L'avvocatessa, schiava del boss (parte 2)
di
Kugher
genere
sadomaso
“Questa sera alle 22”.
Magda rispose al messaggio con l’unica risposta che l’uomo si aspettava: “Sì, Padrone”.
Il Padrone sapeva che si sarebbe presentata, anzi, che avrebbe ubbidito, che si sarebbe liberata da eventuali impegni della cui esistenza non gli interessava nulla.
Quando arrivava quel messaggio le ronzava subito la testa che cominciava a girare, presa da una sensazione indefinibile.
Aspettava e temeva quei messaggi, quegli ordini. Quando arrivava un sms controllava subito il telefono per accertarsi che non fosse lui o che fosse lui.
Era diventata sua. Era diventata una schiava.
La chiamava a piacimento e la usava a piacimento.
A volte la teneva per la notte, a volte la mandava via.
Decideva lui e lei obbediva.
Non avrebbe potuto rifiutarsi. Era prigioniera della sua stessa promessa, prigioniera di quei 4 colpi di pistola che avevano squarciato la sua vita salvando quella di sua figlia.
“Aspettava” il messaggio da un momento all’altro, anche quando nessuno le scriveva allarmandola col bip del telefono.
Era arrivata al punto di togliere la notifica sonora a tutti i messaggi per non essere angosciata ad ogni suono.
Ovviamente, a tutti i messaggi tranne ai suoi, a quelli del Padrone.
A questi doveva rispondere subito. Se la risposta non fosse stata più che immediata sarebbe stata punita, non solo con la frusta, con molti modi per umiliarla e degradarla.
Era capitato che il suo Padrone l’avesse fatta inginocchiare davanti al water e ordinato di mettere dentro la testa.
Non la costringeva mai con atti di forza. Lo eccitava di più assistere alla sua lenta esecuzione, vedere che si predisponeva da sola.
Le aveva messo il piede sulla testa per schiacciarle il viso giù. L’aveva trattenuta un po’ e poi aveva tirato l’acqua, schiacciando col piede quando lei aveva cercato di alzare la testa per resistere all’acqua che le era entrata in gola e nel naso.
Non sentì se lui le aveva o meno parlato, se aveva riso o avuto espressioni di eccitazione o divertimento. Era troppo concentrata sull’acqua che entrava dappertutto e dal piede sulla nuca che la teneva giù.
L’aveva poi lasciata con la testa dentro ed il coperchio della tazza abbassato.
Era ritornato a prenderla dopo un tempo che a lei parve infinito. Le faceva male tutto: ginocchia, petto nella parte che appoggiava alla tazza, collo.
Da allora imparò a rispondere subito, anche se era in udienza o con altri clienti.
Non era mai stata trattata come una cosa, come qualcosa che appartiene.
Voleva staccarsi, voleva negarsi ma non poteva.
Nemmeno avrebbe potuto scegliere lei quando andare. Veniva chiamata, quando lui voleva e lei andava, puntuale.
Doveva avere scarpe nere col tacco di 12 centimetri, autoreggenti nere. Niente mutandine, niente reggiseno. Doveva già essere pronta all’uso. Magari non sarebbe avvenuto subito, l’avrebbe fatta attendere, ma quando avesse deciso lei avrebbe dovuto essere accessibile.
C’era un’altra cosa che doveva avere: il collare di cuoio che lui le aveva messo al collo la volta successiva al salvataggio della figlia.
Se lo metteva in ascensore, quando era ancora protetta dal cappotto, quell’unico indumento che agli occhi di un passante o di un condomino la proteggeva dalla scoperta di ciò che in realtà in quel momento era.
Cos’era?
Non era una puttana.
Era una schiava, cosa ben diversa, molto diversa.
Si sentiva una schiava, si sentiva intimorita da quell’uomo che la usava.
Aveva soggezione.
Guardandosi allo specchio, in ascensore, si allacciava il collare. Lo faceva sempre dopo essere uscita da casa, in modo che la figlia non potesse vederla mentre al collo portava il simbolo della sua schiavitù.
Era alto, spesso, non aveva null’altro se non il gancio per il guinzaglio, che avrebbe dovuto tenere davanti, sulla gola, quella gola che continuava a deglutire, da quando iniziava a prepararsi, da quando dentro cominciava a sentirsi sconvolta.
Alzava il bavero del cappotto ma, si accorse, non in maniera da nasconderlo completamente e questa cosa la faceva sentire esposta, trasparente, come se tutti potessero vedere dentro la sua anima disperata, disperata ma ubbidiente.
Aveva provato a chiedere se avesse potuto metterselo in auto.
Non le aveva nemmeno risposto.
Quando arrivarono all’abitazione del Padrone, dovette lasciare il cappotto in auto ed uscire nuda, davanti all’autista che l’aveva vista tante volte.
Quell’uomo (sapeva solo che si chiamava Michele) le attaccava il guinzaglio di catena e si faceva seguire all’interno del palazzo. Nel breve tratto tra l’auto parcheggiata davanti all’edificio ed il portone capitava che passasse qualcuno e guardasse quella bella donna, nuda, tenuta al guinzaglio, sottomessa e ubbidiente, portata come un animale addomesticato.
