“Mia”, la schiava (parte 2)

di
genere
sadomaso

Fu da quella sera che, per loro, il mio nome divenne “mia”.
Un aggettivo possessivo, che ricordasse a tutti di chi io fossi.
Venne adottato anche in pubblico, coi loro amici ai quali mi presentarono, al punto che quasi tutti erano convinti che quello fosse il mio vero nome di battesimo.
A me piaceva, mi faceva sentire “a casa”, protetta, mi ricordava che loro, sempre più, erano divenuti il mio punto di riferimento con il loro perenne abbraccio umano.
Il rapporto sempre più forte e marcato della mia sottomissione nei loro confronti, non fece mai venire meno il dialogo, il piacere di stare assieme, il loro tenermi quasi come fossi la loro “nipotina”, al punto che a volte nei negozi o ristoranti tali mi ritennero, facendo i complimenti ai miei “nonni” per quanto erano giovanili.
Di questo ridevamo, anzi, ridevamo sempre tanto e stavamo bene assieme.
Sempre più mi ritrovavo abbracciata ad Altea. Con Giorgio un po’ meno, più chiuso ed introverso, ma sempre gentile e presente che non mi fece mai mancare il suo supporto.
Quando eravamo assieme, ad un certo punto, a loro insindacabile scelta, scattava l’interruttore ed io, da “nipotina”, diventavo la loro schiava, per tutto ciò che fosse loro venuto in mente o li avesse potuti divertire o eccitare.
Mi trattavano come un oggetto, un cane, uno strumento sessuale, una cameriera o una schiava alla quale avrebbero potuto infliggere il dolore o le umiliazioni che in quel momento avevano voglia.
Io non posi mai limiti, né ne avevamo mai parlato. Non ce ne fu bisogno. Non superarono mai il mio confine in nulla. Nè mai ebbi timore per me nonostante alcuni usi molto duri o degradanti.
Parlavamo spesso e da questi dialoghi loro apprendevano cose di me che li avrebbe potuti guidare nel mio uso per il tempo che decidevano.
Ecco, a loro scelta non vi era solo l’inizio, ma anche la fine.
Ogni trattamento, degradante o duro che fosse, avveniva come se fino a qualche ora prima non fossimo stati a fare shopping insieme, ridendo e parlando di cose il cui unico scopo era parlare per stare assieme, quelle cose inutili che hanno la loro utilità solo nella loro esistenza, quelle cose umane che sanno anche scaldare.
Io stessa mi “dimenticavo” di quei momenti e, durante la mia schiavitù, pensavo solo a servirli, a sopportare ogni cosa e a dar loro piacere, sentendomi una proprietà, una cosa.
In quell’altra vita ero nuovamente me stessa, quella me stessa che necessitava della sottomissione, della schiavitù, esigenze che i miei Padroni avevano intercettato, capito, compreso e, ora, stavano usando.
Dovetti cambiare anche il mio approccio ai momenti della sottomissione.
Con gli uomini ai quali mi donavo, ero solita, di mia spontanea volontà e quando ne avevo voglia, prostrarmi e offrirmi così, di fatto, decidendo io quando iniziare a giocare.
Abituata, lo feci anche con loro. Con grandissima dolcezza ma con tono fermo dal quale traspariva il senso del comando, mi dissero di alzarmi. Non mi diedero altre spiegazioni, né mi spiegarono il perché, fino a che non decisero che era giunto il momento di usarmi.
Cominciai quindi ad essere passiva, ad aspettare le loro volontà.
Alternavano delicatezza, anche nel dominio, con atti di forte sadismo, almeno per me.
Capitò che in sala mi facessero stendere di schiena su alcuni sassolini e loro iniziarono a camminarmi sopra, come fossi il loro tappeto, indugiando in corrispondenza dei sassolini.
Adoravano portarmi alle lacrime, anche quando mi frustavano, si eccitavano nel vedere i miei sforzi per soddisfarli e trattenere il pianto fino a quando non mi era più possibile.
Si divertivano ad asciugarmi il viso con i loro piedi le cui dita poi spingevano in bocca.
Giorgio si sedeva cavalcioni sul mio petto tenendo il mio viso tra le sue cosce. Altea si metteva su di lui per farsi penetrare mentre godevano dei miei lamenti sotto il loro culo, ancora dolorante per quei maledetti sassolini che mi torturavano mentre loro godevano.
Giorgio le veniva dentro per poi sfilarsi e far colare tutto nella mia bocca che loro, anche senza vederla, sapevano essere bene aperta, mentre si baciavano dolcemente sul mio dolore.
Si amavano molto.
Il Padrone, nonostante avsse a disposizione il mio giovane corpo, cosa che usava spesso a piacimento, amava fare l’amore con sua moglie, riversando nel suo sesso il proprio piacere che io avrei poi toduto pulire.
Adoravano, sul letto, usarmi come materasso.
Mi stendevo di schiena e la Padrona si sdraiava su di me mettendo il culo sul mio sterno e tenendo il mio viso tra le cosce. In corrispondenza delle mie caviglie metteva il cuscino sul quale appoggiare la testa e stare comoda.
Il Padrone si stendeva alla missionaria su di lei e la penetrava. Io, davanti agli occhi, avevo quale unica visione la penetrazione e dovevo leccare cazzo e palle mentre entrava ed usciva.
Le godeva dentro e poi si stendeva su di lei per baciarla delicatamente. Io avevo entrambi sopra e soffrivo, però cominciavo a pulire lo sperma che usciva dal sesso di Altea alla quale, dopo che il Padrone si fosse alzato, dovevo fare il bidé, cosa che dovevo curare anche per Giorgio.
I Padroni adoravano i riti.
Prima di andare a dormire mi ordinavano di attenderli in ginocchio accanto al water. Loro sarebbero potuti arrivare anche mezz’ora dopo, quando ne avevano voglia. Il mio compito era quello della carta igienica, dovendo pulire i loro sessi dopo che avevano urinato.
Una delle prime sere, mi fecero dormire a terra ai piedi del loro letto. Era cosa normale che dormissi lì oppure nel letto con loro.
Ero incatenata a terra. Mi misero sopra il corpo un piede ciascuno e mi dissero che pretendevano un rapporto esclusivo. Avrei dovuto appartenere solo a loro. Se avessi voluto avere un fidanzato, in serenità glielo avrei detto e il rapporto si sarebbe interrotto.
Non ce ne fu bisogno. Con loro ero appagata, sessualmente e affettivamente, anche se con questo rapporto particolare.
A me andava bene. Mi concentravo molto sullo studio.
Avevano molto rispetto dei tempi che dovevo dedicare ai libri. Erano dolcissimi. Se mi sentivano giù di morale, me li ritrovavo alla porta di casa, mi facevano vestire bella e mi portavano al ristorante o a teatro.
Poi o mi riportavano a casa o da loro. Dipendeva dalla mia agenda di studio. Non interferirono mai sui miei esami che, anzi, agevolarono in tutti i modi possibili.
Sentivo che mi volevano bene, indipendentemente dalla mia schiavitù. Anzi, sapevo che mi desideravano schiava apposta perchè mi volevano bene.


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krugher.1863@gmail.com
di
scritto il
2022-11-16
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