Solo un racconto
di
amanuense
genere
confessioni
Diodato era un falegname, abitava in un piccolo villaggio del bellunese, proprio sotto le Dolomiti, le sentinelle di quel tratto d’Italia, oltre il quale, l’indigeno, diventa foresto.
Il nome lo doveva alla difficoltà che sua madre aveva trovato nel partorirlo, dato da Dio, nato di sette mesi, in luoghi dove ospedali non c’erano, Diodato era stato allevato e preservato con cura amorevole, da un medico condotto e da una levatrice, fin quando non fu’ in grado di cavarsela da solo e da solo aveva dovuto cominciare a cavarsela fin da bambino, suo padre morì che aveva dieci anni, così abbandonò la scuola e iniziò a lavorare, per aiutare la madre e sua sorella, di due anni più piccola.
Virginio, falegname del villaggio l’aveva preso con se, facendone un artigiano bravo e talentuoso, così quando la sera, dopo mangiato si metteva davanti al camino per scaldarsi, aveva preso l’abitudine di intagliare il legno, ricavandone statuine di rara fattura, che la domenica vendeva nei mercati dei villaggi, aumentando le sue esigue entrate.
Diodato, divenne grande, in paese cominciarono a chiamarlo Dio, per semplificare, solo quando erano in presenza del parroco, lo apostrofavano per intero o col cognome, in segno di rispetto nei confronti dell’Altissimo, che poi bestemmiavano all’osteria o in ogni dove, inventando sacramenti che solo i toscani eguagliano o superano.
Ormai uomo, s’innamorò di una ragazza del villaggio, come spesso capita in questi luoghi, dove ci si conosce tutti e non si permette a chi viene da fuori di diventare parte della comunità, lei, Rosita, prendeva il suo nome dal mese in cui era venuta al mondo: maggio.
Era una ragazza dai capelli corvini e dalle forme sode ma asciutte, gli occhi verdi come gli smeraldi, pietre che da queste parti si vedevano solo nelle foto in bianco e nero dei libri di scienze.
La sua famiglia era contenta di questo sentimento, Diodato ormai stava per ereditare la falegnameria, il suo maestro era vecchio e non aveva eredi, forse per colpa sua o della moglie, gli era affezionato come a un figlio, presto si sarebbe ritirato ed il suo Dio, avrebbe continuato l’opera.
Il matrimonio si celebrò nella chiesa del paese, per l’occasione Diodato offrì da bere a tutti e poi iniziò la sua nuova vita, nella casa costruita da lui stesso, con l’aiuto dei paesani.
La madre dell’uomo ormai vecchia era rimasta sola, perché pure la figlia si era maritata e se n’era andata a vivere in un altro villaggio.
La vita matrimoniale sembrava calzare a pennello al giovane, sua moglie stava in casa e sbrigava le faccende e lui si spaccava la schiena nella bottega, la sera dopo cena, continuava ad intagliare le sue statuine, nelle quali ormai era diventato molto bravo, la domenica continuava a venderle nei mercati.
La novità nella sua vita era quando andava a letto, allora prendeva Rosita con vigoria, come gli era stato insegnato dalle parole dei vecchi del villaggio, mancava di grazia, di dolcezza, s’infilava nudo nel letto e dopo aver intimato alla giovane moglie di spogliarsi, le spalancava le cosce, la leccava come avrebbe fatto un lupo con la sua carne, prima di mangiarla e poi entrava nel suo fodero di velluto col suo bastone nodoso, la sbatteva per una mezz’ora, la riempiva di se e dopo si girava dal suo lato del letto e dormiva sodo.
Rosita non diceva nulla ma era chiaramente umiliata da questo comportamento, mai un bacio, una carezza, la preoccupazione per il suo piacere, ad ogni modo in uno di questi amplessi, rimase incinta.
Quando lo scoprì, suo marito non dimostrò particolare entusiasmo, probabilmente dava per scontato che sarebbe accaduto.
Lui continuava a prenderla, ogni sera, allo stesso modo, qualche volta la chiavava alla pecora, montandola con la solita irruenza, di tanto in tanto le chiedeva di succhiargli la verga ma Rosita non era brava, non aveva esperienza e senza alcun amore, lo vedeva come l’ennesimo gesto di dominazione che in qualche modo rifiutava, a quel punto, Diodato le intimava di smettere e la prendeva in una delle due posizioni che conosceva, per poi tornare a dormire, come sempre.