Michele non l’aveva mai toccata. Sicuramente desiderata, quello sì, era inevitabile, ma mai toccata. Magari si sarebbe anche masturbato pensando a lei.
La condusse all’interno ed il rumore dei tacchi fu assorbito dai tappeti, il nero delle autoreggenti si confuse con il marrone del legno dei mobili e si rifletté sugli specchi e sugli oggetti di cristallo.
Aveva lo sguardo basso e il capo leggermente chino. Non le era stato ordinato, ma non riusciva ad alzare la testa.
I polsi erano uniti dietro alla schiena ma non legati se non dalla sua volontà di assumere quella postura che, invece, le era stata ordinata.
Michele arrivò in anticamera poco prima della porta che la separava da quello che era divenuto il suo Padrone.
Il suo accompagnatore o, meglio, conduttore, si sedette in poltrona in attesa di ricevere l’ordine di farla entrare.
Lei fu lasciata in piedi, accanto a lui che ancora teneva in mano il guinzaglio. Sapeva che la stava guardando, che la stava desiderando. Sicuramente era eccitato accanto a quel corpo da piacere a lui precluso.
Non provava più nessuna eccitazione nel sapere di essere guardata, desiderata, voluta, oggetto di fantasie sessuali ma intoccabile, almeno per lui, per quell’uomo e per gli altri che la guardavano passare vestita della sua schiavitù che silenziosamente urlava a tutti chi fosse il suo Padrone.
La porta si aprì ed apparve Simone, l’uomo di fiducia del Padrone, che non lo lasciava mai, suo consigliere e, sicuramente, non amico.
“Dammi l’animale”.
Come se si passassero un oggetto, un pacco che qualcuno aveva portato.
Simone non voleva offenderla, semplicemente trattarla per ciò che era. Nell’ambiente ristretto era considerata l’animale da compagnia del capo.
L’uomo la portò al centro della stanza, sul tappeto tra le poltrone.
Il suo Padrone non c’era e, senza bisogno di ordini, si inginocchiò sul tappeto, seduta sui talloni, con i polsi sempre uniti dietro, busto dritto, testa bassa.
Umile, schiava.
L’immobilità prolungata nell’attesa le procurò formicolio nelle gambe e cercò di muoversi per riattivare la circolazione.
“Ferma cagna!”.
Simone, seduto in poltrona mentre guardava il cellulare, la osservava.
Quando era dal Padrone, era controllata su tutto, non aveva autonomia in nulla.
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krugher.1863@gmail.com
Magda rispose al messaggio con l’unica risposta che l’uomo si aspettava: “Sì, Padrone”.
Il Padrone sapeva che si sarebbe presentata, anzi, che avrebbe ubbidito, che si sarebbe liberata da eventuali impegni della cui esistenza non gli interessava nulla.
Quando arrivava quel messaggio le ronzava subito la testa che cominciava a girare, presa da una sensazione indefinibile.
Aspettava e temeva quei messaggi, quegli ordini. Quando arrivava un sms controllava subito il telefono per accertarsi che non fosse lui o che fosse lui.
Era diventata sua. Era diventata una schiava.
La chiamava a piacimento e la usava a piacimento.
A volte la teneva per la notte, a volte la mandava via.
Decideva lui e lei obbediva.
Non avrebbe potuto rifiutarsi. Era prigioniera della sua stessa promessa, prigioniera di quei 4 colpi di pistola che avevano squarciato la sua vita salvando quella di sua figlia.
“Aspettava” il messaggio da un momento all’altro, anche quando nessuno le scriveva allarmandola col bip del telefono.
Era arrivata al punto di togliere la notifica sonora a tutti i messaggi per non essere angosciata ad ogni suono.
Ovviamente, a tutti i messaggi tranne ai suoi, a quelli del Padrone.
A questi doveva rispondere subito. Se la risposta non fosse stata più che immediata sarebbe stata punita, non solo con la frusta, con molti modi per umiliarla e degradarla.
Era capitato che il suo Padrone l’avesse fatta inginocchiare davanti al water e ordinato di mettere dentro la testa.
Non la costringeva mai con atti di forza. Lo eccitava di più assistere alla sua lenta esecuzione, vedere che si predisponeva da sola.
Le aveva messo il piede sulla testa per schiacciarle il viso giù. L’aveva trattenuta un po’ e poi aveva tirato l’acqua, schiacciando col piede quando lei aveva cercato di alzare la testa per resistere all’acqua che le era entrata in gola e nel naso.
Non sentì se lui le aveva o meno parlato, se aveva riso o avuto espressioni di eccitazione o divertimento. Era troppo concentrata sull’acqua che entrava dappertutto e dal piede sulla nuca che la teneva giù.
L’aveva poi lasciata con la testa dentro ed il coperchio della tazza abbassato.
Era ritornato a prenderla dopo un tempo che a lei parve infinito. Le faceva male tutto: ginocchia, petto nella parte che appoggiava alla tazza, collo.
