L'avvocatessa, schiava del boss (prologo)

di
genere
sadomaso

Magda sulla scrivania trovò un nuovo fascicolo. La sera prima l’aveva chiamata Ettore, per dirle che avrebbe dovuto seguire quel caso.
Si era innervosita perché ultimamente l’avevano caricata di lavoro ed avrebbe fatto fatica a seguire bene tutti i fascicoli affidati a lei.
“Dai Magda, ti eri occupata di un caso simile e hai già alcune notizie che potrebbero essere utili. Assegniamo ad altri dello studio i casi dell’inquinamento e della bancarotta”.
“Sei uno stronzo, adesso che avevo iniziato a metterci su bene la testa li devo passare a Luisa e magari devo pure darle i primi suggerimenti. Giusto perché te la scopi, immagino”.
“Ti voglio bene anche io, Magda”.
Con Ettore si lamentava sempre, ma aveva un buon rapporto, anche di stima e fiducia, ed alla fine aveva accettato.
Solito delitto della criminalità organizzata, ma pagavano bene e lei era brava, in studio lo sapevano.
In taxi avrebbe dovuto guardare gli ultimi documenti per andare a colloquio col cliente, ma si abbandonò sul sedile, senza ascoltare l’autista che si distraeva dalla guida per guardarle la scollatura dallo specchietto.
Le piaceva essere guardata, attirare gli sguardi degli uomini che non avrebbero potuto averla. Accavallò le lunghe gambe facendo in modo che il fruscio delle autoreggenti si potesse sentire. Le piaceva anche provocare, sapere di avere accesso alla sfera del desiderio altrui, foss’anche solo uno sconosciuto.
Si dimenticò dell’autista e guardò la vita fuori dal finestrino senza prestarvi particolare attenzione.
Sua figlia era rientrata tardi anche la sera prima. I suoi rendimenti universitari erano calati ultimamente.
Le sarebbe passata la cotta per quel ragazzo. Sperava che si trattasse dei tipici problemi da ragazzi anche se ormai era maggiorenne. Quella sera l’avrebbe portata al cinema e, magari, sarebbero riuscite a parlare un po’.
“Eccoci arrivati Avvocatessa, va a tirare fuori un delinquente?”.
Solite battute del cazzo. Prima di uscire dal veicolo fece salire un poco la gonna per far vedere al coglione cosa non avrebbe mai potuto toccare.
Sorrise quando, entrando in carcere, vide che c’era Matteo al controllo degli ingressi. Le era simpatico quell’uomo.
“Dottoré, è sempre un piacere quando viene a farci visita, la sua bellezza mi illumina la giornata”.
“Matteo, sei un ruffiano nato e tua moglie una santa”.
“Dottoré, mia moglie è la donna più fortunata del mondo ad avere incontrato me”.
“Ma lei lo sa di essere così fortunata?”.
“Ma solo perché non ho incontrato prima lei, Dottoré”.
“Apri questa porta Matteo, prima che mi venga voglia di scappare con te su un’isola deserta”.
Era la prima volta che incontrava quel cliente, anzi, era la prima volta che quel cliente si rivolgeva allo studio presso il quale lavorava.
Si diceva che Luca Maffei fosse un boss di un certo peso. Lei avrebbe dovuto difenderlo da un’accusa di riciclaggio. Non vi era traccia nel fascicolo di riferimenti ad un'affiliazione mafiosa, ma nell’ambiente era noto.
Il suo sguardo la inquietò e lo trovò indefinibile. La guardava dritto negli occhi e nemmeno per un secondo spostò lo sguardo sulla sua scollatura né, aveva fatto caso, le aveva guardato le gambe quando era entrata.
Prima dell’udienza si incontrarono ancora qualche volta e, pur avendo tenuto un comportamento da signore, le aveva fatto capire che la trovava seducente, ma mai senza fare riferimenti diretti o volgari.
La inquietava, la inquietava ma la attirava con la sua composta serietà, con la sua eleganza nei movimenti e, soprattutto, con il suo sguardo che non si staccava mai dai suoi occhi.
Il giorno del processo era elegantissimo.
“Avvocato, questa sera la aspetto per un aperitivo, voglio festeggiare con lei la mia scarcerazione”.
“Dott. Maffei, la ringrazio ma vorrei rientrare presto a casa questa sera, il suo processo mi ha sfiancata”.
La stretta alla mano era ferma ma non forte e tardò a rilasciargliela. Non la stava trattenendo, la stava tenendo, come se fosse in suo potere averla in mano.
“La aspetto alle 19. La manderò a prendere sotto il suo studio”.
Non le diede modo di rispondere e salì in auto.
In taxi si scoprì a ripensare all’episodio accaduto. Non aveva mai accettato inviti dai clienti e neanche dai colleghi di studio.
Quando aveva voglia di fare sesso cercava fuori dall’ambiente lavorativo. Solitamente sceglieva uomini più giovani e prestanti. Li chiamava “stalloni”, non tanto per le loro prestazioni, quanto perché li vedeva solo come animali da monta, un paio di volte e via, prima che diventassero noiosi e, soprattutto, coi quali poteva fare ciò che voleva, tenendo lei le redini.
Si stupì di non avere considerato quell’invito come uno dei soliti, da rifiutare con cortesia.
Si convinse che non ci sarebbe andata e alle 19 avrebbe chiesto al portiere di avvisare l’autista che non si sarebbe presentata.
Invece andò quella sera, attratta da quell’uomo e dal suo corteggiamento elegante che contrastava con quegli occhi che la guardavano come fosse una preda da catturare, ingabbiare ed usare.
La stimolava ma la respingeva.
L’attraeva ma la spaventava.
Dopo quella serata, nella quale apprezzò il delicato corteggiamento sessuale senza che fosse varcata la soglia del buon gusto, quell’uomo restò relegato in un angolo del cervello che lei voleva tenere chiuso e sul quale far depositare sopra la polvere.


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krugher.1863@gmail.com
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scritto il
2022-11-06
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