I racconti di Angelica - La storia di Janira -
di
AngelicaBella
genere
saffico
14. Janira
Il bambino di Ginevra è nato.
La ragazza ha fatto in fretta.
Il tempo di preparare l’acqua calda e gli stracci che già le contrazioni arrivavano ogni pochi minuti.
Carmen e Caterina al suo fianco.
Io in disparte.
Non è la prima volta che vedo nascere un bambino.
Sono più giovane di Carmen ma mia madre ha avuto molti figli dopo di me, e quando sono diventata abbastanza grande per aiutare ho potuto assistere alla nascita dei miei fratelli e sorelle.
Io e Carmen, quando la mamma si sentiva pronta, cacciavamo di casa tutti e ci occupavamo di lei.
Quando avevo dieci anni sono stata mandata a convitto dalle suore.
L’ambiente non era dei migliori.
Venivamo spesso punite anche per le mancanze più insignificanti.
Il cibo era scarso e alcune di noi per avere una razione di pasto supplementare erano disposte anche a farsi toccare dalle suore.
Io ed altre invece preferivamo rubarlo, ma quando venivamo scoperte, la madre superiora provvedeva personalmente a punirci.
Ci facevano inginocchiare sui ciottoli di ghiaia.
Erano appuntiti e si ficcavano nella carne provocandoci un dolore tremendo.
Alcune di noi sanguinavano e allora la madre superiora mandava via le altre e provvedeva a prendersi cura di lei.
Nessuna raccontava cosa accadeva nella cella della madre superiora.
Io lo scoprii quando toccò a me essere medicata per un sasso che mi si era conficcato nella carne.
Io e una mia amica eravamo state punite per aver condiviso lo stesso letto.
Una delle suore ci aveva scoperto mentre dormivano nude e abbracciate.
Si dormiva tutte in una grande camerata.
Ognuna di noi aveva il proprio letto con accanto un comodino.
Io avevo una amica del cuore, che dormiva accanto a me.
Di notte, quando tutte dormivano, lei sgattaiolava fuori dal letto per venire nel mio.
Ci toglievano entrambe la camicia da notte e restavamo nude.
Passavamo parte della notte a darci piacere poi ci addormentavamo abbracciate.
Di solito la mia amica alle prime luci dell’alba ritornava nel suo letto e nessuno si accorgeva di nulla.
Almeno così pensavamo noi.
La suora incaricata di vigilare sul nostro sonno insospettita dai mugolii che facevamo, ci colse in flagrante e nude come eravamo ci portò dalla madre superiora per la punizione.
La donna era ancora in camicia da notte e quando vide noi due nude non potei fare a meno di notare che i suoi capezzoli erano diventati duri e in evidenza.
Ci fece inginocchiare sui sassi appuntiti e mando via la suora che ci aveva condotte da lei.
“Così, disse, abbiamo qui due mangia figa.” Non avevamo mai sentito la madre parlare con questo tono ed anche la voce ci sembrava diversa, più roca.
Io, nel frattempo, sentivo uno dei sassi appuntiti entrarmi nella carne delle ginocchia.
Cercavo di alleggerire il peso ma la suora mi premeva le spalle con le mani aumentando così il mio dolore.
Dal male caddi in terra come svenuta.
La suora si avvide che le mie ginocchia sanguinavano.
Disse alla mia amica di andare via e lei senza farselo ripetere due volte scappò fuori dalla cella, lasciandomi sola.
La suora mi sollevò da terra e mi distese sul suo letto.
Prese dal cassetto una boccetta con il disinfettante e del cotone e con delicatezza mi pulì la ferita.
Il disinfettante bruciava ed io cominciai a piangere dal male.
Lei mi asciugò le lacrime con un fazzoletto e si distese accanto a me accarezzandomi il viso.
Nel farlo si soffermava spesso sulla bocca accarezzando le labbra e senza che me ne accorgessi, mi trovai la sua bocca sulla mia e le mani che ora mi toccavano il seno ancora acerbo ed in mezzo alle cosce.
