Il locale

di
genere
sadomaso

Dal finestrino del taxi, Valeria osservava i muri della sua città che scorrevano, o correvano, troppo veloci.
Aveva sempre amato correre, per quel senso di libertà che le dava, come se la velocità potesse dare modo di vedere più vita. Nella sua camera aveva ancora appesa la medaglia più importante, più importante per lei, almeno, quella che aveva vinto con la rabbia dentro, quella della disperazione perché suo padre se ne era andato qualche giorno prima, per sempre.
Adesso adorava camminare, guardarsi intorno affamata di particolari, quelli che la velocità non consente di osservare, quelli che rendono speciale ogni singola cosa, distinguendola da tutte le altre e rendendola unica, quelli che fanno innamorare di quella cosa piuttosto che di un’altra.
“Eccoci arrivati, Signora. Sono 16 euro”.
Valeria fu strappata dalle sue sensazioni. Durante il viaggio si era lasciata cadere in un vortice di calme emozioni, in cui tutto si sovrappone e, nel caos dei pensieri, tutto ha un senso.
Avvertiva ancora il calore che le avevano infuso i versi della poesia che stava leggendo mentre aspettava il taxi, e che le era rimasto dentro anche dopo avere appoggiato il libro di poesie, aperto, accanto alla foto che ritraeva suo padre vicino a Simone, l’amore della sua vita.
Il taxista, girandosi per prendere i 20 euro dai quali la cliente non volle il resto, potè apprezzare l’eleganza di quella donna. L’aveva sbirciata a lungo dallo specchietto retrovisore, sicuro di non essere notato da quella Signora persa a guardare fuori dal finestrino. Si convinse che anni addietro avrebbe dovuto essere una gran gnocca.
L'aria fresca ebbe l'effetto di riportarla al presente.
Valeria non aveva mai apprezzato quella lingua di tappeto rosso che, dalla strada, portava all’ingresso del locale, quasi fosse una lingua che introduceva dal mondo esterno nelle fauci del peccato e della lussuria, quella che che sconvolge le membra e le viscere, quella che appaga una volta che è appagata e che, se trascurata, prima o poi richiama l’attenzione verso di sé.
Ricordava benissimo l’interno di quel locale nel quale, guardandosi in giro, si accorse di non conoscere più nessuno. Rise di sé stessa, come se il ritorno lì dentro avesse potuto riportarla nel suo passato.
Aveva sempre amato il momento in cui consegnava il borghese soprabito alla guardarobiera sexy. Lei e suo marito sceglievano sempre quella con il collare in cuoio dal quale pendeva un corto guinzaglio. La fila più lunga era però da quella in stivali alti e che in mano teneva un frustino.
La consegna dell’indumento per lei rappresentava lo spoglio dall’anima per rilevare e vivere le sue emozioni più intime. Lo consegnò ad un giovane ragazzo coi capelli spettinati ad arte, con gli occhi tenuti bassi in maniera molto sexy ed il cui collo era ornato da un bellissimo collare di cuoio.
Passando nel corridoio di specchi, si soffermò ad ammirare la sua immagine al contrario.
Si sedette un po’ in disparte. Quel locale le era sempre piaciuto perché dava modo di assaporare l’ambiente da vari punti di vista.
Riprese confidenza con quel mondo vecchio che ora vedeva pieno di persone per lei nuove.
Le sembrò di vedere un uomo che conosceva. Le parve fosse Franco. Si erano frequentati in serate private ed eccitanti quando lei e suo marito avevano voluto provare una coppia di schiavi.
Lo sguardo vagò verso altre persone di varie età, quasi sperando che, se effettivamente fosse stato Franco, non l’avesse riconosciuta.
Ai tavolini c’erano uomini che avevano accucciate a terra, ai loro piedi, schiave tenute al guinzaglio, mentre parlavano con altre donne sedute sul petto di schiavi nudi.
Le sensazioni cominciarono a farsi strada nelle sue viscere ed il sangue prese velocità.