Man mano che la pancia di Rosita ingrandiva, la posizione divenne una sola e l’uomo non smise fino a pochi giorni dal parto, quando anche la levatrice, gli fece capire, con linguaggio metaforico che non stava bene continuare a prendere la propria moglie in queste condizioni. Annuì silenziosamente facendo capire di aver afferrato il concetto e smise.
Nacque una bambina sana, cogli stessi occhi azzurri del padre, le venne dato il nome di Stella, come quella che Diodato aveva regalato a sua madre quando si erano fidanzati.
L’uomo la tenne in braccio per pochi minuti, prima di riconsegnarla alla madre, qualcuno giurò di vedere le lacrime bagnargli gli occhi, ma nessuno ebbe il coraggio di raccontarlo, quel piccolo fagotto nelle mani callose e grandi di Diodato sembrava un fuscello.
Passarono degli anni, Virginio era morto, come promesso aveva lasciato la bottega a Diodato, che con la barba sempre più striata di bianco, continuava il suo lavoro ed in più aveva aperto un laboratorio per sculture e preso sotto la sua guida un giovane.
La vita sembrava ripetersi.
Il giovanotto faceva la corte a Stella ed il falegname vedeva di buon occhio questo rapporto, quel ragazzo gli ricordava lui da giovane, sfortunato ma grande lavoratore e insieme intagliavano statuette sempre più belle, che vendevano nei mercati.
Rosita nonostante un amore mai ricevuto non era sfiorita, i suoi fianchi erano più larghi dopo il parto, ma i suoi seni erano rimasti sodi e le sue chiappe dure come quando era ragazza, ma non era più riuscita ad avere figli, suo marito continuava a prenderla allo stesso modo, anche se col tempo aveva diradato le notti nelle quali la montava.
Venne il giorno in cui Elia chiese la mano di Stella ed il falegname gliela concesse.
Organizzarono una festa e i due giovani andarono a vivere in una casa costruita alla fine del villaggio, aiutato dal suocero e dagli altri paesani.
Dopo qualche tempo Stella partorì un bambino, sano e cogli stessi occhi azzurri della madre e del nonno.
Il tempo ha portato via tutti loro, sono rimaste solo queste poche righe a ricordarli.
Lo spirito della montagna sta nell’essenziale, come questa storia semplice, che non ha un significato né vuole averlo.
É solo un racconto. [agosto 2018]
amanuense@blu.it
Il nome lo doveva alla difficoltà che sua madre aveva trovato nel partorirlo, dato da Dio, nato di sette mesi, in luoghi dove ospedali non c’erano, Diodato era stato allevato e preservato con cura amorevole, da un medico condotto e da una levatrice, fin quando non fu’ in grado di cavarsela da solo e da solo aveva dovuto cominciare a cavarsela fin da bambino, suo padre morì che aveva dieci anni, così abbandonò la scuola e iniziò a lavorare, per aiutare la madre e sua sorella, di due anni più piccola.
Virginio, falegname del villaggio l’aveva preso con se, facendone un artigiano bravo e talentuoso, così quando la sera, dopo mangiato si metteva davanti al camino per scaldarsi, aveva preso l’abitudine di intagliare il legno, ricavandone statuine di rara fattura, che la domenica vendeva nei mercati dei villaggi, aumentando le sue esigue entrate.
Diodato, divenne grande, in paese cominciarono a chiamarlo Dio, per semplificare, solo quando erano in presenza del parroco, lo apostrofavano per intero o col cognome, in segno di rispetto nei confronti dell’Altissimo, che poi bestemmiavano all’osteria o in ogni dove, inventando sacramenti che solo i toscani eguagliano o superano.
Ormai uomo, s’innamorò di una ragazza del villaggio, come spesso capita in questi luoghi, dove ci si conosce tutti e non si permette a chi viene da fuori di diventare parte della comunità, lei, Rosita, prendeva il suo nome dal mese in cui era venuta al mondo: maggio.
Era una ragazza dai capelli corvini e dalle forme sode ma asciutte, gli occhi verdi come gli smeraldi, pietre che da queste parti si vedevano solo nelle foto in bianco e nero dei libri di scienze.
La sua famiglia era contenta di questo sentimento, Diodato ormai stava per ereditare la falegnameria, il suo maestro era vecchio e non aveva eredi, forse per colpa sua o della moglie, gli era affezionato come a un figlio, presto si sarebbe ritirato ed il suo Dio, avrebbe continuato l’opera.
