Triage

di
genere
prime esperienze

L’ambulanza mi ha portato qui all’alba; da quando mi sono trasferito in questo angolo di montagna non avevo mai avuto bisogno dell’ospedale, non potevo chiedere a nessuno di accompagnarmi e salire in auto con una colica renale percorrendo dieci chilometri, era fuori questione.
L’aspetto del piccolo nosocomio è ordinato, d’altra parte l’efficienza dell’Alto Adige non è in discussione, specie da chi proviene da realtà urbane decisamente più allarmanti.
Gli infermieri mi appaiono come soldati pronti all’azione, mentre i portantini quasi si confondono con l’ambiente circostante, solo il caratteristico odore del disinfettante è uguale dappertutto.
Il bianco ed il celeste sono i colori ricorrenti, rilassano la mente e pacificano gli occhi.
Niente a che vedere con le sale d’aspetto e gli ambulatori che ho frequentato nella mia città, dove il grigio è vomitato su pareti bianche, sporcate da piedi maleducati.
Il personale con il loro vociare a volte eccessivo ed inutile, aumenta il fastidio di un luogo santificato alla salute emergenziale.
I dottori qui si vedono, non bisogna cercarli perché qualche regola idiota, li costringe a fare la spola tra il pronto soccorso e il reparto.
Prima o poi qualcuno penserà alla medicina d’urgenza come qualcosa di autonomo e non come un riflesso di un’azienda sanitaria, un surrogato del reparto, bensì un ospedale nell’ospedale.
L’infermiera che mi accoglie al Triage scrive i miei dati e le informazioni che le somministro con competenza sintomatica.
Ho già avuto altre coliche renali: il dolore è prima sordo poi via via in un crescendo, degno di un’orchestra classica, raggiunge l’apice quando un’invisibile mano stringe il rene, come fosse una spugna da strizzare, dopo di che torna a placarsi, mentre il calcolo continua la corsa, urtando con le sue punte di silicio il tessuto spugnoso dell’organo.
Speri che possa prendere il più velocemente possibile la via della vescica, dove ti creerà contrazioni ma sarà quasi pronto per essere espulso.
La matura infermiera sorride alla mia richiesta di un antidolorifico, chiedendomi se preferisco accomodarmi in sala d’aspetto su una bellissima sedia di plastica azzurra, o su un lettino nella stanza attigua, presto mi chiameranno, dice.
Scelgo il lettino, anche se non so quanto riuscirò a stare steso; intraprendo una respirazione lenta e profonda imparata a yoga, a tratti sembra fare effetto.
Cerco di svuotare la mente, concentrandomi su un punto fisso nel muro, l’acqua che ho nello zainetto, preparato prima dell’arrivo dell’ambulanza, nella fase acuta non serve, rischierei solo di rigettarla.
Estraggo il libro di Paolo Rumiz che avevo sul comodino, spero che leggendo qualche riga, riuscirò ad allontanare quello che in questo momento è tornato un dolore fisso ma sordo, quindi sopportabile.
Nella scala dei valori che un dolore può raggiungere, quello delle coliche renali è messo al secondo posto, subito dopo il parto, ma ci sono donne pronte a giurare che può superarlo e mi chiedo, chi sono io per dubitarne?
Cinque minuti dopo viene un infermiere e mi porta con tutto il lettino nella sala visita 5, la dottoressa di turno è una bella donna, avrà intorno ai trentacinque anni, capelli corti e sbarazzini, un bel collo, sottile e invitante come quelli surreali di Modigliani.
Legge la cartella clinica, mi visita brevemente, rivolgendomi domande alle quali rispondo con precisione circostanziata e le chiedo ancora una volta un’iniezione per lenire il dolore, fa un cenno all’infermiere che l’assiste e finalmente arriva un Voltaren, spero non mi buchi lo stomaco penso mentre il liquido dolorosamente trova la via nel mio gluteo.
Mi riportano fuori in attesa di un’ecografia; apro il libro riprendendo la lettura.
Il silenzio monacale che aleggia qua, mi permette di concentrarmi sulle pagine del mio autore nomade, la sua esperienza è ogni volta uno stimolo ad imitarlo ed a cogliere gli aspetti più significativi del viaggio, che comincia nel momento stesso in cui lo immagini.
Vengo interrotto dal ritorno dell’infermiere, mi chiede come va, e con mia grande sorpresa, mi rendo conto che la lettura ha allontanato il dolore; gli faccio un cenno per indicare che sto meglio.
Lo seguo nell’ambulatorio dell’ecografia dove ritrovo la dottoressa di prima, accenno al miglioramento mentre mi sdraio sul lettino, sorride confortante, poi scorgendo la mia lettura mi chiede incuriosita, gliene parlo e mentre mi scopre la schiena sporcandomi col gel, mi racconta del suo prossimo viaggio in Norvegia.
Comincia a strofinare l’ecografo, soffermandosi sul rene sinistro, poi si sposta su quello destro, interrompe il racconto feriale chiedendomi di abbassare i pantaloni della tuta, penso ad un controllo pelvico per vedere le condizioni della vescica, invece mentre l’ecografo carezza la pelle, la sua mano scivola sul pene, fino a quel momento inerme, e comincia a carezzarlo, pochi tocchi bastano perché prenda consistenza, a quel punto interrompe l’ecografia e spingendo la sedia verso la porta, la chiude a chiave.
Il mio silenzio è misto a sorpresa e curiosità, come se fosse una visita in piena regola, mi sottopongo al trattamento senza fiatare, lei riprende a carezzarmi, lentamente, con maestria, aggiunge un po’ di gel sul palmo della mano dando una maggiore fluidità al movimento, mi sistemo meglio sul lettino e spero che non decida di smettere ma soprattutto che nessuno bussi alla porta, poi all’improvviso s’inginocchia e lo comincia a picchiettare con la punta della lingua sulla cappella gonfia e qualche secondo dopo lo fa scomparire tra le sue labbra, completamente, reclino la testa all’indietro alla ricerca di una concentrazione che si trova altrove, poi allungo la mano destra e le carezzo i capelli, scoprendole la fronte, lei alza le iridi azzurre su di me, mentre continua a succhiarmi, mantengo quel contatto visivo che trovo complice ed unico, poi le schizzo la mia eccitazione dentro la bocca, svuotandomi.
A questo punto si alza, mi sfiora la mano nel quale tengo ancora il libro, ormai gualcito dalla morsa, mi offre della carta da un rotolo per pulirmi la schiena e forse anche il resto, si siede alla scrivania e mi dice che lei sarebbe per un ricovero di qualche giorno, così, tanto per escludere altre piccole complicazioni.
Le chiedo se è proprio necessario e con uno sguardo obliquo, annuisce, sorridendomi.
Come dire di no a chi si prende cura di te?
[agosto 2018/revisionato marzo 2021]

amanuense@blu.it






scritto il
2024-08-12
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