L'avvocatessa, schiava del boss (parte 1)
di
Kugher
genere
sadomaso
Ci sono momenti che sconvolgono una vita, un’esistenza, momenti le cui conseguenze si porteranno addosso come cicatrici, nei quali, mentre vengono vissuti, ci si sente come in un vortice che strappa via e nei confronti del quale si è inermi, non si sa dove attaccarsi e se esiste qualcosa da attaccarsi. Momenti in cui ci si sente aprire un baratro sotto i piedi e la caduta è infinita, in quell’antro buio, stretto, doloroso.
“Sua figlia è stata rapita, Avvocatessa, deve venire con noi, abbiamo bisogno di parlarle”.
La polizia era andata a prenderla fuori dal Tribunale.
Quella frase le provocò la sensazione del tempo che si allunga e si accorcia, nella cui sospensione temporale non si capisce più dove ci si trova e sembra che la tua vita sia in mano a quelle persone in divisa che ti stanno attorno e ti fanno domande troppo lente.
Non sentì la voce del taxista, non sentì il clacson del camion dal quale rischiò di essere investita, non sentì gli insulti del camionista, non sentì il portiere dirle che il Dott. Maffei, il boss al quale aveva evitato il carcere, l’avrebbe ricevuta subito.
Senza sapere come fosse accaduto, quanto tempo fosse passato, si trovò davanti a quell’uomo che, con fredda calma, la stava ascoltando, seduto accanto a lei sul divano.
Capiva solo che le domande che le faceva erano diverse da quelle che le avevano fatto in Questura, erano poche e tutte formulate con una voce fredda e pratica, sempre calma.
Non lo sentì uscire dalla stanza. Se ne accorse solo quando un suo dipendente fece la comparsa con un bicchiere di whisky che mandò giù in un colpo solo, tenendo quel cazzo di bicchiere con due mani perché non voleva saperne di stare fermo nel tragitto troppo lungo prima di arrivare alla sua bocca.
Ne bevve un altro.
Troppe cose non sapeva, non sentiva. Aveva perso la cognizione del tempo.
Le parve di essere sollevata verso l’alto in una luce calda e tranquillizzante quando il Dott. Maffei era rientrato in stanza e, seduto accanto sul divano con le sue mani nelle sue, le disse che l’avevano trovata.
“Dov’é? Cosa le è successo? Come sta?”.
“Non lo so Magda, i miei uomini sono fuori. Sanno chi c’è dentro e sanno cosa fanno: rapiscono, stuprano, torturano ed uccidono”.
Magda ebbe un mancamento, soprattutto quando sentì la domanda che l’uomo le rivolse.
“Perchè dovrei aiutarla?”.
Si sentì salvata e poi rigettata nel baratro.
L’avevano trovata, loro, i delinquenti l’avevano trovata, non la polizia, i delinquenti. Ora erano lì, ad un passo, una porta da sfondare la divideva dalla salvezza di sua figlia.
“La prego Dott. Maffei, la prego. Salvi mia figlia, la mia vita sarà sua”.
Non fu lei ad imbeccarlo. L’uomo già sapeva cosa avrebbe chiesto in cambio, ma prima voleva che la donna fosse all’angolo e non le restasse che una sola scelta.
“Se la tiro fuori viva tu sei mia, diventi la mia schiava”.
Forse capì, forse no, forse le implicazioni erano troppo grandi, sicuramente la posta in gioco era oltre ogni sua possibile valutazione.
“Sì, sì, sarò la sua schiava, la salvi la prego, la salvi. Entrate, subito!, la prego”.
L’uomo sorrise.
“Entrate e mettetela in sicurezza”.
Ordini precisi, secchi, di chi sa cosa fare e come.
L’avevano trovata legata ed imbavagliata. Erano arrivati in tempo e non l’avevano ancora stuprata, solo torturata un po’.
Non era una storia di vendetta per un processo finito male, non era una storia di ricatti. Era solo una cazzo di storia di stupro.
“I miei uomini sono ancora lì. Tua figlia sta bene. La stanno portando qui”.
La sua voce era fredda, troppo fredda, pragmatica e fredda. Sentiva che c’era qualcosa nell’aria che non capiva ma la inquietava.
Se l’avevano salvata e la stavano portando lì, perché i suoi uomini erano ancora là dove l’avevano trovata?
“L’avrebbero stuprata ed uccisa. Li conosciamo. I miei uomini li tengono sotto tiro. Cosa devono fare?”.
Stuprata ed uccisa. Quelle parole l’avevano gelata, le avevano fatto vedere il soffio che l’aveva salvata dal treno in corsa che le avrebbe investito la vita togliendola a sua figlia.
Bastardi.
Stuprata ed uccisa.
Guardò l’uomo che non le staccava di dosso quegli occhi freddi.
Si sentì montare dentro una rabbia enorme, una forza devastante che la accecò e le strappò il cuore per il tempo necessario di rispondere alla domanda.
“Uccideteli”.
