Il crepuscolo
di
Kugher
genere
sentimentali
Monica, trafelata, arrivò al bar dove aveva l’appuntamento con Lucia.
“Scusa, ho incontrato un incidente lungo la strada ed era tutto bloccato. Mamma mia, il motorino a terra, avessi visto come era conciato quel poveretto...”.
L’amica le rivolse un sorriso di simpatia che Monica scambiò quale sincera comprensione per il ritardo.
In realtà Lucia era giunta al bar per l’aperitivo già sapendo che lei sarebbe arrivata ben oltre l’orario concordato, quale suo solito, accampando una scusa tragica per giustificare il puntuale ritardo. Più volte si era ripromessa di arrivare lei stessa con più calma, ma non ce la faceva a non rispettare gli orari, sin da piccola.
Monica, affannata quel tanto per dare maggior credito alla scusa, appoggiò la borsa sulla sedia libera ed il telefono sulla tovaglia bianca del tavolo.
“Sei sempre impeccabile, Monica”.
La sincerità del complimento era maggiore della leggera invidia che provava nel vedere tanto fascino in quella donna che stava per entrare negli “anta”, che conosceva sin dai tempi in cui erano vicine di banco alle medie.
Monica, entrando nel locale, aveva tratto piacere dagli sguardi che ancora riusciva a suscitare.
Adorava essere osservata, ammirata, desiderata, pensare di essere al centro di qualche fantasia sessuale dei maschi presenti.
L’abbigliamento, sobrio, aveva sempre qualcosa che, nell’insieme, attirava l’attenzione: avrebbe potuto essere una gonna aderente sulle natiche, oppure una camicetta bianca al limite della scollatura, una ciocca fuori posto ad arte, le immancabili scarpe dal tacco alto e le calze nere con qualche disegno sul polpaccio. Pochi gioielli, ma di classe. Quando si sedeva, la gonna si alzava sempre quel tanto da riuscire a far apprezzare la bellezza delle gambe che subito accavallava. Nel suo comportamento si fermava sempre un po’ prima del “fuori luogo”, tanto da conservare eleganza ma abbastanza da stimolare le attenzioni e la fantasia.
Lucia le stava parlando di Andrea, suo figlio, mentre Monica, con celata attenzione, osservava un uomo interessante al bancone del bar che la guardava senza essere sfacciato e con discrezione.
“...ha fatto outing”.
Monica aveva sentito solo questa parte finale dell’amica. In quel momento un cameriere aveva fatto cadere un bicchiere il cui rumore si era sommato al vocio presente nel locale. Tutti elementi di distrazione che, unitamente al tipo là in fondo, con la giacca aperta ed il primo bottone della camicia slacciato, non le consentivano di prestare la giusta attenzione al racconto dell’amica.
Aveva però intuito quale fosse il contenuto della conversazione.
“Meno male che ha avuto il coraggio, Lucia. Tutti avevano capito che tuo figlio è omosessuale”.
“Era così evidente?”.
Monica fingeva di non dedicare sguardi a quel tizio al bancone, che conservava eleganza nonostante l’atteggiamento rilassato di chi aveva appena finito una giornata di lavoro oppure l’ultimo appuntamento con un collega al bar.
“Tesoro mia, ormai essere omossessuali è sdoganato. Non comprendo nemmeno come qualcuno possa avere ancora delle riserve ad ammetterlo, prima con sé stesso e, poi, con il mondo circostante”.
Nel suo far finta di nulla, le capitò di incrociare lo sguardo del tizio. Rimase male che lui non ebbe alcuna reazione, nemmeno nella mimica facciale che, però, conservava un sorriso discreto ed interessato. Apprezzò la mano grande con la quale prese il bicchiere dal bancone.
“Che viva la sua sessualità senza nascondersi e, soprattutto, senza fingere di amare la sua fidanzata, cieca al punto da non accorgersi di nulla. Ciascuno dovrebbe essere sé stesso e vivere sereno senza nascondersi dietro una facciata che si è costruita”.