La sua lingua cercò la mia in un bacio lascivo pieno delle nostre salive.
Poi la bocca prese i miei capezzoli succhiandoli dolcemente e una mano ora mi aprì le gambe e le dita si insinuarono dentro di me provocandomi subito un piacere a me sconosciuto.
La superiora sapeva come e dove toccare.
Raggiunsi l’orgasmo con pochi tocchi e lei si staccò da me, si tolse la camicia da notte e mi apparve un corpo stupendo tenuto fino a quel momento nascosto dalla pesante tonaca nera.
I suoi seni piccoli ma ben fatti, il suo ventre piatto e il suo pube senza peluria la rendevano ai miei occhi la donna più bella del mondo.
Mi allargò le gambe e vi pose in mezzo la sua testa.
La sua lingua iniziò a toccarmi il clitoride, poi le grandi labbra, poi le piccole labbra.
Aiutandosi con le mani, aprì il mio sesso e la sua lingua mi penetrò provocandomi un altro orgasmo, questa volta più intenso.
Sollevò la testa per guardarmi in viso e io le sorrisi.
Le chiesi di stendersi che volevo ricambiare il piacere.
Lei acconsentì ed io provai ad imitare il percorso della sua lingua.
Non so se riuscii a fare tutto giusto ma lei godette nella mia bocca e questo mi rese orgogliosa e felice.
Da quel momento la mia vita in convento cambiò radicalmente.
Non avevo più limiti al cibo e la madre superiora pretese che io dormissi con lei tutte le notti e per questo fece portare un piccolo letto nella sua cella.
Notte dopo notte Berenice, questo era il nome della suora, mi insegnò tutto ciò che sapeva su come fare godere una donna ed io da brava allieva imparai tutto diligentemente.
Un giorno chiesi di poter tornare dalla mia famiglia e lei fraintese questa mia richiesta come un abbandono e pianse tra le mie braccia.
Io la consolai promettendole che sarei tornata presto per restare per sempre con lei.
Avevo preso la decisione di farmi suora in modo da poter vivere tutta la vita con lei.
L’amavo e lei amava me.
Tornai a casa qualche giorno prima di Natale.
Berenice mi aveva riempito la valigia di regali per la mia famiglia e mi aveva anche dato un po’ di soldi da lasciare a mia madre.
Quando arrivai a casa la festa fu grande e passai un bellissimo Natale.
Carmen aveva appena conosciuto Frank e avevano deciso di emigrare in America dove lui avrebbe potuto entrare in polizia grazie ad uno zio.
La mamma non era contenta di questa partenza, ma sapeva che era per il bene di Carmen.
La notte dormivo in camera con lei e mi chiese di raccontargli come vivevo in convento.
Io ingenuamente gli raccontai della mia relazione con la madre superiora e la reazione di Carmen fu tremenda.
Mi prese a schiaffi, dandomi della puttana, della lesbica e mi vietò di tornare in convento.
Io però era decisa a ritornare da Berenice e subito dopo l’inizio dell’anno scappai di casa.
Partii di notte.
Un amico di mio fratello si era offerto di accompagnarmi.
Eravamo da poche ore in viaggio, quando il giovane ferma il carro con il quale stavamo viaggiando con la scusa di una ruota fuori asse.
Lui armeggia un po’ sul mozzo delle ruote e poi con la scusa di prendere degli arnesi mi fa scendere dal carro.
Appena a terra, mi tramortisce con una botta in testa e perdo i sensi.
Quando mi risveglio sono in una stanza buia e incatenata ad un palo di legno. La catena è corta e riesco soltanto a muovermi intorno al palo e a sdraiarmi su un giaciglio di paglia.
Piango. Il terrore per ciò che mi sta per accadere paralizza il mio corpo e la mia mente.
Sfinita dal pianto mi addormento.
Un urlo disumano mi sveglia di soprassalto.
Sembra provenire da una stanza affianco a quella dove sono segregata io.