Era una condanna a morte, senza appello, senza processo, senza pentimento, senza rimorso.
Fu liberatorio quando sentì ripetere al telefono quell’ordine, con una sola parola che le rimbombò nella testa, come se si trovasse in quel locale dove era stata tenuta segregata sua figlia e quella parola avesse rimbombato nel silenzio grave che aleggiava nella stanza.
“Uccideteli”.
Dal viva voce si sentirono 4 spari.
Erano in 4 quei bastardi.
In 4 avrebbero abusato di sua figlia.
Quattro colpi che la calmarono, che le comunicarono che era tutto finito. Non era stata fatta giustizia, ma vendetta, quella che le placò l’anima e la avvolse in una luce calda e rilassante.
Adesso pensava solo che sua figlia stava tornando.
Adesso si sentiva calma.
Adesso guardava quegli occhi che aveva di fronte ai quali trasmise tutta la sua riconoscenza.
Adesso quegli occhi erano cambiati, non erano freddi ma accesi e sapevano di potere, di possesso, occhi di chi sta per portare la cambiale all’incasso, sicuro che sarà pagato perchè ciò che li univa non era solo una promessa ma 4 omicidi.
Vide quell’uomo allungare la mano e prenderle i capelli, fino a guidarla inginocchio davanti a lui, tra le sue gambe.
Non servirono ordini, parole, gesti.
Gli sbottonò i pantaloni e prese in bocca il suo cazzo, trovandolo già duro.
In quel pompino mise tutta sé stessa, senza pensare a sua figlia in salvo, ai 4 spari, al dipendente che accompagnava sempre quell’uomo che era lì accanto e la guardava come se fosse un oggetto, così come la guardava l’uomo al quale stava dando piacere e che, evidentemente, pensava solo al proprio orgasmo, considerandola solo come qualcosa di eccitante, utile al suo piacere che le riversò in bocca, in gola, nello stomaco mentre la teneva ferma per i capelli per impedirle di togliere la bocca.
Quando cessò la presa ai capelli, si scoprì sfinita, esausta, vuota.
Si accasciò a terra, avendo quale unico orizzonte i piedi di quell’uomo, le sue scarpe.
Trovò assurdo pensare quanto fossero lucide quelle scarpe di cuoio nel momento in cui le baciò, entrambe, più volte, prima di appoggiare il viso a terra lì accanto.
Non si mosse quando il suo Padrone appoggiò il piede sul suo viso usandolo come fosse un tappeto, roba sua.
L’uomo che entrò in stanza per avvisare che la figlia era arrivata la trovò ancora a terra, ai piedi del suo capo. La vide ridestarsi, come svegliata da un sogno simile alle montagne russe. La vide alzarsi senza alcuna fretta né mostrando imbarazzo per essere stata vista ai piedi di un uomo.
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krugher.1863@gmail.com
“Sua figlia è stata rapita, Avvocatessa, deve venire con noi, abbiamo bisogno di parlarle”.
La polizia era andata a prenderla fuori dal Tribunale.
Quella frase le provocò la sensazione del tempo che si allunga e si accorcia, nella cui sospensione temporale non si capisce più dove ci si trova e sembra che la tua vita sia in mano a quelle persone in divisa che ti stanno attorno e ti fanno domande troppo lente.
Non sentì la voce del taxista, non sentì il clacson del camion dal quale rischiò di essere investita, non sentì gli insulti del camionista, non sentì il portiere dirle che il Dott. Maffei, il boss al quale aveva evitato il carcere, l’avrebbe ricevuta subito.
Senza sapere come fosse accaduto, quanto tempo fosse passato, si trovò davanti a quell’uomo che, con fredda calma, la stava ascoltando, seduto accanto a lei sul divano.
Capiva solo che le domande che le faceva erano diverse da quelle che le avevano fatto in Questura, erano poche e tutte formulate con una voce fredda e pratica, sempre calma.
Non lo sentì uscire dalla stanza. Se ne accorse solo quando un suo dipendente fece la comparsa con un bicchiere di whisky che mandò giù in un colpo solo, tenendo quel cazzo di bicchiere con due mani perché non voleva saperne di stare fermo nel tragitto troppo lungo prima di arrivare alla sua bocca.
Ne bevve un altro.
Troppe cose non sapeva, non sentiva. Aveva perso la cognizione del tempo.
Le parve di essere sollevata verso l’alto in una luce calda e tranquillizzante quando il Dott. Maffei era rientrato in stanza e, seduto accanto sul divano con le sue mani nelle sue, le disse che l’avevano trovata.
“Dov’é? Cosa le è successo? Come sta?”.
“Non lo so Magda, i miei uomini sono fuori. Sanno chi c’è dentro e sanno cosa fanno: rapiscono, stuprano, torturano ed uccidono”.
Magda ebbe un mancamento, soprattutto quando sentì la domanda che l’uomo le rivolse.
“Perchè dovrei aiutarla?”.
Si sentì salvata e poi rigettata nel baratro.