Il matrimonio si celebrò nella chiesa del paese, per l’occasione Diodato offrì da bere a tutti e poi iniziò la sua nuova vita, nella casa costruita da lui stesso, con l’aiuto dei paesani.
La madre dell’uomo ormai vecchia era rimasta sola, perché pure la figlia si era maritata e se n’era andata a vivere in un altro villaggio.
La vita matrimoniale sembrava calzare a pennello al giovane, sua moglie stava in casa e sbrigava le faccende e lui si spaccava la schiena nella bottega, la sera dopo cena, continuava ad intagliare le sue statuine, nelle quali ormai era diventato molto bravo, la domenica continuava a venderle nei mercati.
La novità nella sua vita era quando andava a letto, allora prendeva Rosita con vigoria, come gli era stato insegnato dalle parole dei vecchi del villaggio, mancava di grazia, di dolcezza, s’infilava nudo nel letto e dopo aver intimato alla giovane moglie di spogliarsi, le spalancava le cosce, la leccava come avrebbe fatto un lupo con la sua carne, prima di mangiarla e poi entrava nel suo fodero di velluto col suo bastone nodoso, la sbatteva per una mezz’ora, la riempiva di se e dopo si girava dal suo lato del letto e dormiva sodo.
Rosita non diceva nulla ma era chiaramente umiliata da questo comportamento, mai un bacio, una carezza, la preoccupazione per il suo piacere, ad ogni modo in uno di questi amplessi, rimase incinta.
Quando lo scoprì, suo marito non dimostrò particolare entusiasmo, probabilmente dava per scontato che sarebbe accaduto.
Lui continuava a prenderla, ogni sera, allo stesso modo, qualche volta la chiavava alla pecora, montandola con la solita irruenza, di tanto in tanto le chiedeva di succhiargli la verga ma Rosita non era brava, non aveva esperienza e senza alcun amore, lo vedeva come l’ennesimo gesto di dominazione che in qualche modo rifiutava, a quel punto, Diodato le intimava di smettere e la prendeva in una delle due posizioni che conosceva, per poi tornare a dormire, come sempre.
Man mano che la pancia di Rosita ingrandiva, la posizione divenne una sola e l’uomo non smise fino a pochi giorni dal parto, quando anche la levatrice, gli fece capire, con linguaggio metaforico che non stava bene continuare a prendere la propria moglie in queste condizioni. Annuì silenziosamente facendo capire di aver afferrato il concetto e smise.
Nacque una bambina sana, cogli stessi occhi azzurri del padre, le venne dato il nome di Stella, come quella che Diodato aveva regalato a sua madre quando si erano fidanzati.
L’uomo la tenne in braccio per pochi minuti, prima di riconsegnarla alla madre, qualcuno giurò di vedere le lacrime bagnargli gli occhi, ma nessuno ebbe il coraggio di raccontarlo, quel piccolo fagotto nelle mani callose e grandi di Diodato sembrava un fuscello.
Passarono degli anni, Virginio era morto, come promesso aveva lasciato la bottega a Diodato, che con la barba sempre più striata di bianco, continuava il suo lavoro ed in più aveva aperto un laboratorio per sculture e preso sotto la sua guida un giovane.
La vita sembrava ripetersi.
Il giovanotto faceva la corte a Stella ed il falegname vedeva di buon occhio questo rapporto, quel ragazzo gli ricordava lui da giovane, sfortunato ma grande lavoratore e insieme intagliavano statuette sempre più belle, che vendevano nei mercati.
Rosita nonostante un amore mai ricevuto non era sfiorita, i suoi fianchi erano più larghi dopo il parto, ma i suoi seni erano rimasti sodi e le sue chiappe dure come quando era ragazza, ma non era più riuscita ad avere figli, suo marito continuava a prenderla allo stesso modo, anche se col tempo aveva diradato le notti nelle quali la montava.
Venne il giorno in cui Elia chiese la mano di Stella ed il falegname gliela concesse.
Organizzarono una festa e i due giovani andarono a vivere in una casa costruita alla fine del villaggio, aiutato dal suocero e dagli altri paesani.
Dopo qualche tempo Stella partorì un bambino, sano e cogli stessi occhi azzurri della madre e del nonno.
Il tempo ha portato via tutti loro, sono rimaste solo queste poche righe a ricordarli.
Lo spirito della montagna sta nell’essenziale, come questa storia semplice, che non ha un significato né vuole averlo.
É solo un racconto. [agosto 2018]
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