“Mia”, la schiava (parte 1)

di
genere
sadomaso

Mi chiamo Carla ma, ad un certo punto della mia vita, a questo nome se ne accostò un altro: “Mia”.
Sin dai miei 18 anni ebbi rapporti di sottomissione con forte componente masochista. Ero giovane (lo sono anche oggi) e mi era difficile capire correttamente i confini dell’uno e dell’altro e spesse volte (troppe) feci confusione.
Fui sempre fortunata e non finii mai in mano a persone pericolose che avrebbero potuto interpretare non correttamente la mia cessione del potere su di me.
Forse, invece della fortuna, fui brava e riuscii sempre a capire, a pelle, da chi stare lontana.
Ai fini di questa storia, della sua narrazione, non importa capire come, essendo invece importante il dato storico della comparsa di Altea e Giorgio.
Si erano incontrati tardi nella loro vita, intorno ai 40 anni quando, precedentemente, avevano già fatto altre scelte famigliari.
Anzi, a pensarci bene, non si erano incontrati tardi per come erano loro. Molto probabilmente non avrebbero potuto “trovarsi” prima della completa maturazione della loro sessualità e delle loro sensibilità per poterle vivere.
Quando li incontrai io, rispetto a me avevano già una certa età: 57 anni lei e 64 lui.
Si vedeva che erano due persone di classe. La loro abitazione raccontava di alcuni fasti che non trovavano conferma nella vita attuale, benché agiata. Non indagai molto sulla loro vita precedente mentre loro indagarono sulla mia. Non tanto negli accadimenti storici (avevo 22 anni quando li conobbi, c’era poca storia alle mie spalle da narrare), quanto nell’approfondimento di me stessa, dei miei pensieri, delle mie emozioni, sensazioni, fino a scavare nella parte più profonda di me.
Nel mio percorso BDSM avevo sempre scelto Padroni e Padrone molto più anziani di me ma, tutti, presero solo piacere dal mio corpo, dalla mia sottomissione e dalla mia sofferenza.
Non avevo altri termini di confronto e, quindi, per me era naturale che fosse così.
Mentirei, però, se dicessi che non trovai appaganti quei rapporti, anzi, furono caratterizzati da forte e potente eccitazione, che mi faceva bagnare ore prima di incontrare chi mi avrebbe frustata ed usata.
Come tutte le cose nella vita, ogni relazione contribuisce a costruire un tassello, che si somma ad altri e fa vedere altre cose sconosciute mesi o anni addietro, rivelando esigenze e necessità sempre avute ma sino ad allora nascoste, come se avessero aspettato il momento di uscire, rivelarsi, mostrarsi per essere coltivate.
Incontrai Altea e Giorgio in quel periodo della mia vita. Forse sarebbe meglio dire che ci incontrammo. Credo siano stati loro a “riconoscermi” e ad attirarmi, coi loro modi che, col senno di poi, riconobbi essere stati come il miele per me.
Fu tutto molto calmo, una calma apparentemente contrastante con il vortice delle sensazioni che ci coinvolse ed avvolse, sin nelle nostre viscere in quanto, lo so per certo, anche le loro furono sconvolte (positivamente) come le mie.
Furono sempre gentili con me, benché avessero sempre il ciglio severo pur nel sorriso che mi sapeva scaldare e rassicurare.
Quando mi parlavano avevo la sensazione di essere abbracciata. Si interessavano sempre a me. Mi cercavano senza mai essere invadenti e, mi resi conto, arrivai ad essere io a chiamarli per raccontare della mia giornata, delle cose vissute e mancate, trovando sempre una porta aperta verso la loro anima che entrava in comunicazione con la mia.
A volte, quando le cose accadono, sono caratterizzate dalla naturalezza. Così avvenne anche nelle frequenti visite a casa loro che, presto, si trasformarono in inviti nella condivisione dei pasti, soprattutto serali, seguiti da lunghe chiacchierate sul divano.
Ero giovane, giovanissima, eppure non mi creava alcuna stonatura frequentare persone che, nel mio mondo, erano “vecchie”.
A quel tempo non disdegnavo l’alcol ed il fumo. Arrivavo anche ad eccedere, come accade nelle compagnie.
Eppure a casa loro, dove i superalcolici non mancavano, soprattutto quelli buoni, di classe, mi fu sempre vietato di bere.
A differenza loro che, invece, sorseggiavano il liquore mentre parlavamo.
Eppure, sin da subito, non chiesi perché loro avessero accesso a drink a me vietati e, soprattutto, gustati in mia presenza.
Solo dopo mi accorsi che stavano tracciando i confini tra me e loro, confini che potrebbero tranquillamente essere definiti “educazione della schiava”, alla quale sono preclusi piaceri che, invece, spettano ai Padroni.
Stranamente, riuscii a trovare “giusta” quella situazione di disparità ed il cipiglio severo mi impedì di cogliere la stranezza della cosa.
Raccoglievano sempre volentieri i miei sfoghi da ragazza. Il loro comportamento era caratterizzato dalla comprensione e dalla rassicurazione, senza mai sconfinare nei consigli o lezioni di vita.