Sento la voce di una donna che piangendo chiede pietà.
Un’altra voce le urla di tacere e sento il rumore di uno schiocco e subito dopo un altro urlo della donna. Gli schiocchi su susseguono uno dopo l’altro e gli urli poco dopo cessano.
Dalla paura me la faccio addosso. In fondo ho solo dodici anni e non so cosa mi aspetta.
Sento la porta della mia stanza aprirsi e istintivamente mi accuccio impaurita nell’angolo più lontano che riesco a raggiungere nonostante la catena che ho alla caviglia.
Un uomo alto e con il petto nudo entra.
Indossa una maschera di cuoio che copre il volto lasciando libera solo la bocca.
In mano tiene una frusta di cuoio nera come quella che si usa per i cavalli.
Si avvicina ed io per paura mi copro la testa con le braccia.
L’uomo fa schioccare la frusta senza toccarmi.
“Alzati” mi ordina.
Io ho paura e non mi muovo.
La frusta schiocca di nuovo e stavolta lambisce leggera il mio braccio.
Anche se non sento un gran dolore urlo per la paura.
“Alzati” mi ripete l’uomo ed obbedisco.
Mi osserva, poi si avvicina, io porto le mani alla testa.
“Non aver paura” dice “se farai quello che ti dico non ti farò del male”.
A quelle parole io scoppio a piangere.
“Silenzio” mi urla contro.
“Smetti di piangere o ti faccio assaggiare la frusta”.
Io cerco di trattenere il singhiozzo e smetto di piangere.
“Alza la gamba”.
Io eseguo l’ordine e lui mi prende il piede e con un ferro apre l’anello e mi libera la caviglia.
L’uomo esce e chiude dietro di sé la porta.
Sento un catenaccio scorrere.
L’uomo ritorna poco dopo con una ciotola d’acqua e del pane raffermo.
Lascia tutto in terra ed esce nuovamente.
Io mi avvicino con cautela il pane e ne strappo un morso con i denti.
Mangio con avidità quel pane rancido e bevo l’acqua.
Finito mi accuccio in fondo alla stanza con gli occhi puntati alla porta. Non arrivano più rumori dalla stanza vicino alla mia.
Sono esausta, i miei occhi si chiudono contro la mia volontà e cado in un sonno profondo.
Quando mi sveglio sono nel letto di casa mia.
Accanto a me la mamma e Carmen.
Quando apro gli occhi la mamma mi abbraccia forte e mi bacia sulla fronte.
Carmen ha le lacrime agli occhi.
“ cosa mi è successo? “ mormorò.
“Sei stata rapita”, dice Carmen “ e Frank ha pagato il riscatto per la tua liberazione”.
Ora è la mamma che scoppia in lacrime.
Carmen mi racconta che da qualche tempo rapiscono le bambine e poi chiedono il riscatto alle famiglie. Quelle che non pagano non rivedono più le figlie che vengono fatte prostituire nei bordelli americani.
Io sono stata fortunata.
Frank è intervenuto e ha pagato il riscatto e così mi hanno liberato senza torcermi un capello.
“Siamo in debito con Frank” dice la mamma.
Carmen mi abbraccia.
“Verrai con noi in America”.
Mi metto a piangere.
“vorrei tornare in convento” dico.
“no”, dice la mamma, “andrai in America con Frank e Carmen e con il tuo lavoro pagherai il debito”.
Capisco che la mamma e Carmen hanno ragione, ma non riesco a smettere di piangere.
Amo Berenice e vorrei vivere con lei, ma devo obbedire alla mamma e partirò con Carmen e Frank.
Ed eccomi qui oggi. In attesa di un figlio.
Appena avrò partorito donerò il mio bambino o la mia bambina a Carmen e poi tornerò da Berenice.
Il mio debito con Carmen e Frank è pagato e non ho niente che mi trattenga qua.
Quando sono rimasta incinta ho scritto a Berenice.
Lei mi ha risposto.