Lucia parve sollevata. Evidentemente non era scandalizzata ma, le rivelò, più preoccupata del fatto che suo figlio potesse non vivere una vita felice e sereno con sé stesso.
Monica, dopo che l’amica se ne era andata, rimase al tavolino, avendo appositamente bevuto l’aperitivo con una lentezza che non la caratterizzava.
Interessata alle attenzioni dell’uomo, ripassava mentalmente tutti i particolari della sua preparazione cercando di rassicurarsi sul suo stato.
Solo in quel momento si accorse che non aveva avvisato il marito. Sorrise del fatto che quello era il primo pensiero della giornata che aveva rivolto a Franco, sua “dolce metà” da almeno 15 anni. Quando lui era uscito al mattino lei aveva fatto finta di dormire per evitare il bacio che le sarebbe stato dato più per abitudine che per piacere.
Ormai col marito la monotonia aveva preso il posto dell’amore nella loro grande casa senza culla.
Si cercavano sempre meno e lei aveva smesso di essere sexy per attirare i suoi sguardi che, d’altro canto, erano sempre meno attenti alla sua bellezza della cui sfioritura lei cominciava ad avere paura.
Il sesso aveva perso smalto per divenire sfogo delle tensioni del corpo, al cui raggiungimento dell’apice del piacere non seguiva nemmeno più un abbraccio che, d’altro canto, nemmeno precedeva l’atto fisico, sempre più privo di quel corteggiamento che la faceva sentire ancora bella.
Inviò velocemente un messaggio con whatsapp per avvisare che era uscita e che pensava di andare a cena con Lucia.
Il “tipo al bancone” aveva rallentato l’assunzione del suo drink, forse, sperava, in attesa che Lucia se ne andasse.
Monica apprezzava la discrezione con la quale veniva ammirata e, se aveva modo di accorgersi dello sguardo, muoveva appena la gamba accentuandone l’accavallamento o facendo dondolare il piede lungo e stretto nella scarpa dal tacco alto sul quale, al suo ingresso nel locale, aveva camminato con grande disinvoltura, scegliendo un percorso stretto per poter passare tra le sedie ancheggiando in maniera sensuale.
Era sempre stata molto discreta nelle sue scappatelle ed era sicura che nessuno della sua cerchia di amicizie se ne fosse accorto.
Lucia, accortasi dell’evidente incrocio nascosto degli sguardi e del movimento, seppur impercettibile, delle gambe di Monica, aveva pensato che fosse venuto il momento di lasciarla alla sua ennesima scappatella.
Rimasta sola, dopo qualche minuto finalmente il “bel tipo del bancone” le si era avvicinato e, con gentilezza, le aveva chiesto il permesso di sedersi al suo tavolo.
Benchè la preparazione scolastica dell’uomo fosse totalmente diversa dalla laurea in filosofia di Monica, la conversazione fu caratterizzata da un dialogo fluido e piacevole, scherzoso al punto da contrastare con la severità della sua cravatta scura che, benché slacciata, conservava un’eleganza resa interessante dalla finta trascuratezza.
La barba era lunga quel tanto da non apparire ascrivibile alla pigrizia nel farla ma nemmeno troppo da essere disordinata.
Mentre il discorso era piacevolmente allegro in un linguaggio curato, Monica provava eccitazione nell’immaginare di sentire il solletico che quella barba avrebbero potuto procurarle all’inguine mentre sarebbe stato intento a darle piacere con la lingua nella zona la cui depilazione era sempre curata.
Diede per scontato che i peli del pube maschile fossero curati come la sua barba, così da fare maggiormente apprezzare la sua erezione, frutto del desiderio che avrebbe avuto per il suo corpo profumato, libero dai vestiti che avrebbero rivelato l’assenza delle mutandine e l’eleganza delle autoreggenti.
Le piaceva scopare tenendo indossate le scarpe, a contrasto, assieme alle calze, del suo corpo nudo e bianco, con il seno del quale era particolarmente orgogliosa e che immaginava avrebbe ospitato il viso di lui che passava le labbra da un capezzolo all’altro, mostrando l’evidente risultato delle attenzioni che la sua bocca avrebbe dedicato al cazzo.