Fu attratta da una donna che camminava seguita da un ragazzo a 4 zampe che, appena lei si fermava a parlare con qualcuno, si chinava a leccarle i piedi nell'apparente indifferenza della Padrona.
Valeria si spostò in altra parte, dove avrebbe potuto essere più visibile.
Decise di comunicare con il silenzio del proprio corpo.
Accavallò una lunga gamba facendo salire il bordo dell’abito aderente fino ad un punto in cui sarebbe stato legittimo, per un osservatore, chiedersi se stesse o meno indossando le mutandine.
Rispetto al pubblico, le gambe erano appena di lato, provocando una piccola torsione del corpo che aveva l’effetto di slanciare busto e coscia. La caviglia sottile era la prosecuzione della scarpe nere dal tacco alto.
Tra i tanti che si avvicinarono, consentì ad un distinto giovane uomo di inginocchiarsi e di leccarle scarpe e caviglie, senza la possibilità di salire oltre.
Con la punta del frustino faceva pressioni sulla testa ricoperta da lunghi capelli neri, per far capire dove desiderava il tocco della lingua.
Non si fece mancare il piacere del suono del frustino sulla schiena nuda nella quale spiccava il segno rosso da lei lasciato.
Presto provò noia da quella servile lingua sconosciuta. Con il piede sul viso lo spinse via. L’uomo era ancora a terra quando lei, in piedi accanto a lui, fece pressione con la scarpa per fargli capire che avrebbe dovuto stendersi, in modo da essere il suo tappeto mentre si dirigeva al bancone del bar.
Sapeva che lì avrebbe trovato altri uomini stesi a terra, nella speranza e nell’attesa che qualche donna salisse su di loro.
Valeria scelse un giovane dai capelli biondi. Aveva il cazzo duro e privo di peli. Salì sopra e chiese il drink che lei amava.
Fu infastidita quando il tappeto umano le chiese di spostare il tacco.
Alzò il piede giusto per posarlo nuovamente con forza sul petto, avendo cura di premere e roteare il tacco nello stesso punto che aveva provocato la reazione dell’essere insignificante sotto di lei.
“Sei un tappeto? Allora fai il tappeto e taci, altrimenti vai a casa a guardare i cartoni animati”.
Bevve con calma, traendo piacere dai lamenti rassegnati sotto i suoi tacchi. Quell’animale, per lei, era solo un corpo, così come lei per lui, del resto, corpi per soddisfare individualistici desideri che non si sarebbero incontrati e confusi.
Prima di scendere ebbe cura di pesarsi sul tacco e sentire il forte lamento provenire dal pavimento.
Dietro di lei riconobbe subito il rumore dello scudiscio sulla pelle. Quando si voltò, il cuore battè doppiamente qualche colpo nel vedere la bellezza di quelle catene che, pendenti dal soffitto, reggevano una ragazza la cui schiena portava i segni del potere altrui.
Valeria toccò il braccio di colui che evidentemente era il suo Padrone. Fece scorrere la mano dal deltoide al gomito guardandolo negli occhi e sorridendo d’eccitazione.
Abbassò la mano sull’inguine dell’uomo e impugnò cazzo e palle, anche se chiusi nei pantaloni. Strinse appena mentre quel ragazzo la guardava eccitato ed il cui sguardo percorreva il suo corpetto nero e aderente.
Un gesto di potere su colui che, a sua volta, stava esercitando il potere su altra persona.
Cazzo quanto la eccitavano queste cose.
Lasciò la virilità dell’uomo e si avvicinò alla schiava abbandonata alle catene. Le fece scorrere le dita sui segni dello scudiscio. Scese fino alle natiche mentre aderì il suo corpo alla schiena segnata. Infilò una mano tra le cosce della ragazza e con l’altra strizzò un capezzolo, forte, fino a sentire il lamento, mentre le infilava il dito nella figa esposta.
Ritornò dal suo Padrone infilandogli in bocca le dita bagnate dal piacere della sua schiava. Avvicinò la sua bocca alle labbra dell’uomo ancora bagnate dagli umori della schiava e le leccò, per gustare i due sapori mischiati.