Mi ama ancora, come io amo lei e mi aspetta a braccia aperte.
Continua
Il bambino di Ginevra è nato.
La ragazza ha fatto in fretta.
Il tempo di preparare l’acqua calda e gli stracci che già le contrazioni arrivavano ogni pochi minuti.
Carmen e Caterina al suo fianco.
Io in disparte.
Non è la prima volta che vedo nascere un bambino.
Sono più giovane di Carmen ma mia madre ha avuto molti figli dopo di me, e quando sono diventata abbastanza grande per aiutare ho potuto assistere alla nascita dei miei fratelli e sorelle.
Io e Carmen, quando la mamma si sentiva pronta, cacciavamo di casa tutti e ci occupavamo di lei.
Quando avevo dieci anni sono stata mandata a convitto dalle suore.
L’ambiente non era dei migliori.
Venivamo spesso punite anche per le mancanze più insignificanti.
Il cibo era scarso e alcune di noi per avere una razione di pasto supplementare erano disposte anche a farsi toccare dalle suore.
Io ed altre invece preferivamo rubarlo, ma quando venivamo scoperte, la madre superiora provvedeva personalmente a punirci.
Ci facevano inginocchiare sui ciottoli di ghiaia.
Erano appuntiti e si ficcavano nella carne provocandoci un dolore tremendo.
Alcune di noi sanguinavano e allora la madre superiora mandava via le altre e provvedeva a prendersi cura di lei.
Nessuna raccontava cosa accadeva nella cella della madre superiora.
Io lo scoprii quando toccò a me essere medicata per un sasso che mi si era conficcato nella carne.
Io e una mia amica eravamo state punite per aver condiviso lo stesso letto.
Una delle suore ci aveva scoperto mentre dormivano nude e abbracciate.
Si dormiva tutte in una grande camerata.
Ognuna di noi aveva il proprio letto con accanto un comodino.
Io avevo una amica del cuore, che dormiva accanto a me.
Di notte, quando tutte dormivano, lei sgattaiolava fuori dal letto per venire nel mio.
Ci toglievano entrambe la camicia da notte e restavamo nude.
Passavamo parte della notte a darci piacere poi ci addormentavamo abbracciate.
Di solito la mia amica alle prime luci dell’alba ritornava nel suo letto e nessuno si accorgeva di nulla.
Almeno così pensavamo noi.
La suora incaricata di vigilare sul nostro sonno insospettita dai mugolii che facevamo, ci colse in flagrante e nude come eravamo ci portò dalla madre superiora per la punizione.
La donna era ancora in camicia da notte e quando vide noi due nude non potei fare a meno di notare che i suoi capezzoli erano diventati duri e in evidenza.
Ci fece inginocchiare sui sassi appuntiti e mando via la suora che ci aveva condotte da lei.
“Così, disse, abbiamo qui due mangia figa.” Non avevamo mai sentito la madre parlare con questo tono ed anche la voce ci sembrava diversa, più roca.
Io, nel frattempo, sentivo uno dei sassi appuntiti entrarmi nella carne delle ginocchia.
Cercavo di alleggerire il peso ma la suora mi premeva le spalle con le mani aumentando così il mio dolore.
Dal male caddi in terra come svenuta.
La suora si avvide che le mie ginocchia sanguinavano.
Disse alla mia amica di andare via e lei senza farselo ripetere due volte scappò fuori dalla cella, lasciandomi sola.
La suora mi sollevò da terra e mi distese sul suo letto.
Prese dal cassetto una boccetta con il disinfettante e del cotone e con delicatezza mi pulì la ferita.
Il disinfettante bruciava ed io cominciai a piangere dal male.
Lei mi asciugò le lacrime con un fazzoletto e si distese accanto a me accarezzandomi il viso.
Nel farlo si soffermava spesso sulla bocca accarezzando le labbra e senza che me ne accorgessi, mi trovai la sua bocca sulla mia e le mani che ora mi toccavano il seno ancora acerbo ed in mezzo alle cosce.