Da allora imparò a rispondere subito, anche se era in udienza o con altri clienti.
Non era mai stata trattata come una cosa, come qualcosa che appartiene.
Voleva staccarsi, voleva negarsi ma non poteva.
Nemmeno avrebbe potuto scegliere lei quando andare. Veniva chiamata, quando lui voleva e lei andava, puntuale.
Doveva avere scarpe nere col tacco di 12 centimetri, autoreggenti nere. Niente mutandine, niente reggiseno. Doveva già essere pronta all’uso. Magari non sarebbe avvenuto subito, l’avrebbe fatta attendere, ma quando avesse deciso lei avrebbe dovuto essere accessibile.
C’era un’altra cosa che doveva avere: il collare di cuoio che lui le aveva messo al collo la volta successiva al salvataggio della figlia.
Se lo metteva in ascensore, quando era ancora protetta dal cappotto, quell’unico indumento che agli occhi di un passante o di un condomino la proteggeva dalla scoperta di ciò che in realtà in quel momento era.
Cos’era?
Non era una puttana.
Era una schiava, cosa ben diversa, molto diversa.
Si sentiva una schiava, si sentiva intimorita da quell’uomo che la usava.
Aveva soggezione.
Guardandosi allo specchio, in ascensore, si allacciava il collare. Lo faceva sempre dopo essere uscita da casa, in modo che la figlia non potesse vederla mentre al collo portava il simbolo della sua schiavitù.
Era alto, spesso, non aveva null’altro se non il gancio per il guinzaglio, che avrebbe dovuto tenere davanti, sulla gola, quella gola che continuava a deglutire, da quando iniziava a prepararsi, da quando dentro cominciava a sentirsi sconvolta.
Alzava il bavero del cappotto ma, si accorse, non in maniera da nasconderlo completamente e questa cosa la faceva sentire esposta, trasparente, come se tutti potessero vedere dentro la sua anima disperata, disperata ma ubbidiente.
Aveva provato a chiedere se avesse potuto metterselo in auto.
Non le aveva nemmeno risposto.
Quando arrivarono all’abitazione del Padrone, dovette lasciare il cappotto in auto ed uscire nuda, davanti all’autista che l’aveva vista tante volte.
Quell’uomo (sapeva solo che si chiamava Michele) le attaccava il guinzaglio di catena e si faceva seguire all’interno del palazzo. Nel breve tratto tra l’auto parcheggiata davanti all’edificio ed il portone capitava che passasse qualcuno e guardasse quella bella donna, nuda, tenuta al guinzaglio, sottomessa e ubbidiente, portata come un animale addomesticato.
Michele non l’aveva mai toccata. Sicuramente desiderata, quello sì, era inevitabile, ma mai toccata. Magari si sarebbe anche masturbato pensando a lei.
La condusse all’interno ed il rumore dei tacchi fu assorbito dai tappeti, il nero delle autoreggenti si confuse con il marrone del legno dei mobili e si rifletté sugli specchi e sugli oggetti di cristallo.
Aveva lo sguardo basso e il capo leggermente chino. Non le era stato ordinato, ma non riusciva ad alzare la testa.
I polsi erano uniti dietro alla schiena ma non legati se non dalla sua volontà di assumere quella postura che, invece, le era stata ordinata.
Michele arrivò in anticamera poco prima della porta che la separava da quello che era divenuto il suo Padrone.
Il suo accompagnatore o, meglio, conduttore, si sedette in poltrona in attesa di ricevere l’ordine di farla entrare.
Lei fu lasciata in piedi, accanto a lui che ancora teneva in mano il guinzaglio. Sapeva che la stava guardando, che la stava desiderando. Sicuramente era eccitato accanto a quel corpo da piacere a lui precluso.
Non provava più nessuna eccitazione nel sapere di essere guardata, desiderata, voluta, oggetto di fantasie sessuali ma intoccabile, almeno per lui, per quell’uomo e per gli altri che la guardavano passare vestita della sua schiavitù che silenziosamente urlava a tutti chi fosse il suo Padrone.
La porta si aprì ed apparve Simone, l’uomo di fiducia del Padrone, che non lo lasciava mai, suo consigliere e, sicuramente, non amico.
“Dammi l’animale”.
Come se si passassero un oggetto, un pacco che qualcuno aveva portato.
Simone non voleva offenderla, semplicemente trattarla per ciò che era. Nell’ambiente ristretto era considerata l’animale da compagnia del capo.
L’uomo la portò al centro della stanza, sul tappeto tra le poltrone.
Il suo Padrone non c’era e, senza bisogno di ordini, si inginocchiò sul tappeto, seduta sui talloni, con i polsi sempre uniti dietro, busto dritto, testa bassa.
Umile, schiava.
L’immobilità prolungata nell’attesa le procurò formicolio nelle gambe e cercò di muoversi per riattivare la circolazione.
“Ferma cagna!”.
Simone, seduto in poltrona mentre guardava il cellulare, la osservava.
Quando era dal Padrone, era controllata su tutto, non aveva autonomia in nulla.
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