Si immaginava su di lei le ampie spalle dell’uomo che la giacca scura non riusciva a nascondere e la mano grande e curata di lui che le teneva bloccati i polsi sopra la testa mentre forzava la sua finta leggera resistenza aprendole le gambe con le sue per entrare nel suo corpo, trovando il percorso bagnato dalle carezze con le mani e con la lingua che avrebbero preceduto la penetrazione.
Trovava affascinante quel piccolo tatuaggio che si intravedeva dal polsino maschile, curiosa di conoscere la storia che, al termine della scopata, le sarebbe stata raccontata mentre lei, dal canto suo, avrebbe rivelato la storia del suo tatuaggio, sul collo, nascosto dai lunghi capelli mori, che, quando era più giovane, un suo anziano amante aveva preteso si facesse quale marchio del suo dominio.
Fu lei a prenotare nel solito albergo, prima di lasciare il locale, accarezzata da uno sguardo più intenso e da una mano elegante che la invitò ad uscire per prima, premiando la gentilezza con un movimento del bacino a lui dedicato.
L’albergo era un po’ fuori mano ma comodo per il parcheggio a disposizione degli ospiti. Il verde del tratto fuori città che la separava dalla destinazione le dava sempre piacere.
Era un orario particolare, si trovava nella zona del crepuscolo, quando il sole, tramontato, regala ancora quella luce che a lei qualche volta generava una sorta di malinconia.
Fu colta da quello stato d’animo subito dopo una curva, al limitare della zona abitata, quando, senza accorgersi, gli edifici avevano lasciato spazio al verde.
Senza apparente motivo alcuno, fu assalita dai ricordi. La particolare ora del giorno e l’effetto della luce, le fecero sovvenire quando, da bambina, tornava a casa dopo essere stata tutto il giorno dai nonni, in campagna.
Andavano spesso dai parenti materni dai quali trascorreva sempre tutta l’estate, da anni. Nel cortile e nella stradina sterrata appena dietro casa, aveva imparato ad andare in bicicletta. Ricordò la prima volta che, seguita dal nonno che le reggeva il sellino, aveva tolto le rotelle. Eccitata, pedalava con la sicurezza della mano del nonno che le garantiva l’equilibrio, subito perso quando si rese conto che la mano era appoggiata per finta.
La domenica, quando andavano a trovarli, stava in casa il tempo necessario per il pasto, peraltro veloce in quanto toglieva secondi preziosi al gioco.
Il viaggio di rientro dai nonni la vedeva stanca e addormentata sul sedile posteriore, cullata dalla guida tranquilla del padre che da qualche anno l’aveva lasciata, purtroppo. Alla radio era d’obbligo l’ascolto del resoconto delle partite di calcio. A casa la aspettava la promessa di qualche ora di rilassata attesa dell’indomani, giorno di scuola.
Mentre guidava verso l’appuntamento con il piacere, la malinconia le si infiltrò sempre più sottopelle, generandole quella nota sensazione alla bocca dello stomaco. I ricordi le si affollarono ordinatamente nella mente e fu proiettata al tempo della Monica bambina, tanto lontana dalle scarpe tacco 12 che indossava in quel momento e dalla vita di finzione col marito, nella illusoria comodità di una situazione che veniva data per scontata e dalla quale ogni tanto fuggiva in viaggi analoghi verso quell’albergo ormai noto, dove alla reception la aspettava l’impiegato che la salutava con cortesia e dallo sguardo imperturbabile, serio e professionale che mai aveva visto posarsi lussurioso suo corpo.
La nostalgia si fece più forte e la sensazione alla bocca dello stomaco divenne quasi dolorosa. Fu necessario il clacson della vettura che seguiva per farle notare che il semaforo era diventato verde.
La mente ritornò al momento dell’aperitivo al bar, con la sua amica Lucia che le parlava del figlio, omosessuale, che aveva finalmente e definitivamente preso coscienza della sua sessualità rivelandola alla famiglia, racconto che lei aveva ascoltato distrattamente, già attirata dalle mani grandi e curate dell’uomo che, qualche auto dietro di lei, la stava seguendo, probabilmente eccitato dalla scopata che aveva rimediato.