La sua lingua cercò la mia in un bacio lascivo pieno delle nostre salive.
Poi la bocca prese i miei capezzoli succhiandoli dolcemente e una mano ora mi aprì le gambe e le dita si insinuarono dentro di me provocandomi subito un piacere a me sconosciuto.
La superiora sapeva come e dove toccare.
Raggiunsi l’orgasmo con pochi tocchi e lei si staccò da me, si tolse la camicia da notte e mi apparve un corpo stupendo tenuto fino a quel momento nascosto dalla pesante tonaca nera.
I suoi seni piccoli ma ben fatti, il suo ventre piatto e il suo pube senza peluria la rendevano ai miei occhi la donna più bella del mondo.
Mi allargò le gambe e vi pose in mezzo la sua testa.
La sua lingua iniziò a toccarmi il clitoride, poi le grandi labbra, poi le piccole labbra.
Aiutandosi con le mani, aprì il mio sesso e la sua lingua mi penetrò provocandomi un altro orgasmo, questa volta più intenso.
Sollevò la testa per guardarmi in viso e io le sorrisi.
Le chiesi di stendersi che volevo ricambiare il piacere.
Lei acconsentì ed io provai ad imitare il percorso della sua lingua.
Non so se riuscii a fare tutto giusto ma lei godette nella mia bocca e questo mi rese orgogliosa e felice.
Da quel momento la mia vita in convento cambiò radicalmente.
Non avevo più limiti al cibo e la madre superiora pretese che io dormissi con lei tutte le notti e per questo fece portare un piccolo letto nella sua cella.
Notte dopo notte Berenice, questo era il nome della suora, mi insegnò tutto ciò che sapeva su come fare godere una donna ed io da brava allieva imparai tutto diligentemente.
Un giorno chiesi di poter tornare dalla mia famiglia e lei fraintese questa mia richiesta come un abbandono e pianse tra le mie braccia.
Io la consolai promettendole che sarei tornata presto per restare per sempre con lei.
Avevo preso la decisione di farmi suora in modo da poter vivere tutta la vita con lei.
L’amavo e lei amava me.
Tornai a casa qualche giorno prima di Natale.
Berenice mi aveva riempito la valigia di regali per la mia famiglia e mi aveva anche dato un po’ di soldi da lasciare a mia madre.
Quando arrivai a casa la festa fu grande e passai un bellissimo Natale.
Carmen aveva appena conosciuto Frank e avevano deciso di emigrare in America dove lui avrebbe potuto entrare in polizia grazie ad uno zio.
La mamma non era contenta di questa partenza, ma sapeva che era per il bene di Carmen.
La notte dormivo in camera con lei e mi chiese di raccontargli come vivevo in convento.
Io ingenuamente gli raccontai della mia relazione con la madre superiora e la reazione di Carmen fu tremenda.
Mi prese a schiaffi, dandomi della puttana, della lesbica e mi vietò di tornare in convento.
Io però era decisa a ritornare da Berenice e subito dopo l’inizio dell’anno scappai di casa.
Partii di notte.
Un amico di mio fratello si era offerto di accompagnarmi.
Eravamo da poche ore in viaggio, quando il giovane ferma il carro con il quale stavamo viaggiando con la scusa di una ruota fuori asse.
Lui armeggia un po’ sul mozzo delle ruote e poi con la scusa di prendere degli arnesi mi fa scendere dal carro.
Appena a terra, mi tramortisce con una botta in testa e perdo i sensi.
Quando mi risveglio sono in una stanza buia e incatenata ad un palo di legno. La catena è corta e riesco soltanto a muovermi intorno al palo e a sdraiarmi su un giaciglio di paglia.
Piango. Il terrore per ciò che mi sta per accadere paralizza il mio corpo e la mia mente.
Sfinita dal pianto mi addormento.
Un urlo disumano mi sveglia di soprassalto.
Sembra provenire da una stanza affianco a quella dove sono segregata io.
Sento la voce di una donna che piangendo chiede pietà.