Fu questo ad attirarmi, perché mi sentivo avvolta e protetta da quelle persone che erano troppo giovani per essere miei nonni ma troppo vecchie per essere i miei genitori.
Una sera mi ritrovai a superare la soglia di sconforto. Non importa, adesso, ricordarne il motivo, ma solo il suo accadimento.
Non so come, ma mi ritrovai seduta sul divano accanto ad Altea, con il capo sul suo grembo bagnato dalle mie lacrime.
Ancora oggi, al pensiero, ho la sensazione di avvertire tra i capelli quella carezza rassicurante che ad ogni tocco riusciva ad infondere quella calma necessaria per placare il mio animo singhiozzante.
Mi sentii in un bozzolo e provai riconoscenza per la protezione che avvertivo.
Il mio animo di ragazza sottomessa, mai sopito ma ancora sviluppato con uomini al tempo degli incontri con la coppia, mi fece sentire il forte desiderio di accucciarmi ai piedi della donna.
Fui io a scendere o lei ad intercettare la mia esigenza, fatto sta che mi ritrovai a terra con i suoi piedi davanti ai miei occhi.
Fu istintivo abbracciare le caviglie e appoggiare la guancia sui piedi ancora avvolti nelle eleganti ciabattine.
Poco lontani vedevo anche i piedi di Giorgio ed ebbi quasi la sensazione di essere “a casa”, protetta da quella coppia e nell’ambito a me caro della sottomissione.
Non saprei dire quanto tempo passò.
Ad un certo punto mi chiesi cosa ci facessi ancora lì, a terra, immaginando quali pensieri potessero avere di me. Cercai di alzarmi, non perché volessi farlo, ma perché temevo di essere fuori luogo.
Si spalancò la porta del nostro rapporto, quando Altea mi pose il piede, ancora calzato dalla ciabattina, sul corpo, impedendomi fisicamente di alzarmi ed ordinandomi, con tono dolce ma fermo, a restare a terra ai suoi piedi per il resto della serata.
Da quel momento non parlarono più con me, ma solo tra di loro, benché mi facessero destinataria di ben altre attenzioni, fosse anche solo carezze sul viso con i piedi da parte di entrambi.
Fui io a sentire l’esigenza di fare stare maggiormente comoda Altea, di donarmi a lei, di ritenere che la sua comodità fosse più importante della mia e, soprattutto, il piacere che mi sarebbe derivato nel sapere che la scomodità del mio intero corpo sarebbe servita per dare solo sollievo ai suoi piedi, come se questi fossero più importanti del mio dolore.
Mi stesi sulla schiena.
Come fosse cosa non nuova e avesse riconosciuto il gesto, la donna si tolse le ciabattine sfilandole dopo averle appoggiate sul mio fianco e appoggiò i suoi piedi sul mio corpo, per ottenere quella comodità che la naturalezza del suo gesto sembrava dichiarare essere cosa dovuta e scontata.
Mi piaceva guardare quelle due persone dal basso della mia posizione umile, semplice poggiapiedi.
Quella sera stessa, come per dare continuità ad una situazione che sembrava avesse una storia nata da tempo, mi presero per mano e mi condussero nella loro camera.
Mi fecero spogliare osservandomi e si fecero spogliare da me facendomi stare in ginocchio davanti a loro.
A letto ebbi da subito la sensazione che mi stessero usando per il loro piacere, senza pensare al mio, come se sapessero che il mio piacere derivava nel donare a loro quello che stavano vivendo e provando, quello che davano per scontato.
Altea raggiunse l’orgasmo durante la penetrazione da parte di Giorgio.
Quest’ultimo, invece, dopo essere uscito dalla moglie, volle entrare in me che, sino a poco prima, ero accucciata in fondo al letto intenta a leccare, alternativamente, i loro piedi o l’ano dell’uomo.
Mi trattò come uno strumento sessuale, tirandomi i capelli, torturandomi i capezzoli e sputandomi in bocca, ove volle anche godere costringendomi ad ingoiare.
Avevamo parlato delle mie pulsioni erotiche e, quindi, si comportò con assoluta naturalezza, dimostrandomi di non essere nuovo all’uso di una schiava sessuale.
Non si curarono nemmeno del mio orgasmo, pensando solo al loro.
In realtà godetti ma non volli darlo a vedere per non disturbare il loro piacere.
Né alla fine mi chiesero se avessi goduto, non essendo evidentemente utile per loro avere questa informazione.
Non ci fu bisogno di dire nulla. Tutti e tre demmo per scontato che mi fermassi a dormire con loro, nello stesso letto.
Mi sentii avvolta e coccolata, chiusa nel loro bozzolo protettivo, come se fino ad un attimo prima non fossi stata usata come poggiapiedi o schiava sessuale.


---
krugher.1863@gmail.com
di
scritto il
2022-11-15
6 . 6 K
visite
8
voti
valutazione
5.1
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Il calore dopo il dolore

racconto sucessivo

“Mia”, la schiava (parte 2)
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.