Ricordò che aveva dato per scontato il fatto che il ragazzo avrebbe dovuto fare la scelta già da tempo, sorridendo dell’illusione che nessuno si fosse accorto della sua vera natura.
Fu invece stupita nel rendersi conto che la sua situazione non era poi molto diversa. Anche lei viveva una vita non sua, con un uomo che non amava e che, probabilmente, non la amava, uniti dalla monotonia e dalla sicurezza che un rapporto ormai consolidato può dare, evitando di avere pensieri ulteriori rispetto a quelli quotidiani in ufficio e nelle cose della vita.
D’improvviso il coraggio inizialmente sottovalutato di Andrea, il figlio di Lucia, le apparve in tutta la sua grandezza per avere fatto la scelta di uscire dall’ombra nella quale lei stessa viveva. Un’ombra che l’aveva avvolta e protetta al punto da divenire cosa naturale ed ovvia. Si rese conto della finzione della sua vita, non verso il marito ma verso sé stessa. Il tradimento era la conseguenza e non la causa.
Il viaggio verso l’hotel, che all’inizio le era sembrato infinito, era terminato troppo presto. Quella cazzo di malinconia era aumentata a dismisura ed aveva introdotto altra sensazione alla quale non aveva la forza di dare il nome che, invece, conosceva perfettamente.
Nel parcheggio nemmeno si accorse che il suo prossimo amante, quello dalle mani forti e dalla barba fintamente ed accuratamente incolta, aveva fermato l’auto accanto alla sua.
Quando lo vide, seppur con la coda dell’occhio, lui si stava slacciando la cintura di sicurezza. Non si accorse nemmeno dello sguardo con il quale la stava osservando, pieno di promesse per quella parentesi che si stava aprendo e che sarebbe durata un tempo tale da consentirle di arrivare a casa con una piccola bugia, l’ennesima.
Monica stava guardando il quadro ancora acceso della sua autovettura. Aveva la mano sulla chiave e non si decideva a spegnere il motore.
“Scusa, ho incontrato un incidente lungo la strada ed era tutto bloccato. Mamma mia, il motorino a terra, avessi visto come era conciato quel poveretto...”.
L’amica le rivolse un sorriso di simpatia che Monica scambiò quale sincera comprensione per il ritardo.
In realtà Lucia era giunta al bar per l’aperitivo già sapendo che lei sarebbe arrivata ben oltre l’orario concordato, quale suo solito, accampando una scusa tragica per giustificare il puntuale ritardo. Più volte si era ripromessa di arrivare lei stessa con più calma, ma non ce la faceva a non rispettare gli orari, sin da piccola.
Monica, affannata quel tanto per dare maggior credito alla scusa, appoggiò la borsa sulla sedia libera ed il telefono sulla tovaglia bianca del tavolo.
“Sei sempre impeccabile, Monica”.
La sincerità del complimento era maggiore della leggera invidia che provava nel vedere tanto fascino in quella donna che stava per entrare negli “anta”, che conosceva sin dai tempi in cui erano vicine di banco alle medie.
Monica, entrando nel locale, aveva tratto piacere dagli sguardi che ancora riusciva a suscitare.
Adorava essere osservata, ammirata, desiderata, pensare di essere al centro di qualche fantasia sessuale dei maschi presenti.
L’abbigliamento, sobrio, aveva sempre qualcosa che, nell’insieme, attirava l’attenzione: avrebbe potuto essere una gonna aderente sulle natiche, oppure una camicetta bianca al limite della scollatura, una ciocca fuori posto ad arte, le immancabili scarpe dal tacco alto e le calze nere con qualche disegno sul polpaccio. Pochi gioielli, ma di classe. Quando si sedeva, la gonna si alzava sempre quel tanto da riuscire a far apprezzare la bellezza delle gambe che subito accavallava. Nel suo comportamento si fermava sempre un po’ prima del “fuori luogo”, tanto da conservare eleganza ma abbastanza da stimolare le attenzioni e la fantasia.