Un’altra voce le urla di tacere e sento il rumore di uno schiocco e subito dopo un altro urlo della donna. Gli schiocchi su susseguono uno dopo l’altro e gli urli poco dopo cessano.
Dalla paura me la faccio addosso. In fondo ho solo dodici anni e non so cosa mi aspetta.
Sento la porta della mia stanza aprirsi e istintivamente mi accuccio impaurita nell’angolo più lontano che riesco a raggiungere nonostante la catena che ho alla caviglia.
Un uomo alto e con il petto nudo entra.
Indossa una maschera di cuoio che copre il volto lasciando libera solo la bocca.
In mano tiene una frusta di cuoio nera come quella che si usa per i cavalli.
Si avvicina ed io per paura mi copro la testa con le braccia.
L’uomo fa schioccare la frusta senza toccarmi.
“Alzati” mi ordina.
Io ho paura e non mi muovo.
La frusta schiocca di nuovo e stavolta lambisce leggera il mio braccio.
Anche se non sento un gran dolore urlo per la paura.
“Alzati” mi ripete l’uomo ed obbedisco.
Mi osserva, poi si avvicina, io porto le mani alla testa.
“Non aver paura” dice “se farai quello che ti dico non ti farò del male”.
A quelle parole io scoppio a piangere.
“Silenzio” mi urla contro.
“Smetti di piangere o ti faccio assaggiare la frusta”.
Io cerco di trattenere il singhiozzo e smetto di piangere.
“Alza la gamba”.
Io eseguo l’ordine e lui mi prende il piede e con un ferro apre l’anello e mi libera la caviglia.
L’uomo esce e chiude dietro di sé la porta.
Sento un catenaccio scorrere.
L’uomo ritorna poco dopo con una ciotola d’acqua e del pane raffermo.
Lascia tutto in terra ed esce nuovamente.
Io mi avvicino con cautela il pane e ne strappo un morso con i denti.
Mangio con avidità quel pane rancido e bevo l’acqua.
Finito mi accuccio in fondo alla stanza con gli occhi puntati alla porta. Non arrivano più rumori dalla stanza vicino alla mia.
Sono esausta, i miei occhi si chiudono contro la mia volontà e cado in un sonno profondo.
Quando mi sveglio sono nel letto di casa mia.
Accanto a me la mamma e Carmen.
Quando apro gli occhi la mamma mi abbraccia forte e mi bacia sulla fronte.
Carmen ha le lacrime agli occhi.
“ cosa mi è successo? “ mormorò.
“Sei stata rapita”, dice Carmen “ e Frank ha pagato il riscatto per la tua liberazione”.
Ora è la mamma che scoppia in lacrime.
Carmen mi racconta che da qualche tempo rapiscono le bambine e poi chiedono il riscatto alle famiglie. Quelle che non pagano non rivedono più le figlie che vengono fatte prostituire nei bordelli americani.
Io sono stata fortunata.
Frank è intervenuto e ha pagato il riscatto e così mi hanno liberato senza torcermi un capello.
“Siamo in debito con Frank” dice la mamma.
Carmen mi abbraccia.
“Verrai con noi in America”.
Mi metto a piangere.
“vorrei tornare in convento” dico.
“no”, dice la mamma, “andrai in America con Frank e Carmen e con il tuo lavoro pagherai il debito”.
Capisco che la mamma e Carmen hanno ragione, ma non riesco a smettere di piangere.
Amo Berenice e vorrei vivere con lei, ma devo obbedire alla mamma e partirò con Carmen e Frank.
Ed eccomi qui oggi. In attesa di un figlio.
Appena avrò partorito donerò il mio bambino o la mia bambina a Carmen e poi tornerò da Berenice.
Il mio debito con Carmen e Frank è pagato e non ho niente che mi trattenga qua.
Quando sono rimasta incinta ho scritto a Berenice.
Lei mi ha risposto.
Mi ama ancora, come io amo lei e mi aspetta a braccia aperte.
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