginocchiò per baciarle i piedi scalzi.
Anna non sapeva se lo avesse fatto per rassicurarla che non era successo nulla di male, anzi, che la cosa era piaciuta. Forse lo aveva fatto solo per proseguire nei fatti ciò che era appena iniziato. Forse voleva solo consolidare e confermare i rispettivi ruoli.
Forse, forse, forse, forse.
Sapeva solo che le piaceva averla prostrata ai suoi piedi e che aveva gradito moltissimo il lieve bacio al piede nudo.
Forse anche Monica in quel momento si stava chiedendo quali fossero i suoi pensieri.
O forse no.
Basta coi forse, coi ma.
Il momento era piacevole e, nonostante il recente orgasmo, provò un fremito nelle zone giuste.
Monica aveva la fronte a terra.
Forse aspettava l’ordine di potersi alzare.
Non glielo diede.
Basta coi forse, i se, i ma.
Alzò il piede e lo pose sul capo della ragazza, che restò ferma.
Schiacciò un poco. Non tanto per farle male, quanto per affermare qualcosa. Non sapeva perché lo avesse fatto. Sapeva che le era piaciuto schiacciare e che lei sentì, dopo averlo fatto, di avere affermato qualcosa.
Stava per chiedersi se la sua sensazione coincidesse con quella di Monica ma scosse la testa, non vista.
Tolse il piede e, simpaticamente, spinse via un poco la testa.
“Vattene ora, dai”.
Anna restò ferma e ricambiò appena il bacio sulle labbra che, sorridendo, Monica le aveva dato mentre apriva la porta.
“Ciao Padrona”.
Ancora un brivido.
Anna era una donna razionale, abituata ad analizzare sempre i comportamenti, quando possibile prima di assumerli e, una volta avvenuti, se utile ad analizzarli.
Quanto avvenuto con Monica e con sé stessa, meritava sicuramente una disamina delle proprie emozioni e della propria anima.
Aveva un turbinio in testa che, più si allontanava nel tempo dai fatti accaduti, più le apparivano chiari, così come l’acqua del mare in prossimità della riva, torbida al passaggio del bagnante e, col tempo, resa limpida dal deposito della sabbia sul fondo.
Le sue emozioni, forti, prorompenti, le furono chiari.
Il dominio, il possesso, poter disporre di altra persona per la propria comodità e piacere, tutti atti dettati da egoismo erotico.
Non ne aveva parlato con Monica ma il suo comportamento aveva parlato per lei. I fatti, le reazioni, sono forme di comunicazione a volte più forti delle parole al punto da rendere queste ultime inutili.
Monica era stata passiva ed ubbidiente. L’aveva trovata bagnata e sempre reattiva nella sua sottomissione.
Il saluto era un “arrivederci” ed il “ciao Padrona” proiettava nel futuro quanto consolidatosi in quel presente, definendo o, anzi, accettando e sancendo i rispettivi ruoli, riconoscendo quello di Anna e, quindi, assoggettandosi ad esso.
Restava sempre il problema della razionalità di Anna.
Accettate le emozioni di quel tipo di rapporto la cui propensione, evidentemente, era stato stata latente per anni, avendo riconosciuto l’istinto con il quale si era mosso, come se fosse consolidata già da tempo la possibilità di usare Monica a proprio piacimento.
Alla luce degli eventi, aveva compreso il significato di molte azioni servili di Monica e tanti suoi atteggiamenti che, di fatto, l’avevano condotta all’episodio vissuto.
Andando avanti sarebbe toccato a lei il compito della gestione.
Restava il dato incontrovertibile che la schiava era la figlia di una sua amica e che, negli ultimi anni, aveva visto “crescere”.
Era combattuta, vedendola ora in duplice veste, quella di schiava (da usare a piacimento) e quella di figlia di amica (quindi persona intoccabile).
L’immagine sovrapposta che conteneva le due vesti, continuava ad alternarsi, fino ad iniziare a prevalere la prima, quella della schiava.
Si rendeva conto che era il pulsare della figa a farla ragionare, complice anche l’età della schiava che si era ormai affrancata dalla madre.
Non riusciva a negare a sé stessa il piacere proprio di avere sotto i piedi la figlia dell’amica, quale elemento segreto, che rendeva più piccante il dominio.
Così, la veste che inizialmente la frenava, sempre più diveniva quell’elemento ulteriore che la attirava e le faceva sempre più amplificare il desiderio di averla ai propri piedi.
Per giorni non si erano sentite, né avrebbe dovuto essercene il motivo.
Non sapeva cosa avesse pensato e provato Monica nei successivi.
Il dato ultimo era ciò che aveva provato nella sottomissione.
Aveva un solo modo di capirlo.
“Domani, alle 15, da me”.
Un ordine che non lasciava scampo. La risposta avrebbe potuto essere solo “sì” (voglio essere la tua schiava) oppure “no” (è stato bello ma non si continua).
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