“Mi presti lo scudiscio?”
Aveva sempre adorato la forza della frusta, il rumore delle catene scosse dal corpo che reagisce al gesto del potere che ferisce il corpo per scaldare le anime e le viscere.
Quei sei colpi sulla schiena già segnata trasmisero brividi di eccitazione alla sua figa. Prima di restituire lo strumento al Padrone, si posizionò davanti alla schiava e, preso il collo nella sua mano, le leccò le labbra.
Fu lei, questa volta, a scegliere il giovane che l’avrebbe accompagnata al divanetto, avendo cura di individuarne uno un po’ appartato.
Si fece seguire, pretendendo che la testa dello schiavo sfiorasse terra accanto ai suoi tacchi.
Il sangue girava più velocemente dei suoi passi. Le emozioni invadevano le viscere prendendone possesso e sconvolgendone la funzione.
Dalla poltroncina sulla quale si sedette, smise di osservare la vita nel locale per concentrarsi sulla propria.
“Parti dalla punta delle scarpe e sali”.
Adorava essere adorata, adorava prolungare l’attesa della lingua sulla figa, aspettarla, desiderarla, eccitarsi con l’adorazione di una lingua servile.
Aveva la gamba accavallata e muoveva la scarpa per indirizzare la lingua, che avrebbe dovuto accarezzare ogni parte della pelle.
Con la suola accarezzò le labbra dello schiavo.
Quando il giovane posò la lingua sulla caviglia, con la punta della scarpa gli alzò il mento e ne cercò lo sguardo che, subito, venne ricacciato in basso, posando il piede sulla testa per fargli abbassare il capo, Padrona di ogni suo movimento che pensava essere dedicato solo a lei, così come lui pensava che i movimenti della Padrona fossero dedicati a lui.
Giunto alle ginocchia, Valeria scavallò la lunga gamba con un gesto lento e sensuale, allargando le cosce per scoprire l’assenza delle mutandine, inutili baluardo di qualcosa che non doveva essere difeso.
Con la punta del frustino ordinò silenziosamente allo schiavo di passare con la lingua all’interno coscia, rallentando la salita, per prolungare ancora la crescita dell’attesa e del piacere.
Riuscì a togliersi la scarpa per posare il piede nudo sul cazzo duro del giovane, giocandoci e, così, provocando un ulteriore inturgidimento.
Con la dita accarezzò le palle e passò sotto, graffiando con le unghie la pelle delicata, fino a schiacciare col piede il cazzo contro l’inguine del ragazzo. Lo punì con una frustata sulla coscia perché si era distratto con la lingua, maggiormente concentrato sull’azione del piede sul suo cazzo inutile al piacere della Padrona.
Afferrò i lunghi capelli del giovane per trattenere la testa che guidò sulla sua figa.
Prima che la lingua toccasse le grandi labbra sulle quali gli avrebbe schiacciato la faccia, Valeria visse uno di quei momenti che sospendono il tempo, nei quali la lucidità della mente sovrasta le passioni e le pulsioni, ritornando, per la durata di quell’attimo, padrona delle sue sensazioni fino a quel momento governate dalla lussuria, amplificando la durata di quel momento che si espande per consentire, in quella brevità di spazio, di provare ciò che solo il cervello ed il cuore sono in grado di elaborare in termini di emozioni e sensazioni.
Chi era quel corpo accucciato ai suoi piedi? In cosa credeva? Cosa sperava? Cosa sognava? Contro il vento avrebbe spinto o si sarebbe bloccato? Si sentiva solo, come lei? Aveva bisogno di affetto? Come lei?
Non lo sapeva, non le importava, non voleva che gliene importasse.
In quel momento sapeva benissimo che nel rapporto umano stava partendo dalla fine, ma voleva ignorare l’inizio. Non sapeva niente di lui e non voleva che lui sapesse niente di lei.
Stava partendo dalla fine perché non voleva partire dall’inizio, del quale aveva paura.
Gli spinse con rabbia la faccia nella figa.
“Lecca stronzo, fammi godere!”
di
scritto il
2024-08-05
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