Lucia le stava parlando di Andrea, suo figlio, mentre Monica, con celata attenzione, osservava un uomo interessante al bancone del bar che la guardava senza essere sfacciato e con discrezione.
“...ha fatto outing”.
Monica aveva sentito solo questa parte finale dell’amica. In quel momento un cameriere aveva fatto cadere un bicchiere il cui rumore si era sommato al vocio presente nel locale. Tutti elementi di distrazione che, unitamente al tipo là in fondo, con la giacca aperta ed il primo bottone della camicia slacciato, non le consentivano di prestare la giusta attenzione al racconto dell’amica.
Aveva però intuito quale fosse il contenuto della conversazione.
“Meno male che ha avuto il coraggio, Lucia. Tutti avevano capito che tuo figlio è omosessuale”.
“Era così evidente?”.
Monica fingeva di non dedicare sguardi a quel tizio al bancone, che conservava eleganza nonostante l’atteggiamento rilassato di chi aveva appena finito una giornata di lavoro oppure l’ultimo appuntamento con un collega al bar.
“Tesoro mia, ormai essere omossessuali è sdoganato. Non comprendo nemmeno come qualcuno possa avere ancora delle riserve ad ammetterlo, prima con sé stesso e, poi, con il mondo circostante”.
Nel suo far finta di nulla, le capitò di incrociare lo sguardo del tizio. Rimase male che lui non ebbe alcuna reazione, nemmeno nella mimica facciale che, però, conservava un sorriso discreto ed interessato. Apprezzò la mano grande con la quale prese il bicchiere dal bancone.
“Che viva la sua sessualità senza nascondersi e, soprattutto, senza fingere di amare la sua fidanzata, cieca al punto da non accorgersi di nulla. Ciascuno dovrebbe essere sé stesso e vivere sereno senza nascondersi dietro una facciata che si è costruita”.
Lucia parve sollevata. Evidentemente non era scandalizzata ma, le rivelò, più preoccupata del fatto che suo figlio potesse non vivere una vita felice e sereno con sé stesso.
Monica, dopo che l’amica se ne era andata, rimase al tavolino, avendo appositamente bevuto l’aperitivo con una lentezza che non la caratterizzava.
Interessata alle attenzioni dell’uomo, ripassava mentalmente tutti i particolari della sua preparazione cercando di rassicurarsi sul suo stato.
Solo in quel momento si accorse che non aveva avvisato il marito. Sorrise del fatto che quello era il primo pensiero della giornata che aveva rivolto a Franco, sua “dolce metà” da almeno 15 anni. Quando lui era uscito al mattino lei aveva fatto finta di dormire per evitare il bacio che le sarebbe stato dato più per abitudine che per piacere.
Ormai col marito la monotonia aveva preso il posto dell’amore nella loro grande casa senza culla.
Si cercavano sempre meno e lei aveva smesso di essere sexy per attirare i suoi sguardi che, d’altro canto, erano sempre meno attenti alla sua bellezza della cui sfioritura lei cominciava ad avere paura.
Il sesso aveva perso smalto per divenire sfogo delle tensioni del corpo, al cui raggiungimento dell’apice del piacere non seguiva nemmeno più un abbraccio che, d’altro canto, nemmeno precedeva l’atto fisico, sempre più privo di quel corteggiamento che la faceva sentire ancora bella.
Inviò velocemente un messaggio con whatsapp per avvisare che era uscita e che pensava di andare a cena con Lucia.
Il “tipo al bancone” aveva rallentato l’assunzione del suo drink, forse, sperava, in attesa che Lucia se ne andasse.
Monica apprezzava la discrezione con la quale veniva ammirata e, se aveva modo di accorgersi dello sguardo, muoveva appena la gamba accentuandone l’accavallamento o facendo dondolare il piede lungo e stretto nella scarpa dal tacco alto sul quale, al suo ingresso nel locale, aveva camminato con grande disinvoltura, scegliendo un percorso stretto per poter passare tra le sedie ancheggiando in maniera sensuale.