L’avevano trovata, loro, i delinquenti l’avevano trovata, non la polizia, i delinquenti. Ora erano lì, ad un passo, una porta da sfondare la divideva dalla salvezza di sua figlia.
“La prego Dott. Maffei, la prego. Salvi mia figlia, la mia vita sarà sua”.
Non fu lei ad imbeccarlo. L’uomo già sapeva cosa avrebbe chiesto in cambio, ma prima voleva che la donna fosse all’angolo e non le restasse che una sola scelta.
“Se la tiro fuori viva tu sei mia, diventi la mia schiava”.
Forse capì, forse no, forse le implicazioni erano troppo grandi, sicuramente la posta in gioco era oltre ogni sua possibile valutazione.
“Sì, sì, sarò la sua schiava, la salvi la prego, la salvi. Entrate, subito!, la prego”.
L’uomo sorrise.
“Entrate e mettetela in sicurezza”.
Ordini precisi, secchi, di chi sa cosa fare e come.
L’avevano trovata legata ed imbavagliata. Erano arrivati in tempo e non l’avevano ancora stuprata, solo torturata un po’.
Non era una storia di vendetta per un processo finito male, non era una storia di ricatti. Era solo una cazzo di storia di stupro.
“I miei uomini sono ancora lì. Tua figlia sta bene. La stanno portando qui”.
La sua voce era fredda, troppo fredda, pragmatica e fredda. Sentiva che c’era qualcosa nell’aria che non capiva ma la inquietava.
Se l’avevano salvata e la stavano portando lì, perché i suoi uomini erano ancora là dove l’avevano trovata?
“L’avrebbero stuprata ed uccisa. Li conosciamo. I miei uomini li tengono sotto tiro. Cosa devono fare?”.
Stuprata ed uccisa. Quelle parole l’avevano gelata, le avevano fatto vedere il soffio che l’aveva salvata dal treno in corsa che le avrebbe investito la vita togliendola a sua figlia.
Bastardi.
Stuprata ed uccisa.
Guardò l’uomo che non le staccava di dosso quegli occhi freddi.
Si sentì montare dentro una rabbia enorme, una forza devastante che la accecò e le strappò il cuore per il tempo necessario di rispondere alla domanda.
“Uccideteli”.
Era una condanna a morte, senza appello, senza processo, senza pentimento, senza rimorso.
Fu liberatorio quando sentì ripetere al telefono quell’ordine, con una sola parola che le rimbombò nella testa, come se si trovasse in quel locale dove era stata tenuta segregata sua figlia e quella parola avesse rimbombato nel silenzio grave che aleggiava nella stanza.
“Uccideteli”.
Dal viva voce si sentirono 4 spari.
Erano in 4 quei bastardi.
In 4 avrebbero abusato di sua figlia.
Quattro colpi che la calmarono, che le comunicarono che era tutto finito. Non era stata fatta giustizia, ma vendetta, quella che le placò l’anima e la avvolse in una luce calda e rilassante.
Adesso pensava solo che sua figlia stava tornando.
Adesso si sentiva calma.
Adesso guardava quegli occhi che aveva di fronte ai quali trasmise tutta la sua riconoscenza.
Adesso quegli occhi erano cambiati, non erano freddi ma accesi e sapevano di potere, di possesso, occhi di chi sta per portare la cambiale all’incasso, sicuro che sarà pagato perchè ciò che li univa non era solo una promessa ma 4 omicidi.
Vide quell’uomo allungare la mano e prenderle i capelli, fino a guidarla inginocchio davanti a lui, tra le sue gambe.
Non servirono ordini, parole, gesti.
Gli sbottonò i pantaloni e prese in bocca il suo cazzo, trovandolo già duro.
In quel pompino mise tutta sé stessa, senza pensare a sua figlia in salvo, ai 4 spari, al dipendente che accompagnava sempre quell’uomo che era lì accanto e la guardava come se fosse un oggetto, così come la guardava l’uomo al quale stava dando piacere e che, evidentemente, pensava solo al proprio orgasmo, considerandola solo come qualcosa di eccitante, utile al suo piacere che le riversò in bocca, in gola, nello stomaco mentre la teneva ferma per i capelli per impedirle di togliere la bocca.
Quando cessò la presa ai capelli, si scoprì sfinita, esausta, vuota.
Si accasciò a terra, avendo quale unico orizzonte i piedi di quell’uomo, le sue scarpe.
Trovò assurdo pensare quanto fossero lucide quelle scarpe di cuoio nel momento in cui le baciò, entrambe, più volte, prima di appoggiare il viso a terra lì accanto.
Non si mosse quando il suo Padrone appoggiò il piede sul suo viso usandolo come fosse un tappeto, roba sua.
L’uomo che entrò in stanza per avvisare che la figlia era arrivata la trovò ancora a terra, ai piedi del suo capo. La vide ridestarsi, come svegliata da un sogno simile alle montagne russe. La vide alzarsi senza alcuna fretta né mostrando imbarazzo per essere stata vista ai piedi di un uomo.
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