Era sempre stata molto discreta nelle sue scappatelle ed era sicura che nessuno della sua cerchia di amicizie se ne fosse accorto.
Lucia, accortasi dell’evidente incrocio nascosto degli sguardi e del movimento, seppur impercettibile, delle gambe di Monica, aveva pensato che fosse venuto il momento di lasciarla alla sua ennesima scappatella.
Rimasta sola, dopo qualche minuto finalmente il “bel tipo del bancone” le si era avvicinato e, con gentilezza, le aveva chiesto il permesso di sedersi al suo tavolo.
Benchè la preparazione scolastica dell’uomo fosse totalmente diversa dalla laurea in filosofia di Monica, la conversazione fu caratterizzata da un dialogo fluido e piacevole, scherzoso al punto da contrastare con la severità della sua cravatta scura che, benché slacciata, conservava un’eleganza resa interessante dalla finta trascuratezza.
La barba era lunga quel tanto da non apparire ascrivibile alla pigrizia nel farla ma nemmeno troppo da essere disordinata.
Mentre il discorso era piacevolmente allegro in un linguaggio curato, Monica provava eccitazione nell’immaginare di sentire il solletico che quella barba avrebbero potuto procurarle all’inguine mentre sarebbe stato intento a darle piacere con la lingua nella zona la cui depilazione era sempre curata.
Diede per scontato che i peli del pube maschile fossero curati come la sua barba, così da fare maggiormente apprezzare la sua erezione, frutto del desiderio che avrebbe avuto per il suo corpo profumato, libero dai vestiti che avrebbero rivelato l’assenza delle mutandine e l’eleganza delle autoreggenti.
Le piaceva scopare tenendo indossate le scarpe, a contrasto, assieme alle calze, del suo corpo nudo e bianco, con il seno del quale era particolarmente orgogliosa e che immaginava avrebbe ospitato il viso di lui che passava le labbra da un capezzolo all’altro, mostrando l’evidente risultato delle attenzioni che la sua bocca avrebbe dedicato al cazzo.
Si immaginava su di lei le ampie spalle dell’uomo che la giacca scura non riusciva a nascondere e la mano grande e curata di lui che le teneva bloccati i polsi sopra la testa mentre forzava la sua finta leggera resistenza aprendole le gambe con le sue per entrare nel suo corpo, trovando il percorso bagnato dalle carezze con le mani e con la lingua che avrebbero preceduto la penetrazione.
Trovava affascinante quel piccolo tatuaggio che si intravedeva dal polsino maschile, curiosa di conoscere la storia che, al termine della scopata, le sarebbe stata raccontata mentre lei, dal canto suo, avrebbe rivelato la storia del suo tatuaggio, sul collo, nascosto dai lunghi capelli mori, che, quando era più giovane, un suo anziano amante aveva preteso si facesse quale marchio del suo dominio.
Fu lei a prenotare nel solito albergo, prima di lasciare il locale, accarezzata da uno sguardo più intenso e da una mano elegante che la invitò ad uscire per prima, premiando la gentilezza con un movimento del bacino a lui dedicato.
L’albergo era un po’ fuori mano ma comodo per il parcheggio a disposizione degli ospiti. Il verde del tratto fuori città che la separava dalla destinazione le dava sempre piacere.
Era un orario particolare, si trovava nella zona del crepuscolo, quando il sole, tramontato, regala ancora quella luce che a lei qualche volta generava una sorta di malinconia.
Fu colta da quello stato d’animo subito dopo una curva, al limitare della zona abitata, quando, senza accorgersi, gli edifici avevano lasciato spazio al verde.
Senza apparente motivo alcuno, fu assalita dai ricordi. La particolare ora del giorno e l’effetto della luce, le fecero sovvenire quando, da bambina, tornava a casa dopo essere stata tutto il giorno dai nonni, in campagna.
Andavano spesso dai parenti materni dai quali trascorreva sempre tutta l’estate, da anni. Nel cortile e nella stradina sterrata appena dietro casa, aveva imparato ad andare in bicicletta. Ricordò la prima volta che, seguita dal nonno che le reggeva il sellino, aveva tolto le rotelle. Eccitata, pedalava con la sicurezza della mano del nonno che le garantiva l’equilibrio, subito perso quando si rese conto che la mano era appoggiata per finta.
La domenica, quando andavano a trovarli, stava in casa il tempo necessario per il pasto, peraltro veloce in quanto toglieva secondi preziosi al gioco.
Il viaggio di rientro dai nonni la vedeva stanca e addormentata sul sedile posteriore, cullata dalla guida tranquilla del padre che da qualche anno l’aveva lasciata, purtroppo. Alla radio era d’obbligo l’ascolto del resoconto delle partite di calcio. A casa la aspettava la promessa di qualche ora di rilassata attesa dell’indomani, giorno di scuola.
Mentre guidava verso l’appuntamento con il piacere, la malinconia le si infiltrò sempre più sottopelle, generandole quella nota sensazione alla bocca dello stomaco. I ricordi le si affollarono ordinatamente nella mente e fu proiettata al tempo della Monica bambina, tanto lontana dalle scarpe tacco 12 che indossava in quel momento e dalla vita di finzione col marito, nella illusoria comodità di una situazione che veniva data per scontata e dalla quale ogni tanto fuggiva in viaggi analoghi verso quell’albergo ormai noto, dove alla reception la aspettava l’impiegato che la salutava con cortesia e dallo sguardo imperturbabile, serio e professionale che mai aveva visto posarsi lussurioso suo corpo.
La nostalgia si fece più forte e la sensazione alla bocca dello stomaco divenne quasi dolorosa. Fu necessario il clacson della vettura che seguiva per farle notare che il semaforo era diventato verde.
La mente ritornò al momento dell’aperitivo al bar, con la sua amica Lucia che le parlava del figlio, omosessuale, che aveva finalmente e definitivamente preso coscienza della sua sessualità rivelandola alla famiglia, racconto che lei aveva ascoltato distrattamente, già attirata dalle mani grandi e curate dell’uomo che, qualche auto dietro di lei, la stava seguendo, probabilmente eccitato dalla scopata che aveva rimediato.
Ricordò che aveva dato per scontato il fatto che il ragazzo avrebbe dovuto fare la scelta già da tempo, sorridendo dell’illusione che nessuno si fosse accorto della sua vera natura.
Fu invece stupita nel rendersi conto che la sua situazione non era poi molto diversa. Anche lei viveva una vita non sua, con un uomo che non amava e che, probabilmente, non la amava, uniti dalla monotonia e dalla sicurezza che un rapporto ormai consolidato può dare, evitando di avere pensieri ulteriori rispetto a quelli quotidiani in ufficio e nelle cose della vita.
D’improvviso il coraggio inizialmente sottovalutato di Andrea, il figlio di Lucia, le apparve in tutta la sua grandezza per avere fatto la scelta di uscire dall’ombra nella quale lei stessa viveva. Un’ombra che l’aveva avvolta e protetta al punto da divenire cosa naturale ed ovvia. Si rese conto della finzione della sua vita, non verso il marito ma verso sé stessa. Il tradimento era la conseguenza e non la causa.
Il viaggio verso l’hotel, che all’inizio le era sembrato infinito, era terminato troppo presto. Quella cazzo di malinconia era aumentata a dismisura ed aveva introdotto altra sensazione alla quale non aveva la forza di dare il nome che, invece, conosceva perfettamente.
Nel parcheggio nemmeno si accorse che il suo prossimo amante, quello dalle mani forti e dalla barba fintamente ed accuratamente incolta, aveva fermato l’auto accanto alla sua.
Quando lo vide, seppur con la coda dell’occhio, lui si stava slacciando la cintura di sicurezza. Non si accorse nemmeno dello sguardo con il quale la stava osservando, pieno di promesse per quella parentesi che si stava aprendo e che sarebbe durata un tempo tale da consentirle di arrivare a casa con una piccola bugia, l’ennesima.
Monica stava guardando il quadro ancora acceso della sua autovettura. Aveva la mano sulla chiave e non si decideva a spegnere il motore.
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